Cari amici italiani che vivente negli Stati Uniti,
rispondo volentieri al vostro appello perché il valore della comunità italiana negli Stati Uniti, il suo contributo alla grandezza dell’America, è motivo di orgoglio anche per noi che abbiamo la fortuna di poter continuare a vivere nel Paese dove siamo nati, ma che non dimentichiamo le solide radici e la cultura che ci accomunano. Sono tra l’altro particolarmente legato al vostro Paese, non solo perché ho studiato alla Columbia University e per qualche tempo ho lavorato in uno studio legale, ma soprattutto perché ho sempre considerato la cultura e la democrazia statunitense un punto di riferimento centrale nella mia vita. Con l’America ho lavorato tanto anche ai tempi della Ferrari e ho mantenuto un saldo rapporto con moltissimi amici. Grazie per non aver mai tagliato quel cordone ombelicale che ci lega ancora e che ci fa sentire vicini sia pur da lontano.
Questo è un momento doloroso per entrambi i nostri mondi. L’emergenza sanitaria ci ha colpito duramente, ha portato via un’intera generazione di italiani, quelli stessi, in gran parte, che hanno speso con generosità talento, passione, determinazione e immensi sacrifici per costruire il nostro Paese dopo la seconda guerra mondiale. Oggi li piangiamo tutti, i nostri cari e i vostri, con profondo cordoglio e riconoscenza. Non li dimenticheremo. Ci sforziamo anzi di raccoglierne il testimone morale e lo stesso spirito per ricostruire di nuovo ciò che questo virus ci ha portato via.
Ci siamo fermati tutti, come voi. Le nostre imprese, i nostri artigiani, il turismo. Abbiamo subito un colpo durissimo, tantissime persone hanno perso i loro familiari, tantissimi hanno perso il lavoro, molte imprese non riapriranno più. In questa crisi abbiamo purtroppo mostrato il meglio e il peggio del nostro Paese: l’abnegazione e l’eroismo dei nostri medici e infermieri, la solidarietà dei tantissimi volontari, la disciplina e il rispetto delle regole degli italiani, ma anche l’annosa farraginosità di una macchina burocratica che esaspera e uccide in culla qualsiasi spirito d’intrapresa, nonché la debolezza di una parte importante della nostra classe politica.
C’è tanto da fare e da semplificare e ripartire sarà duro per tutti.
Ma abbiamo anche l’occasione di ripensare da subito al modello di società che vogliamo costruire. La nostra nave in questo momento è ferma in porto. Dobbiamo approfittare per riparare oggi i tanti danni che ne appesantiscono il carico, prima che riprenda il largo nei mercati. Dobbiamo semplificare le normative, delegificare ove possibile, affidando il rispetto delle regole ai controlli successivi; dobbiamo alleggerire i tempi della giustizia civile che non consentono di investire in Italia ai tanti che pure lo vorrebbero. E dobbiamo, non meno importante, riassegnare il giusto ruolo nella società e nell'azione politica alla ricerca e alla scienza. Mai come in questo momento l’emergenza sanitaria ha fatto capire, anche ai molti che fino a qualche tempo fa lottavano contro i vaccini, quanto sia cruciale destinare invece le giuste risorse ad esse e alla sanità pubblica, che non finiremo di ringraziare per quanto è stato fatto, con poche risorse. Il tempo però non è infinito, quel che dobbiamo e che sappiamo di dover fare lo dobbiamo fare ora. Nessuno ci aspetterà al largo fuori dal porto.
Sono sicuro che a voi, come a noi, non mancherà il coraggio di rimboccarci le maniche. Lo abbiamo sempre fatto. Lo rifaremo, uniti da quel sottile e indissolubile filo che ci tiene insieme e ci spinge a cooperare per il bene dei nostri Paesi. Il coronavirus ha disvelato un nuovo mondo al quale dobbiamo prepararci, farci cogliere ancora una volta di sorpresa sarebbe imperdonabile.
Fonte: America Oggi
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