Chi è avvezzo a ragionare sulle vicende che caratterizzano la realtà in cui si vive, difronte alla preoccupante e anomala situazione politica italiana, non può non notare anzitutto l’assenza di una qualche voce degli intellettuali. Non ci sono più uomini di pensiero che facciano qualche rilievo o siano di autorevole riferimento per una valutazione politica esplicativa su quanto succede; oppure si è convinti che la politica non faccia più parte della cultura, sia cioè al di fuori delle cose umane che scottano, ed essa debba pascersi solo di romanzetti gialli o di filosofie astruse per sfaccendati. Quindi gli accade di passare a due considerazioni: la prima è quella che purtroppo la democrazia, come concreto esercizio del potere da parte del popolo, in realtà non funziona, cioè non è vera nella pratica; la seconda è che la democrazia, come soggetto attuale di gestione della cosa pubblica, oggi vive una fase di tale stanchezza, per cui quanto si fa nelle stanze della politica sembra si faccia per ottemperare ad un rito di cui si è perduto senso ed onestà di scopo.
Circa la prima considerazione è fin tropo evidente il fatto che ogni potere, una volta costituito, anche su basi elettorali, cioè cosiddette democratiche, col passare del tempo, trova il modo di limitare o addirittura annullare quella libertà di scelta e di elezione che una vera democrazia, cioè potere del popolo, dovrebbe garantire. Anche l’esempio italiano è tra i più eclatanti. Si svolgono elezioni con criteri di libertà, ma in realtà sono condizionate, anzi soffocate da leggi elettorali concepite apposta per limitare la volontà popolare e per salvaguardare o assegnare in partenza posti di potere a persone designate o che già lo possiedono. I sistemi di votazione che si mettono in piedi per calcolo di partito seguono il più delle volte intenzioni tutt’altro che democratiche. Sicché, ad esempio, il 4 marzo u.s., in Italia si è votato e sostanzialmente il popolo avrebbe già dato un suo verdetto, manifestando delle precise intenzioni, belle o brutte che siano: a destra o al nord ha fatto sapere di puntare più su Salvini che su Forza Italia; ed a sinistra o al sud ha dato pieno credito al Movimento Cinque stelle, infliggendo al Partito democratico una sonora sconfitta. Ma ecco che è scattata la trappola della legge elettorale che premia la coalizione, sicché un gruppo politico che non conta quasi nulla può pure andare al governo. E’ così che la partitocrazia invada del tutto la scena, vige l’anomalia e la democrazia, come volontà della maggioranza popolare, va a farsi benedire. Tutto vuol consumarsi tra segretari di partito, col supporto di covi oscuri di potere: è così che un leader sconfitto, cioè Berlusconi, vorrebbe continuare a primeggiare e chi, vincitore, gli sta a fianco non sappia che pesci prendere (o forse ha già preso dei pesci sottobanco?); i demoproletari imborghesiti di Renzi non si liberano dal corrivo di sconfitti, incuranti se il paese ha ancora bisogno di loro o meno. Perché il paese non conta nulla per l’attuale partitocrazia avida, che non sopporta coraggiose alternanze, avvezza a considerare la politica una faccenda da consumare tra furbizie, solo nel segreto delle sue stanze.
Comunque, e veniamo alla seconda considerazione, continuiamo a credere che, celebrato il rito elettorale, il popolo se ne stia in pace ad attendere che si formi un governo, tenendo in conto molto o poco della volontà da lui espressa col voto. In realtà nel popolo, mentre attende l’esito delle infinite schermaglie e trattative dei partiti, matura l’idea che in fondo votare si va facendo sempre più pratica inutile. Vuol dire che, come stanno le cose, il rito del votare potrebbe considerarsi superfluo: i capi partito potrebbero bene discutere e mettersi d’accordo tra loro prima, quando occorre rinnovare cariche e governi. E pare che la gente cominci a capire questo, visto che in gran parte si astiene dal voto e in gran parte si comporta come se il praticare la politica ormai non sia più affare loro. Si assiste ormai ai dibattiti televisivi più per curiosità e passatempo, e si continua a vivere nell’ambito dei problemi irrisolti quasi convinti che, tutto sommato, che un governo ci sia o meno fa lo stesso, anzi forse è meglio, così come del resto è accaduto per lunghi mesi anche in Belgio e in Germania.
Ovviamente non è così, anzi siamo caduti in una fenomenologia preoccupante, giacché senza un governo responsabile, creato su progetti che guardino al futuro, mentre i meccanismi amministrativi della cosa pubblica continuano a funzionare, si rischia che essi vadano fuori controllo e siano preda dell’incancrenirsi della corruzione. Ma accade soprattutto che le vicende della politica internazionale continuino ad incalzare con la loro drammatica urgenza e, un paese come il nostro, costretto a starne fuori per mancanza di autorevole rappresentanza, rischi di subire delle conseguenze poi irrimediabili, oltre che relegarsi ad una marginalità assai più marcata di quella in cui già si trova. E la maggiore marginalità vuol dire maggiore perdita non solo di prestigio, ma di vitalità economica.
L’attuale panorama di precarietà di cultura e di pratica politica imposto in Italia dalla partitocrazia viene senza dubbio da un tarlo che lento corrode il sistema democratico. Occorrerebbe inventare qualche ingrediente che lo fermi, che almeno una saggia legge elettorale restituisca piena libertà di giudizio, di scelta e di ricambi al popolo che vota e finiamola con l’alibi del vocabolo “populismo”. Oppure ci si deve rassegnare ad una politica ripetitiva, tanto incomprensibile quanto sempre più lontana dalla gente, in una Repubblica il cui presidente si riduca ad essere utile solo per visitare orfanotrofi e inaugurare mostre e convegni.
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