Da scommettopoli a calciopoli, dalle partite truccate alle indagini messe a tacere, "non sono convinto che le cose siano andate sempre come ce le hanno raccontate". Oliviero Beha, giornalista e scrittore, fa ancora una volta l’analisi del mondo pallonaro e di tutto ciò che gli ruota attorno nel libro "Il calcio alla sbarra" (scritto in collaborazione con Andrea Di caro) ribadendo, se ce ne fosse bisogno, che la sacra sfera "non rimbalza più” come dovrebbe. La soluzione per ridarle tonicità non è semplice, perché il calcio è solo un aspetto della società nel suo complesso anche se, a dirla provocatoriamente, "togliere la spina per un anno sarebbe solo un toccasana".
Sicuro che questo porterebbe dei vantaggi?
"Un anno senza calcio avrebbe il vantaggio di porre sia il mondo interno al pallone che quello esterno della società italiana davanti allo specchio e valutare dove si è arrivati. Sarebbe un tentativo per disintossicarsi, vedere chi sono gli spacciatori e considerare gli interventi da fare. In pratica ci vorrebbe un gigantesco Sert (Servizio per le tossicodipendenze) nazional popolare".
Una affermazione più che altro provocatoria.
"Certo, perchè è una cosa impossibile da realizzare per tanti motivi. Per gli interessi che ci sono dietro, per la tossicità in circolazione per cui l’italiano pensa alla fine allo scudetto di cartone, alla rivalità Juve-Inter, o a quel che viene fuori dall’inchiesta sulle scommesse, sperando ovviamente che non venga coinvolta la squadra per cui fa il tifo, invece di pretendere di sapere davvero cosa è successo. Questo è purtroppo il meccanismo e, in una situazione simile, non basta il Sert nazionale e nemmeno Napolitano che dice “basta con questo calcio”, pontificando com’è giusto che faccia un Capo dello Stato, perché nemmeno lui può più di tanto contro il Dio pallone italico. Se dicesse infatti “sospendiamo il calcio per un anno perché davvero abbiamo esagerato” gli italiani drogati di pallone gli risponderebbero “guardi abbiamo scherzato, e ora si nomina un altro Presidente della Repubblica”.
E al di là delle battute?
“Al di là delle battute bisognerebbe almeno che ognuno facesse il suo mestiere. Che la giustizia sportiva non fosse più condizionata dal potere della Federazione, che a sua volta è condizionata dal potere dei grandi club, cosa che spiega come la vicenda calciopoli abbia fottuto Moggi e gli altri semplicemente perché qualcuno potrebbe averlo voluto dall’interno della Juventus”.
Nel libro lei fa anche riferimento al Milan evidenziando come proprio quando Berlusconi paventò l’ipotesi di mettere Moggi al posto di Galliani vennero fuori le famose intercettazioni.
“Moggi l’ha detto in tutte le salse e – del resto – non ci vuole molto per capire che a Galliani quanto stava succedendo non faceva piacere. Inoltre, facciamoci caso, il Milan è sempre stato zitto in questi anni e non ha mai detto che Moggi è un mascalzone. C’è anche di più: in quell’anno i rossoneri hanno vinto una coppa dei campioni partendo dalla penalizzazione. Ciò che voglio dire è che se in quell’anno fosse stata fatta una pulizia generale e si fossero considerate tutte le telefonate (non solo quelle della Juve e un po’ quelle della Fiorentina, del Milan e della Lazio) avremmo avuto una sorta di repulisti generale. Invece no, l’operazione è stata mirata: bisognava essenzialmente fottere Moggi che era il più bravo del gruppo di gaglioffi interni al mondo del calcio (gli altri facevano le stesse cose del capataz ma non così bene). Per questo quello che mi fa grande impressione è che da 5 anni l’Inter e Moratti, strumentalizzando la memoria di Facchetti, parlano di “scudetto degli onesti”, quando lì si facevano le stesse telefonate”.
Quindi Moggi faceva parte di un sistema che coinvolgeva tutti ed ha pagato per tutti?
