Dire che la serie "L'Ora - inchiostro contro piombo", conclusasi per il momento il 6 luglio, è una "fiscion", come scritto in tono dispregiativo da un ex de L'Ora come Gaetano Perricone, è comunque un ossimoro.
Un ossimoro perché di fatti salienti inventati non ce n'è alcuno tra quelli che hanno caratterizzato i primi cinque anni della direzione di Vittorio Nisticò al giornale (1954-1958). Ce n'è sì una versione romanzata (il corpo del giovane cronista Domenico Sciamma trovato sui binari ferroviari presso Termini Imerese è in realtà quello di Cosimo Cristina rinvenuto il 5 maggio del 1960) per rispondere all'economia del racconto secondo moduli narrativi tipici delle serie televisive, ma riscattata stavolta da una tensione estetica che ha chiara matrice linguistica nei precedenti 'alti' del Coppola del "Padrino" o in alcuni momenti di cinema poetico/politico dei fratelli Taviani (e mi riferisco particolarmente a "Kaos"). Ci si chiede poi: ma la redazione del giornale era così nebbiosa? Bene, la redazione era luminosissima ma il film si chiude non a caso con la riproposta delle parole del principe Alliata: "La verità da noi è come la nebbia, più ti ci avvicini più non vedi niente".
Occorre ricordare per i puristi della cronaca che nella realtà non fu il vecchio principe Alliata a suicidarsi ma il trentanovenne e ben più presente nelle cronache mondane principe Raimondo Lanza di Trabia, precipitato il 30 novembre 1954 da un balcone dell'Hotel Eden di Roma. Domenico Modugno scrisse per lui "Vecchio frac".
E Vittorio Nisticò, era davvero così come appare nel film? Giuliana Saladino nel suo "Romanzo civile" così scrive: "Poco prima, nel 1957, io mi inventavo e riciclavo giornalista. Cadevo nelle grinfie di un nevrotico abbarbicato al suo tavolo anche per sedici ore di fila, concentrato, incazzoso, scattante, balbettante per timidezza o per furore, dispensava rabbuffi gelidi e appallottolava e tirava in faccia le due cartelle, mi intimidiva da morire, sempre con un bicchiere di latte sul tavolo, fumando milioni di sigarette, finto distratto, finto arruffone, in realtà attentissimo vigile appassionato".
E ancòra Roberto Ciuni, altro indimenticabile giornalista, così lo salutò quando il direttore lasciò Palermo: "Spesso ci hanno categoricamente divisi concezioni diverse del giornalismo: qualche volta abbiamo dovuto sopportare la sua collerica aggressività: sempre, comunque, pur nei momenti di maggior tensione, di maggior disaccordo, abbiamo dato atto a questo intellettuale calabrese "sicilianizzato" - visto arrivare a Palermo nel 1954 con il volto liscio del giovanotto e veduto andar via adesso segnato da tante sofferte vicende- d'essere un personaggio quasi irripetibile nel mondo della carta stampata italiana. Diciamo un uomo-testata".
E bene ha fatto il regista Piero Messina a contornarsi di un gruppo di attori eccezionali che hanno reinventato - vivaddio! - con delle performance attoriali di grande livello sia i profili di una redazione d'assalto unica sia quelli degli antagonisti (Fabrizio Ferracane su tutti nel ruolo del boss Michele Navarra).
Fonte Immagine: Mediaset
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