Parla con un forte accento, Fernando Acitelli, romano de Roma. Non per vezzo d’intellettuale postpasoliniano, né per far il burino de cinecittà, ma per semplice naturale fedeltà alle sue radici. Conosce tutto della capitale, soprattutto sul calcio di fede giallorossa, e non a caso è autore dell’appassionata e appassionante silloge poetica consacrata ai sudditi di Eupalla: La solitudine dell’ala destra, Einaudi 1998.
Sa tutto di quello che la storia e gli uomini hanno amato e sofferto all’ombra e al sole dei sette colli. È bello sentirlo parlà con quella sua cadenza cacioepepe, piena di morbidezze e d’intuizioni geniali. Le sue narrazioni incominciano quasi sempre da un particolare, una parola, un’immagine; da lì Acitelli spreme il succo poetico, l’alone fiabesco, la mitica pregnanza, e incomincia a tessere legami, relazioni, storie. Ricordo una sua telefonata a tarda sera per chiedermi informazioni su di un dettaglio di una… panchina. In una foto che aveva davanti, lo scrittore Piero Chiara stava tranquillamente seduto su di una panchina, a Luino. Ma appunto in base ad alcuni dettagli tecnici il detective Acitelli sosteneva che quelle panchine non erano italiane, forse parigine, chissà (e cosa cambiava, in fondo, tra Luino e Parigi?).
Non so come sia andata a finire quella sua indagine, e io continuo a pensare che si trattasse di una panchina luinese, ma – come si diceva a scuola – è l’esempio che conta, ergo aguzza l’ingegno lettore mio. Perché il libro che ho davanti è appunto il frutto finale di tale logica affettiva. È la summa di una sorta di indagine investigativa in cui decine e centinaia di frammenti sono poeticamente portati al calor bianco dell’esasperazione per piegarli, torturarli quasi alla ricerca del vero. In effetti Sulla strada del padre (Cavallo di ferro, 2011) è libro di difficile definizione (e poi quanti echi e segnali in quel titolo Sulla strada). A me pare soprattutto e quasi proustianamente una recherche du père perdu, come anche testimonia il risvolto di copertina editoriale: spinto dal ricordo emozionato del genitore e seguendo la scia dei ricordi, l'autore attraversa strade e rioni di Roma - dai resti della città antica, alla periferia Sud (dove con il padre ha condiviso l'amore per il calcio e i racconti della guerra), passando per i quartieri che hanno da raccontare qualcosa sul suo passato - nel tentativo di ricostruire il dialogo di un tempo.
Libro non facile dunque, soprattutto per noi poveri nordisti, cresciuti a l’umbra de la madunina. Ma è ostacolo apparente, che richiede solo un po’ di fatica e pazienza per apprendere l’alfabeto, poi tutto si disvela. Baedeker personalissimo, di una Roma non proprio turistica; katabasi che si sviluppa dapprima nelle viscere della Roma antica per riemergere nelle periferie e nelle riserve indiane del Quadraro-Tor Pignattara-Pigneto. Qui è lo sguardo, la sensibilità, l’ascolto a fare la differenza. Ma senza troppi rimpianti per la sora Bice, senza mai indulgere nel macchiettismo, senza inciampi nel folclore del ponentino. Anni del Fascismo e poi delle guerre interminabili e poi infine il ritorno. Ricerca del padre e di un ambiente, voci gesti parole insegne architetture (qui ho pensato un po’ alla Firenze di Pratolini, quartiere san Frediano, ma allora era ancora possibile una narrazione lineare, ora non più).
Libro, se vogliamo, anche di storia e d’antropologia, da far leggere agli studenti per comprendere fino in fondo com’era a suo modo tragicamente affascinante e generosa quella Rometta e in fondo il bel paese nostro. Poveri ma belli, e soprattutto dignitosi. Questo ed altro si ritrova in questo libro densissimo, in cui competenze e filologie diverse (in primis quella calcistica) sono messi al servizio della memoria. Acitelli lavora nell’ombra, se ne sta ai margini, ai confini, pronto a scavare una sua personale e in fondo generazionale archeologia del sapere, e dell’essere.
Fonte: tgcom
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