“Diciamo che ha fatto da discarica e nella “discarica Moggi” sono finiti i rifiuti indifferenziati, come succede spesso in questo paese. Poi si è dato agli italiani il messaggio “adesso vedrete un altro calcio”. Ma, uno non era vero, due erano tutti coinvolti, tre fino a prova contraria non c’è la prova diretta che alla Juve avessero condizionato i campionati anche se tutti pensiamo l’abbiano fatto. In realtà, in termini generali, qualcuno l’ha fatto e altri hanno tentato di farlo. Alla fine, ciò che si può dire è che è marcio il meccanismo ed è marcio il sistema”.
Può quanto successo nel calcio essere considerato lo specchio della società? C’è una contiguità storica tra tangentopoli e calciopoli?
“Forse contiguità è poco. Forse c’è addirittura una sovrimpressione. Del resto le figure di spicco del calcio italiano hanno ruoli importanti nella società. Si chiamano Berlusconi, Moratti, Della Valle, Cragnotti e Abete che vuol dire la filiera Bnl, Montezemolo. Sono figure della vita italiana, non solo del calcio italiano”.
Alla fine si dice che lo spettacolo (e il business) deve continuare.
“E’ esattamente quello che dicono, ma siamo di fronte a quella tossicità di cui parlavo all’inizio. Mi dirai che c’è una cosa che non torna, che un cittadino qualunque, e i tifosi non beceri e completamente accecati, dovrebbero domandare: ma scusate, se il calcio è questa grande passione di cui nessuno può fare a meno, così intossicante, sarebbe nell’interesse dei “gestori” del Paese farlo andare bene in modo che gli italiani, popolo bue, pensino al calcio e non ai loro guai. Il problema è che non è così semplice perché quelli che gestiscono il calcio sono gli stessi che gestiscono il Paese, e, se non sono capaci di gestire il paese, perché dovrebbero essere capaci di gestire il calcio?”
C'è una particolarità che ultimamente caratterizza il funzionamento delle società calcistiche: i vivai non funzionano più. Non si punta più sui giovani perché le società hanno ormai attese di breve periodo e puntano sugli stranieri?
“E’ una spiegazione di carattere generale e generazionale vera, ma ce n’è anche un’altra più bieca. E cioè che i vivai sono anch’essi in preda a una dose di corruzione come altri settori del paese. Spesso i genitori pagano per far giocare i figli, non c’è meritocrazia e, a quel punto, buona parte di questi ragazzi si ritrovano verso i 18-20 anni a giocare in giro per le categorie inferiori sbandati e pronti ad occupare dei posti solo perché hanno un curriculum che attestano la provenienza dalla Primavera di questa o quella grande squadra. Questo inquina tutto. Inoltre tale investimento non fa girare tanti soldi come fa l’acquisto degli stranieri, che magari assicurano anche un giro di nero in bilancio. E’ insomma più conveniente che far crescere i giovani dei vivai e portarli in serie A se lo meritano. A questo proposito, nel libro parlo anche dello scandalo di premiopoli, ovvero di quello che riguarda i premi che le società dovrebbero pagare alle società inferiori per la valorizzazione dei giovani. Scandalo insabbiato dalla Federazione".
Lei sostiene che il denaro facile ormai è il vero doping dello sport.
“La verità, per usare uno slogan, è che siamo passati dalle farmacie di Zeman di 13 anni fa al sistema delle corse ippiche. Ormai il calcio somiglia molto al mondo dei cavalli e di questo passo farà la fine dell’ippica con le sue scommesse”.
Inevitabile che le chieda se può continuare così e come si cura la malattia.
“Non si cura la malattia del calcio, si cura la malattia del paese, rifondandolo dal basso. Quando ci sarà una società civile che avrà dato segnali, come ha fatto con i referendum o con la manifestazione delle donne, oltre la politica e oltre il potere, quando i tifosi si scuoteranno (una contraddizione in termini dato che il tifoso è per sua natura accecato dal tifo, e noi tifiamo anche in politica per un partito cadendo in una sorta di malattia sociale) allora potrà esserci un cambiamento. Bisogna inoltre puntare sui giovani. Ci vorrebbero altre persone in Federazione, altre persone nelle società e nuovi dirigenti. Ci vorrebbe insomma la rinascita di un paese. Si può affermare che la rinascita del calcio passa per la rinascita del paese e la rinascita del paese passa per la rinascita del calcio”.
Fonte: tiscali
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