Non so se è mai capitato nella storia passata che un Governo o un despota abbia disposto per editto che i sudditi stessero chiusi in casa, come agli arresti domiciliari, drasticamente e senza processo. E non so come sarebbe classificabile tale editto, se cioè fino a che punto esso sarebbe ritenuto lecito come atto di governo e non come frutto di eccesso di dispotismo. Inutile volere addolcire la pillola: stiamo parlando della proibizione di respirare l’aria gratuita del cielo o di fare quattro passi a contemplare il mare, da soli e per i fatti propri. Infatti sarebbe giustificabile la proibizione di riunirsi, raggrupparsi in molti o in pochi, in quanto creerebbe quel determinato pericolo pubblico che un potere ha il dovere di evitare; ma la libertà individuale di prendere aria, persino di prendere un malanno o un’infezione personale, non c’è dubbio che andrebbe salvata. Eppure non è così, succede che prendere aria è divenuto fatto criminoso e sanzionato severamente, ed è cosa, a quanto pare, accettata generalmente senza discussione. L’atto dispotico è divenuto saggezza ed è ampiamente condiviso. E diciamo subito: giustamente, pur con qualche perplessità, anche da noi, che qui osserviamo, analizziamo il dato, registriamo che è un precedente, ma non parliamo di disattendere. Perché sappiamo che è intervenuta una necessità straordinaria che avrebbe determinato l’eccezione, sicché l’illecito si è fatto lecito, anzi benefico. Si ragiona cioè non più sul rigore dei principi ma sulla logica del maggior bene da conseguirsi nell’immediato; e magari ci si arrampica a qualche concetto giuridico, come quello che in una città assediata è giusto vietare agli abitanti di uscire fuori per non rischiare di divenire preda del nemico assediante.
Solo che, a ben riflettere su quanto sopra detto, viene fuori una filosofia pratica dell’agire umano, cui non si era magari fatto caso, che cioè, nella vicenda umana non ci sono principi intoccabili, ma si procede in genere sempre dovendo cedere alle eccezioni. Dominatore del divenire sarebbe l’evento e che ogni volta che qualcuno se ne presenta, costringe sempre a rivedere le regole. Ed è questo il senso di quello che diciamo “la fluidità dell’accadere”, questo il marchio dell’imponderabilità della condizione umana. Tanto ci fa riflettere quel che oggi succede. Siamo soliti prevedere, organizzare, disporre, aggrappandoci a principi matematici, ma accade, come sempre è accaduto, che venga lo scompiglio e il dover rivedere calcoli, piani e intenzioni. Siamo fragili nel presente, ancor più rispetto al futuro.
In questi giorni di smarrimento, nel nostro povero mondo supertecnologico non si fa che domandarsi quando tutto finirà. E la risposta sta solo nel capriccio di un virus, cioè quando esso mollerà l’assedio alle nostre inutilmente consolidate fortezze. Il che dovrebbe indurci a rivedere il molto delle nostre illusioni e farci più esperti appunto della condizione umana. Purtroppo forse non sarà così. Si darà il caso che piuttosto si è impazienti di riportare e riportarci al tutto come prima. E sarà un bel guaio. Perché il passato non torna e ci si troverà ad affrontare situazioni inedite, a fronte di enormi perdite specie nel mondo del lavoro, col rischio di rabbiose reazioni e disordini incontrollabili. Quando invece la coscienza di essere precipitati come in una diversa dimensione di valori umani e sociali richiederebbe la ricerca e l’adattamento a nuovi parametri esistenziali. Ci si dovrebbe disporre ad essere tutti più poveri e a misurare il concetto di crescita meno sul pil e più sulla dignità dell’individuo. E la politica, costretta a lavorare su una coperta corta, difficilmente riuscirà ad evitare guai e a smettere di celebrare la sua futilità fatta di vecchi personalismi. Avremo voglia di sentire chiacchere e teleguidati contrasti. Resterebbe intanto fondamentale l’attuale costrizione di stare al chiuso per un bagno di consapevolezza: c’è di che meditare sul ridicolo di tutta un’umanità imbacuccata in maschere, impedita nei movimenti; l’aggirarsi di tutti privi di volto verso i giorni della Pasqua, che questa volta non può essere una festa. Anzi la si attende piuttosto come in una condizione penitenziale. Che di certo un po’ lo è davvero.
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