In un piccolo paese i ragazzi sognano un improbabile ribellismo, soppesano la noia nei loro discorsi, bevono e chiacchierano, dichiarano la loro insofferenza rispetto ai riti senza emozioni della provincia ma sono incapaci di farne a meno in nome di una comoda routine sociale. Al centro di questo microcosmo c'è un vecchio stabilimento caseario riadattato a discoteca,
"No, né io mi sento uno scrittore noir. Le storie violente e criminali mi inquietano già solo come lettore, non vedo l'ora che si arrivi alla soluzione per uscire da una specie di apnea".Dunque è una fotografia di un certo mondo giovanile ritratto nel modo più asciutto e realistico possibile?
"Questo sì, in particolare ho cercato di parlare di una generazione a cui, man mano che mi avvicino ai quarant'anni, io stesso sento di appartenere. Quella di chi aveva vent'anni o poco meno negli anni Novanta, un periodo in cui il crollo dell'edonismo yuppie lasciò molti increduli e immalinconiti, di fronte alla percezione che i sogni tornassero ad essere a misura d'uomo, anzi, di mezzo uomo. Erano gli anni del grunge dei Nirvana, dei Rem post Losing My Religion, perfino la musica da discoteca si faceva oscura e inquietante. Il mondo che descrivo è quello della provincia, delle piccole comunità durante i Novanta, dove i giovani si trascinavano tra canne, discorsi di quieta disperazione, mancanza di prospettive e una considerazione prossima allo zero da parte del resto della comunità". E' quell'onda lunga a trasportare fino ai nostri giorni il sentimento oscuro e spaventoso legato all'immaginare il futuro?
"In una certa misura sì. I ragazzi che descrivo io hanno sogni relativi alla sfera dell'avere, inteso come status symbol, ma anche all'essere. In questo senso essere altrove, fuggire, e non per fame ma per una nuova forma di disperazione. Qui non c'è il sogno americano, viene considerato impossibile da realizzare, dunque sognare è rischioso, dannoso".Colpa della cattiva gestione politica e della percezione ormai diffusa di come chi sta nei palazzi del potere sia lontanissimo dalle necessità della gente. I fermenti indipendentisti sono una reazione a questa consapevolezza?
"L'indipendentismo ha molte facce e molte sfumature. Nella sua forma migliore, a mio parere, contiene una voglia di rivalutazione della propria identità. Che passa per la riscoperta della lingua locale, delle radici, delle tradizioni, di un rapporto consapevole con il proprio territorio d'origine. Non è un caso che questo sentimento sia tipico di oggi, dove i viaggi low cost danno molte più possibilità ai giovani di spostarsi e fare esperienze di vita altrove. Sono in molti casi gli stessi che poi scelgono di tornare al loro paese, alla loro provincia". Forse è per questo che le frasi in lingua sarda di Cisàus vengono tradotte con note a pié di pagina in inglese, mai in italiano?
"Non necessariamente. La verità è che tutto è nato per gioco. Quando il mio editore ha tradotto in inglese una frase in sardo che avevo scritto nella storia, la resa è stata così divertente da convincerci a riproporre questo stratagemma in tutta la narrazione".Se non c'è un ideale forte che crea la voglia di fuga, se il ribellismo è generico, allora Cisàus racconta una generazione di sconfitti?
"Nemmeno, perché i protagonisti non si sentono sconfitti. Sono annoiati, certo, ma si cullano in quella serie di consuetudini sociali legate alla loro piccola comunità, viste come immutabili e rassicuranti. E' questo che ho voluto raccontare, intrecciando diverse storie in una sorta di polifonia dove ho travasato la mia esperienza di sceneggiatore per il cinema. E in cui 'fotografo" la mia generazione nel modo più preciso e sentito possibile".
Fonte: tiscali
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