Un libro pubblicato non da una casa editrice "tradizionale" ma attraverso un sito internet di self publishing, ilmiolibro.it, perché "chi scrive deve rimanere l'unico vero titolare dei diritti della sua opera". Ma anche perché è un modo per "rendere la produzione editoriale, come del resto quella discografica, accessibile a tutti". E questo è ancora più valido quando le opere esplorano materie delicate e importanti come l'informazione e l'uso (o sarebbe meglio dire l'abuso?) che spesso se ne fa, quale strumento di diffamazione. Avvocato e difensore nei principali processi di terrorismo internazionale dal 1995 ad oggi, Luca Bauccio ama le cause legate al diritto dell'informazione e, in particolare, alla diffamazione a mezzo stampa, secondo qualcuno, sua vera "ossessione". Fatto sta che Primo, non diffamare (2011, 18,50 euro in libreria,12,50 se comprato su internet e 4,50 in formato ebook) esplora il mondo dei media, alla ricerca di una chiave interpretativa che dia la misura di come e quanto la menzogna e la manipolazione della notizia contribuiscano "a creare carriere editoriali, televisive e parlamentari". Bauccio, quattro libri già pubblicati e co-fondatore del sito di file sharing Youreporter, scrive che la risposta "è sotto gli occhi di tutti: ci sono giornali e giornalisti che hanno fatto dell'esagerazione verbale una cifra personale, un segno di riconoscimento".
Un libro dedicato ai “giornalisti che scrivono opinioni senza spacciarle per la realtà”.
"E' un libro di parte nel senso che guarda alla realtà, all'informazione dalla parte del cittadino e del cittadino diffamato. Nel senso che non ha la pretesa di fare un affresco sull'informazione. Però non dimentico che ci sono dei bravissimi giornalisti che evitano di commettere l'errore di molti, cioè di spacciare pure congetture, tesi, a volte farneticazioni, per la realtà. E a furia di ripeterle queste farneticazioni sembrano quasi incontrovertibili. Questo è un male gravissimo".
Cioè, si tende a confondere i fatti con le opinioni?
"Esatto, quando invece c'è bisogno che l'informazione ricordi qual è la distinzione tra i fatti e le opinioni. Perché forse è proprio in questa distinzione che ritrova una sua nobiltà il mestiere del cronista. Se non ci fosse questa distinzione forse non ci sarebbe più bisogno della carta stampata e dei giornalisti, perché tutti potrebbero svolgere questo mestiere. Quindi in fondo pur essendo un libro polemico nei confronti di certe esagerazioni e di certe manifestazioni patologiche dell'informazione, è un libro che ama e riscopre il valore della vera informazione e dell'identità del giornalista".
Lei scrive che "si diffama sui quotidiani, nei programmi tv, nei blog, alla radio". Poi ci viene in mente il cosiddetto “metodo Boffo”, utilizzato da alcuni giornali, e più di recente il caso Pisapia. E' diventato lo sport nazionale.
"Come avvocato assisto molte persone diffamate e mi accorgo che è un fenomeno molto più vasto di quanto non si creda. Ma del resto basta aprire un giornale o certi giornali per accorgersi come la macchina del fango cosiddetta, l'organizzazione sistematica del falso spacciato per vero, è diventata un metodo di comunicazione e anche di impresa. Perché diffamare rende sia sul piano politico che anche sul piano delle vendite. Il gossip, lo scandalo, il dossier dei servizi segreti spacciato per responso divino sono in grado di costruire campagne di stampa di far alzare l'attenzione e trascinare nel fango il profilo di un uomo, le sue opere, la sua vita e di frantumare anche i suoi progetti futuri. Si pensi a cosa ha fatto l'ex sindaco di Milano, Letizia Moratti, con Pisapia. Lei è stata doppiamente vittima della diffamazione, prima di tutto perché ha emulato un metodo del quale poi è rimasta vittima. Il tentativo è fallito perché Pisapia ha potuto reagire davanti alle telecamere, ma pensiamo ad un cittadino qualunque. Sono angosce, dolori spesso tragedie familiari".
