Chi avesse voglia di capire in quali condizioni sia stata ridotta la scuola italiana non si perda Togliamo il disturbo (ed. Guanda) di Paola Mastrocola. Con ironia e sorprendente leggerezza, nonostante i temi dolenti dell’ignoranza di giovani che monta e del ruolo degli insegnanti, la scrittrice torinese, professoressa al liceo, si lancia in un reportage da un “luogo da cui guardare la realtà”. Fosse un’ospedaliera, parlerebbe di sanità. “La molla, per chi scrive, spesso consiste nel vedere cose che non piacciono, che si vorrebbero diverse: forse si scrive per cambiare un po' le cose – spiega Mastrocola. - O forse solo per dirlo e, dicendolo, trovare amici, gente che la pensa allo stesso modo, con cui stabilire sintonie, complicità”.
Che stagione vive la scuola?
"La scuola com'è oggi non mi piace: quando ogni anno conosco i nuovi allievi di prima liceo, mi rendo conto delle cose che non sanno e potrebbero sapere, e mi dispiace per loro, perché la strada è lunga e non va bene perdere tutto questo tempo prezioso".
Oltre che essere una scrittrice affermata e di grande seguito, lei continua ad insegnare. Proprio niente riesce a scalfire questa sua antica passione, si potrebbe anche dire dire vocazione?
"Sì, avrei potuto cambiare mestiere, almeno dieci anni fa. In fondo, scrivere era quello che volevo fare nella vita. E invece ancora oggi non riesco ad abbandonare la scuola: è una sfida continua, è un luogo dove ogni giorno vado per "passare" le cose che amo, sperando di contagiare gli altri".
Riuscirà mai a “togliere il disturbo”? E cosa accadrà quando la scuola sarà definitivamente sconfitta?
"Più la scuola si allontana da quel che vorrei, più io mi intestardisco e faccio cose sempre più difficili e "inutili": quest'anno ho portato in classe, in una seconda liceo scientifico, le poesie di John Donne, stiamo traducendo in inglese L'infinito di Leopardi, abbiamo letto Il berretto a sonagli di Pirandello e anche qualche passo del suo saggio sull'umorismo, e ora leggeremo qualche Operetta morale. Quando la scuola sarà definitivamente sconfitta, finalmente ne faremo un'altra".
Scrive dei ragazzi, del loro modo di abbigliarsi, a tratti sembra che li ami, a tratti si ha la sensazione che la infastidiscano.
"Vedere con lucidità le cose non vuol dire disprezzarle, anzi. E' come se un primario criticasse il sistema sanità per come funziona male oggi in Italia: dovremmo dedurne che è un cattivo medico, odia i suoi malati e invece di curarli vuol farli morire? Purtroppo è l'accusa che in genere mi rivolgono i cattivi lettori o, peggio ancora, coloro che mi sono ostili a priori, senza neanche leggere i miei libri. Credono di capire come io faccia l'insegnante e quanto io ami o non ami gli allievi dal fatto che critico la scuola di oggi".
Come vorrebbe che fosse la scuola?
"La critico perché la vorrei migliore, più seria, più responsabile del lavoro che fa e di come prepara i giovani. E poi, diciamoci la verità: un insegnante ha un solo modo di amare i propri allievi: insegnando bene la propria materia. Tutto il resto sono ipocrisie mielose, luoghi comuni di un buonismo di cui sinceramente la scuola oggi non ha alcun bisogno".
I ragazzi li definisce “non studianti”, come si è arrivati ad una scuola dove studiare è una casualità?
"Intanto abbiamo preferito una scuola che puntasse alla socializzazione, allo star bene insieme, all'imparare divertendosi; non certo una scuola che puntasse alla solitudine, alla concentrazione, alla fatica intellettuale. Volevamo aiutare il disagio, più che elevare il livello culturale dei giovani. E' stata una scelta ben precisa. Inoltre la società ha raggiunto un certo grado di benessere e si muove ormai sul principio del piacere e del divertimento, per cui i figli studianti limiterebbero gli agi dei weekend con gli amici a fare sport e viaggi. Infine adesso c'è il trionfo della tecnologia e il mito della connessione perpetua, per cui stiamo passando il messaggio che studiare sui libri non serve più, è roba vecchia: basta avere un computer e uno smartphone e il mondo è nostro".
Anche i mass media hanno le loro responsabilità nell’aver affermato il “trionfo del chiunquismo”, come lo definisce lei. In buona sostanza siamo tutti professori, pur non avendo vinto una cattedra?
"I mass media hanno cavalcato l'onda di una democrazia falsamente intesa, e hanno contribuito a costruire il presenzialismo totale e l'intervento continuo e massificato: un microfono oggi non si nega a nessuno, tutti hanno il diritto di parlare. Peccato che è una falsa libertà, che non conduce ad alcunché. E' il mito della partecipazione selvaggia: se non partecipi non sei nessuno. Così finisce che "chiunque" ha il diritto di dire tutto, sempre e dovunque".
Nel suo libro scrive che voi insegnanti avete cominciato a scendere dalla cattedra, a dare del tu ai ragazzi, a mettere i banchi in cerchio. Un ritorno all’autoritarismo sarebbe salutare?
"Impensabile tornare a essere autoritari, nessuno lo vuole. E nessuno di noi ne sarebbe capace, anche volendolo.. Sarebbe bene invece avere autorevolezza, questo sì, a cominciare dalle famiglie però. Ma l'unico luogo percepito oggi come autorevole è la tivù: o entri lì dentro o, di nuovo, non sei nessuno. Sicuramente un umile e oscuro professore, che pur possegga tutta la sapienza di questo mondo e faccia anche benissimo il suo lavoro, non è nessuno, agli occhi di una maggioranza che si nutre di isole dei famosi"
Si parla molto dello scadimento di prestigio sociale degli insegnanti, lei ha risolto guadagnandosi un posto di rispetto nel mondo editoriale?
"Mi sembra una domanda svilente e avvilente: scrivo da quando ho undici anni, non mi sono certo messa a scrivere per risolvere un problema di prestigio sociale".
Non era mia intenzione offenderla e me ne scuso. Se le proponessero di fare il ministro della pubblica istruzione?
"Se mi facessero fare la scuola che ho in mente, lo farei solo per tre mesi, alla maniera di Cincinnato, poi tornerei a insegnare. E a scrivere".
Fonte: tiscali
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