2020. Dunque avanzano le prime settimane di questo nuovo anno e sempre più ci rendiamo conto di avere varcato la soglia del secondo decennio di un nuovo secolo per cui saremmo del tutto dentro un’epoca nuova, definitivamente distinguibile nella sua caratterizzazione che, come si sa, consiste nel trionfo della tecnologia, in tutti gli aspetti e dietro tutte le ragioni del vivere civile. Ma quanti di noi abbiamo vissuto gli anni maturi del Novecento con impegno culturale -siamo rimasti in pochi ma ancora ce ne siamo-, spesso ci chiediamo se quel nostro impegno resta di qualche valore e funzione e perciò, magari un po’ smarriti e perplessi, continuiamo a porci il quesito: che cosa in fondo ci resta del Novecento?
Fu il secolo delle guerre che oscurarono o abbrutirono la civiltà europea, ma che, nella seconda metà, vide il culmine del pensiero indagatore sulla realtà e i destini dell’uomo, comportando il relativismo e la crisi conseguente di ogni storicismo progressivo. Verrà il prevalere di un canone esistenziale che informerà le arti, la letteratura in particolare e il cinema, dando luogo a opere di raffinate forme ed alta significazione. Novecento voleva allora dire filosofia dei limiti umani e sperimentalismo come slancio verso forme di libertà creativa, per lo più dettata dall’irrequietezza e dalla indecifrabilità dell’inconscio. E si parlava del Novecento come secolo di crisi, che lo era sì di valori ottocenteschi, ma non lo era in prospettiva della necessaria innovazione e in funzione della genialità squisitamente individuale, che era quello che di più contava.
Tutto questo però stando ad un discorso riguardante soprattutto la filosofia, la letteratura e le arti figurative, nella quali meglio suole esprimersi lo spirito del tempo; perché c’era in verità molto ben altro in dimensione economica. La fine della guerra e il conseguente e istintivo bisogno di ricostruire e rifare meglio, porterà altresì il fiorire di tanto spirito d’impresa e altrettanta sete di nuovo benessere. Porterà quel cosiddetto boom economico con l’espansione di una nuova borghesia avida e dinamica. E con essa il contrasto con quella purezza di ideali di umanità e di giustizia sociale che volevano essere il correttivo di troppi errori del passato. Un contrasto assunto anche a ideologia rivoluzionaria, sia soprattutto nel mondo operaio che in quello giovanile, ove si avrà molto d’impulsivo e di variamente interpretabile. Il Novecento fu cioè anche il secolo del famigerato sessantotto, inteso come nozione indicativa delle agitazioni che segnarono due o tre decenni, e che, comunque lo si voglia giudicare, rimane un momento storico di ripensamento sull’idea di stabilità come conservazione o di progresso come rivoluzione, tale da incidere profondamente nel pensiero e nella politica.
Ora, volendo appunto capire se qualcosa di vivo resta in noi del Novecento, non è errato partire proprio dall’interpretazione di quegli anni, nei quali appunto la conquista di alti livelli economici nel paese ne metteva più a nudo i dislivelli sociali, creandosi così i presupposti di un dualismo tra tradizione e rivoluzione destinato ad impegnare la cultura prima che la politica. Solo che si è trattato di un impegno non adeguatamente sostenuto sul piano critico da maestri di prestigio; sono mancati gl’intellettuali credibili o i pochi, penso ad esempio a Noberto Bobbio, sono rimasti troppo isolati o inascoltati. Sicché ne è venuta a noi quella dialettica irrisolta che, svuotandosi man mano di tensione, priva di nuovi animatori, cederà del tutto all’avvento dell’ubriacatura tecnologica, onde la politica in sé avrà perso senso e la cultura più che animarla le resta ai margini. Siamo all’epoca in cui tutto è da prendere e consumare nell’immediato, epoca dell’usa e getta in cui sembra preclusa ogni proiezione verso il futuro; epoca delle prevaricazioni dei furbi, della massificazione dei sentimenti, del predominio totale dello strumento del comunicare sulla parola. Se ci soffermiamo a rivedere il passato prossimo, da quello delle distruzioni belliche e dei lager nazisti, certo di strada se n’è fatta, ma di delusione ne è rimasta anche molta. Perché la dignità dell’individuo, come accadde allora, ancora oggi sembra fuori da ogni interesse, e dunque quell’angoscia che caratterizzò la vita intellettuale d’Europa nel secondo Novecento forse resta ancora la cifra attuale per chi voglia intendere chi siamo e tema il dove andiamo.
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