Ancora non è stato svelato il nono mistero calcistico, quello relativo alla potenza evocativa delle figurine Panini. Rettangolini multicolori, santini forse anche taumaturgici ma con sicuri effetti memoriali, viagra contro la dimenticanza.
All’ombra dei vecchi Album Panini, incollate a dovere con la coccoina profumata di mandorla, oppure disordinatamente ospitate nelle saccocce spesso bucate, in attesa dei riti (celo, celo, mi manca!), quelle figurine sono come fotografie di soldatini, ubbidienti, per sempre quasi cristallizzati nella loro divisa. Fissati dall’obiettivo, i campioni o i campioncini o i vecchi marpioni o i faticatori umili se ne stanno lì obbedienti, con poche deviazioni dalla norma, al massimo lo sguardo accecato dal sole, qualche ritocchino del fotografo, magari mal riuscito in caso di cambio di casacca.
Di tutt’altro impatto questo Atlante illustrato del calcio per gli anni settanta. Sono poche le foto davvero professionali, poche le azioni e i gol, solo appigli per la fantasia fecondata dai ricordi. Qui, nell’Atlante dico, domina appunto l’anarchia, la libertà, i soldatini sono colti in libera uscita (e bevono e fumano e hanno belle donne e potenti vetture), all’interno delle loro case, oppure sui campi di lavoro in pose tuttavia rilassate e poco professionali. Ma colpiscono quelle donne-bamboline platinate e tutte uguali, specie di Barbie trasgressive, con trucco eccessivo, occhi stralunati (unica eccezione una sorprendente Gigliola Cinquetti versione Joan Baez nostrana, con lo sguardo intenso da parigina esistenzialista, ormai ne ha l’età). Per fortuna si trasformano un po’ quando diventano mamme, allora il viso torna pulito, il sorriso è ancora quello nostro, viva il Mediterraneo, mare nostrum amen.
Pagina dopo pagina si conformano così nuove e insieme vecchie mappe della memoria, che è storica ma insieme personale. Che è appunto la storia comune più o meno condivisa (oggi, non allora), degli anni duri, anzi durissimi e di piombo, quando le pallottole fischiavano e il paese sbandava pericolosamente, cercando di ritrovare la strada maestra. Non era facile in quella nebbia fitta come pece, ma bene o male ce l’abbiamo fatta. Poi si allungano come collane le perle dei ricordi personali, spesso tristi e disorientati, con qualche lampo, forse i primi amori giovanili, ovviamente non contraccambiati. Ciascuno si ritaglia il suo vestito di ricordi e di rimpianti. Ma è singolare che lo sfondo sia quello del campionato di calcio, l’ultimo romanzo popolare prima dell’arrivo dell’Apocalisse.
Sono come stimolazioni elettriche quelle foto, quei paesaggi umani degli anni settanta. Certo, ci sono i nostri eroi, i Riva-Mazzola-Rivera e compagnia bella, poi le facce espressive dei Giubertoni o dei Traini, veri gladiatori delle aree. Tutti piuttosto zazzeruti, barbe incolte e baffoni in libertà (come sono lontani i visi clonati e profumati d’oggidì, con i crani rasati e lucidati, e gli orecchini e le forcine e i nastrini e le fascette!). E guardatevi il faccione sempre un po’ incazzuto e sospettoso di Sollier, il calciatore dal pugno alzato, viva-Marx-viva-Lenin-viva-Maotzetung! E godetevi le facciazze dei preti d’allora, occhiali scuri alla padreligio, aspetto mafiosetto anzichenò.
Qualcuno di loro se n’è andato anzitempo. Per esempio Renato Curi, morto in campo, per esempio il mio quasi compaesano Re Cecconi, qui ritratto in veste di paracadutista, oppure stravaccato sul letto – togliti le scarpe Luciano, direbbe mammà! – a leggersi un libro di Alfredo Pigna (viso noto della Tivù di quegli anni) sul pugilato. Come dire che quel ragazzone dalla faccia di prussiano (noi bustocchi lo chiamavamo Volkswagen) fosse inconsapevolmente alla ricerca d’un tragico destino. Anni d’eccessi in tutti i sensi, quegli anni, anzi di trasformazioni. Con la Fiorentina e il Cagliari e la Lazio e il piccolo grande Toro a vincere scudetti, e le provinciali di lusso (tipo Vicenza e Perugia) a bussare al portone della serie maxima. E c’erano certo imbrogli e abusi e stava per arrivare il calcio-scommesse, e c’erano ancora i presidenti sciupafemmene e sciupasquadre, gli allenatori filosofi, e quelli che parlavano in dialetto. Un’altra Italia, fra l’amatriciana e la Milano non ancora da bere; un’altra Italia, forse migliore, chissà.
Fonte: tgcom
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