Chi sono i diffamati?
"I diffamati sono persone comuni, coinvolte in vicende di natura giudiziaria o in qualunque tipo di vicenda: il gossip non fa distinzioni. E sempre più spesso sono persone in vista, importanti. Pensiamo al direttore dell'Avvenire protagonista di una aggressione mediatica senza precedenti, tra l'altro con l'unicità di essere un giornalista vittima di un'aggressione da parte di altri giornalisti. E quando dico vittima di un'aggressione non dico niente di strano perché anche Feltri ha riconosciuto che quelle notizie erano false. Ma lo si capiva che erano false e per questo dico che una maggiore cura potrebbe portare a selezionare le notizie da pubblicare e quelle da non pubblicare. Però sono vittime della diffamazione anche le minoranze religiose, come quella musulmana, le minoranze etniche, le donne gli omosessuali, i grassi".
Come avviene questo tipo di diffamazione?
"Ci sono alcuni casi di pubblicità che offendono i grassi perché vengono utilizzati come paradigma negativo, paradigma sociale non invidiabile, al fine di esaltare una marca di prodotto che invece viene utilizzata da una donna bella, magra e alta. C'è tutto un linguaggio, una retorica che andrebbe ripulita e ripensata partendo dalle persone. Perché ciò che a volte manca è la considerazione che a guardare quel messaggio o ad ascoltare quelle parole sono delle persone. Che possono essere vittime anche collaterali o indiretti di quel messaggio. Si pensi a dei minori e al loro rapporto col cibo con la bellezza e poi pensiamo a come vengono trattati i perdenti nella pubblicità, i brutti, i vecchi, coloro che non nascono vincenti. Tutto questo andrebbe guardato con più attenzione".
Diffamazione da una parte e querela dall'altra: c'è da dire che in Italia lo strumento giudiziario viene utilizzato spesso contro giornali e giornalisti a fini intimidatori.
"Sì ed è deprecabile. Ma certo, se fossi un giornalista mi comporterei come suggerisce la Gabanelli che è una delle più querelate in Italia, 'se hai detto il vero non hai nulla da temere'. Se poi qualcuno strumentalmente ti chiede un risarcimento esagerato o inverosimile ancor meno avrai da temere perché già quella richiesta si qualifica in tutta la sua pretestuosità. E abbiamo visto in passato anche in un recente passato un uso distorto della querela. Un uso volto a creare più una notizia politica – anche da parte di personaggi politici in vista – che non a perseguire realmente l'obiettivo di una condanna. Senza conseguenze giuridiche, ma con conseguenze di altro tipo".
Cioè?
"Si tratta di un uso distorto che danneggia i veri diffamati che poi dovranno scontrarsi con questo pregiudizio per poter guadagnare una credibilità in sede giudiziaria e pubblica e sociale. Come nel caso dell'Ucoii (Unione delle comunità islamiche italiane) io dico che questa realtà così importante è stata sottoposta da più parti a dicerie, pregiudizi luoghi comuni che servono per creare tensione e dare drammatizzazione alla pagina del giornale. Ma le conseguenze sulla vita di quella organizzazione e di quelle persone, sono atrocità che perdurano nel tempo".
Conseguenze che talvolta rasentano la violazione dei diritti umani.
"Il diritto all'onore e alla reputazione, nessuno lo ricorda, è un diritto fondamentale e addirittura sancito dall'articolo 2 della nostra Costituzione, tanto è importante. E' quindi un diritto superiore garantito anche dalla Carta europea dei diritti dell'uomo. Questo non vuol dire che in nome della reputazione bisogna imbavagliare i giornalisti o i politici, perché anche questi ultimi diffamano nascondendosi dietro il paravento dell'insindacabilità di voti e opinioni. E anche questo è segno di un malcostume inaccettabile".
Fonte: tiscali
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