Viviamo tempi davvero tristi e, specie in ragione di alcuni episodi di cronaca che investono il mondo dei ragazzi, sembra si stia per sovvertire ogni ordine morale: violenza e bullismo si vanno facendo di moda. Particolare impressione ha fatto la notizia di qualche settimana fa, allorché un insegnante è stato aggredito da un suo allievo, con l’intervento pure dei suoi genitori, addirittura entro la scuola stessa e durante le lezioni. Evidentemente sarà stato facile esclamare: ma dove siamo arrivati!
Riteniamo che per capirci di più su quel che sta succedendo, sia assai utile rivedere da dove siamo partiti. Allora scopriremo l’eredità degli anni sessanta, i famigerati o formidabili anni della contestazione che, pur con gli elementi positivi di un rivolta storica, seminarono non pochi equivoci destinati a perdurare e a fare danni. Uno di questi equivoci fu senz’altro la messa in forse e quindi la progressiva distruzione del principio di autorità. Con l’idea di definire una nuova linea morale rispetto alla tradizione, si distruggeva un ordine civile che costituiva invece per il ragazzo, oltre che guida, tutela e sostegno. Al capo famiglia, al maestro, al professore non si dava più quel rispetto indizio di un ordine sociale ormai travolto, anzi l’atto di irriverenza era considerato progressivo e spesso addirittura meritevole di plauso.
C’era in questo fanatico distruggere qualcosa di irriflesso e, inconsciamente, pure di ridicolo. Il qui scrivente ricorda quando intorno agli anni ’65-66, all’improvviso, per ordine superiore, vide scomparire le pedane da sotto i tavoli delle cosiddette cattedre. Si disse perché il docente doveva da allora in poi stare col suo tavolo allo stesso livello dei tavoli degli allievi, perché questi non vedessero nella cattedra un sovrastare opprimente. Nessuno pensò che invece quello stare sulla pedana era per un più comodo ed agevole guardare e farsi guardare tra docente e allievi nel dialogare delle lezioni. Quel livellamento e la sua scomodità rimasero.
Comunque, come suole succedere nelle evenienze storiche, ai fermenti positivi, cioè alle buone intenzioni, si mescolano remore ed equivoci e per lo più sono questi a durare nel futuro. Così è accaduto nel mondo studentesco. Il sessantotto fu un periodo del novecento che certo merita ancora studio e, visto che siamo alla ricorrenza dei cinquant’anni, sarebbe anche ora, ma resta già sicuramente valido il giudizio che alla gioventù studentesca dei nostri giorni sia rimasta da allora solo un’eredità di petulanza e di vuoto.
Se si rifacesse la storia di quel che accadde intorno appunto al ’68 si troverebbe con sorpresa di tutto, dalle occupazioni delle scuole, alle guerriglie urbane, alle violenze terroristiche, alla celebrazione quali numi tutelari di Marx, Lenin, Che Guevara, nei collettivi frequentati più per vezzo che per coscienza critica della realtà vissuta. E c’erano i puri, inquadrati e strumentalizzati ma erano una minoranza. I più erano destinati ad alzare il vessillo di una rivoluzione culturale che col passare degli anni sarà sempre meno culturale e più idonea a realizzare il consumismo presuntuoso e straccione del futuro, cioè dei nostri giorni.
Né ci pare a proposito sia da trascurare il riferimento ad un libro che di tutto il caotico e violento contestare studentesco di una volta pare siglare il fallimento, e così spiegare gli equivoci d’oggi. Si tratta del celebre Porci con le ali, firmato nel 1976 da Marco Lombardo Radice e dalla scrittrice Lidia Ravera. Era il libro di due rivoluzionari, che però non accusava la società e le sue strutture, tutt’altro, costituiva piuttosto la presa di coscienza da parte di protagonisti di una rivoluzione che si vive ma non si sente e allorché non si realizza il miglioramento della condizione umana che è e resta quella degli affetti in bilico. Sarà il libro dei tempi dei collettivi e degli agguati studenteschi, ma destinato piuttosto a restare documento inquietante di una crisi morale della gioventù tutta sesso, turpiloquio e soprattutto inadeguatezza a realizzare una vita di coppia. E sotto questo aspetto ci pare un libro ancora attualissimo. Solo che oggi non si avrebbe da parte dei giovani quella coscienza critica dissacrante sulla condizione di essere nella scuola e nella società in vista di un futuro, perché la loro non è più cultura come esperimento, come progetto o come polemica. Quel che allora fu negazione di principi e di valori oggi nei ragazzi è solo presunzione e reazione per non essere risvegliati dalle solitudini, ove quasi tutti dimorano, attanagliati a tablet e smartphone, senza sosta.
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