Con la fiducia delle Camere al Governo Conte sembra finalmente venuta un po’ di bonaccia dopo quella che della politica italiana è stata una delle più drammatiche e inusitate settimane. Non si era mai visto, nella nostra pur estrosa e saltellante vita democratica, il caso di un Presidente del Consiglio designato e tosto costretto a rinunziare prima di andare in Parlamento, quindi subito sostituito e tre giorni dopo richiamato e reinvestito dell’incarico. Al presidente della Repubblica Mattarella, oltre ai meriti della pazienza, va riconosciuto quello di avere avuto l’energia fisica e psichica di sostenere nel caso il ruolo di primo attore; anche se lo stress più acuto è stato determinato proprio dal suo rifiuto alla nomina di un ministro delle finanze nel nuovo governo. E qui, giacché ci siamo, aprendo parentesi, va rilevato che si verificava uno stallo interpretativo sui poteri di veto del Presidente. I più qualificati costituzionalisti annotavano che nel caso non aveva questo potere: rifiutando Savona, Egli entrava indebitamente nel merito di una proposta, mentre il suo ruolo era riguardarne solo la legittimità. Anche noi siamo stati perplessi, forti soprattutto delle leggi della sintassi: dice la Costituzione “Il Presidente nomina i ministri su proposta…”, non dice, come avrebbe potuto o dovuto, “valutando le proposte…” . Perciò rifiutando il Presidente il suo compito, che nel caso era solo di definitore formale di un atto dovuto, non poteva che crearsi quella situazione senza via d’uscita, alla quale la saggezza ispiratrice e coordinatrice di chi è più in alto dovrebbe in tutti i modi evitare di giungere.
Fatto si è che una soluzione si è trovata: si è tutelato il prestigio del soggetto non gradito collocandolo ad altro Ministero e assegnando le Finanze ad un altro dallo stesso suggerito. Ed è stata soddisfatta anche alla meno peggio la volontà di Mattarella; insomma un salvare capra e cavoli tipico della politica dei necessari compromessi e che poteva ben avverarsi prima, senza perdere tempo inutile. Benché l’accaduto qualche lezioncina utile l’abbia lasciata: quella anzitutto che la nostra “bellissima” Costituzione avrebbe forse bisogno di qualche ritocco formale, perché, ad esempio, i poteri del Presidente della Repubblica andrebbero meglio specificati, mentre vi risultano piuttosto affidati ad una bonaria concettualità interpretativa circa il ruolo di garanzia e guida del capo dello Stato. Una costituzione che ha bisogno di troppi interpreti non è mai un buon testo. L’altra riguarda la vecchia partitocrazia, che è ormai malata al punto che l’esercizio democratico del voto può dar luogo, com’è accaduto, ad una libertà limitata o inibita nel costituire un Governo a beneficio del paese.
Comunque, acqua passata, e il Governo nuovo ormai è nato, con la sigla di un uomo davvero nuovo rispetto alle note pastoie della politica, è stato approvato dalle Camere e può marciare verso i suoi obiettivi. Esso, tra i molti applausi, vive la sua prima fase di entusiasmo, e probabilmente la vivrà ancora per un certo tempo, giacché è un governo che viene senz’altro incontro ad una diffusa esigenza di cambiamento e che usa quel linguaggio diverso che la gente si aspetta dai politici per i quali ha votato. Ma non c’è da stare troppo sereni per il futuro, cioè sarebbe da ingenui attendersi troppo dalla svolta che si è perpetrata, sia perché le questioni sul tappeto sono tali e tanto condizionate anche dall’estero, che, francamente, populisti o no, non sarebbero di spedita soluzione per nessuna coalizione di governo; sia perché l’accoppiata Cinque stelle- Lega, dalla quale è scaturita la novità col suo esaltante carico di promesse, ancora non può dare garanzie della sua saldezza. Infatti non sappiamo ancora quanto quel Salvini, osannato nel nord est Italia, e che non è certo un modello di temperanza, sarà in grado di essere vero paladino del nuovo, coordinando azioni e metodi col socio sulla realtà effettuale; ma ancora non ricusando definitivamente, come sarebbe logico, il legame con un Berlusconi che è la medaglia del vecchio.
Ci saranno poi altri pericoli da schivare: quelli che verranno dalla probabile inesperienza in alcuni campi, quelli dei costanti agguati che saranno tesi senza tregua dalle lobby contrariate, oltre che dalle possibili oscure operazioni dettate ulteriormente dal bisogno di Forza Italia d’incrinare il rapporto Salvini-Di Maio. Insomma c’è tutto da aspettarsi, e col livore degli sconfitti. A proposito, fa un certo senso sentir parlare oggi gli esponenti del Partito democratico, che farebbero opposizione in cerca di quella identità che hanno falsato per tanti anni e di una verginità che non hanno mai avuto. Hanno siglato loro il disastro della legge elettorale che ora si dovrebbe nuovamente cambiare; hanno dimenticato l’oppressione della classe media sotto il loro potere, impaludandosi in un borghesismo bancario avulso dalla quotidianità pratica; hanno vivacchiato sull’europeismo come retorica scolastica; sconfitti alle elezioni, hanno poi rifiutato di dare una mano per un possibile governo d’urgenza, quale sarebbe stato gradito a Mattarella che pure era stato uno dei loro; si sono relegati al ruolo di guastafeste per corriva voglia di rivalsa, senza proposte su quel che, secondo loro, invece si dovrebbe fare. Ebbene, sono proprio la razza di sconfitti da cui c’è da guardarsi, perché chi è cacciato dal trono e teme di non potervi più risalire è colui che vive solo sperando in blitz e rivolte ed alimentandole.
Comunque, ad un governo che ora nasce come antisistema, foriero di interventi urgenti, decisi e radicali, bisogna senz’altro fare ogni buon augurio e sperare che riesca se non in tutto quanto programmato, almeno in parte, e per alcune cose essenziali, in quanto è da sapienti non essere mai preventivamente indisponibili alle aperture nuove ed agli esperimenti. Va poi notato che il possibile rinsaldarsi di questo binomio Lega-Cinque stelle, una volta improbabile, chi sa che col tempo non si riveli finalmente occasione di ritrovata armonia tra Nord e sud d’Italia; se le due entità politiche, amalgamandosi nel governare il paese, sapranno scoprire tra le parti di esso la solidarietà opportuna e l’intelligente distribuzione e sfruttamento di meriti e di diverse risorse. E non dovrebbe essere secondario incentivo del nuovo, il rivedere la posizione politica da usare circa l’Europa, ove l’Italia finora non ha goduto del dovuto prestigio, perché forse non ha saputo essere promotrice di idee, denunziando l’europeismo come puro affare dei soliti nazionalismi e non come obiettivo di crescita, fondato su principi non solo monetari. Farsi promotori di questi principi, cioè contribuire ad una vera e seria cultura europea, già non sarebbe cosa da poco.
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