«Signore e Signori, tra pochi minuti atterreremo all’aeroporto Falcone Borsellino di Palermo». Una virata acrobatica e voilà, per la prima volta baciamo la terra di Sicilia, lontana anni luce dal Piemonte, e non solo in termini di chilometri.
Ci dà il benvenuto un sole splendente che brilla superbo su un mare di cobalto e azzanna impietoso la nostra pelle bianco-mozzarella. Il primo siciliano che incontriamo è un pastore tedesco che ci annusa per benino.
«Cominciamo bene» mormoriamo, guardandoci attorno con stampata in faccia la tipica espressione del nordico che per la prima volta si confronta con la realtà del Sud che, in parole povere, significa ‘me lo devo comprare il giubbotto antiproiettile?’
«Arriva, tranquilla. È a Malpensa che le fottono. Qui gente d’onore è» rispondo, con una punta di sarcasmo. E infatti il bagaglio arriva. Oltre la barriera ci attendono i nostri amici. Baci, abbracci, commozione. Ci incontriamo per la prima volta. La nostra è un’amicizia a distanza, iniziata su facebook, ma non per questo meno profonda e sincera.
Si parte. Un profondo turbamento ci rattrista davanti alle stele che ricordano il giudice Falcone e la sua scorta. In un flash scorrono nella memoria le terribili immagini dell’attentato. Sulla montagna di fianco a noi su un muro bianco spicca la scritta a caratteri cubitali ‘NO MAFIA’. Un segnale forte di ribellione, un monito per la malavita organizzata o un pio desiderio di pochi?
Prima tappa: Capaci. «Quel Capaci?» Domanda idiota, ma spontanea. Un paesaggio mozzafiato si snoda davanti ai nostri occhi: una barriera di montagne spoglie, vere roccaforti di sasso, contraltano col mare che ci insegue da ogni parte, il suo profumo ci stordisce. Capaci è un paese (o una città?) pulito, moderno, animato, ricco di colore.
«Ci sono anche le donne per strada!» esclamo. «Altro che lunghe gonne nere, queste vestono firme prestigiose! E non hanno nemmeno i baffi!». Risata collettiva. Sostiamo in una pasticceria artigianale, un negozio-laboratorio a bordo strada, un vero Eden per i golosi; una goduria per gli occhi e per il naso. La vena artistica siciliana si esprime anche nella decorazione dei dolci. Ci accoglie un bel ragazzo dai profondi occhi scuri. Il pasticcere filosofo. «Per i dolci ci vorrà una mezz’ora» ci informa. «Prepara i dolci al momento?» domando stupita. «Certo» risponde la mia amica, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Avrà pensato che sono un po’ torda, ma su, da noi, i dolci vengono preparati con largo anticipo, a volte talmente ‘largo’ che si ricoprono di una inquietante velatura biancastra. Qualche pasticcere furbetto, poi, li surgela, propinandoli per ‘freschissimi’. Nell’attesa sostiamo in un bar. «Una spremuta d’arancia, per favore» spariamo senza esitazione. Siamo o no nel Paese delle arance? «Non ci sono arance, siamo fuori stagione» risponde il cameriere, probabilmente pensando ‘Da dove arrivano ‘ste due?’ Ma come, al mercato di Vercelli ci sono camionate di arance siciliane. Dubbio amletico: sono o non sono vere arance siciliane?
Dopo una mezz’ora torniamo alla pasticceria. Il bel sicilianino ci porge il vassoio accompagnandolo con un ‘Addisposizione’, espressione diffusamente adottata nelle fiction. Ridacchiamo. Non essendo abituate a manifestazioni spontanee di sana allegria, ci sfugge un gorgoglio dalla bocca. Ci sentiamo un po’ a disagio. «È una forma di cortesia, di rispetto niente a che vedere con la mafia» ci spiegano.
Arriviamo a Palermo. La città ci accoglie nel suo abbraccio caldo. Siamo colpite dalla sua estensione. «È immensa!» esclamiamo esterrefatte. Già, questa figlia dei Fenici, accoccolata sorniona in una Conca d’Oro è in realtà una metropoli moderna. Come una sirena ci seduce al primo incontro. I larghi viali sono fiancheggiati da oleandri, buganvillee, palme, rose, platani, fichi d’india ed eucalipti. È un’esplosione di colori e di profumi che dà le vertigini. Non abbiamo mai sentito il profumo di città; le nostre nordiche narici sono assuefatte al miasma di città. Siamo dei veri esperti a riconoscere i differenti fetori: quelli acri provengono dalle concerie, quelli più nauseabondi sono causati dai diserbanti e dai prodotti chimici. Ovunque, come gioielli buttati alla rinfusa, brillano sotto il sole palazzi, chiese, giardini, testimonianze delle dominazioni succedutesi nel corso dei secoli dai Fenici ai Romani, dai Normanni ai Saraceni.
Di notte la città si trasforma in uno sfarzoso salone delle feste affascinante e fascinosa, sobriamente elegante. Siamo invitate al Verdura, la versione estiva del teatro Massimo. La cornice scenografica mozza il respiro:le luci sapienti esaltano questo teatro naturale di per sé già magnifico. La musica è perfetta, coinvolgente e anche noi, per natura restii a manifestare le nostre emotività, ci lasciamo trasportare dall’entusiasmo collettivo. È il primo impatto con l’indole calda della gente del Sud che esprime le proprie emozioni senza remore, senza vergogna. Noi abbiamo difficoltà persino a parlare. Se ci cascasse la lingua nemmeno ce ne accorgeremmo. La nostra forma di comunicazione più aperta è il mugugno. “M” sta per “sì”, “MMMMM” sta per molto, “M-M” è “no” “M-M-M” bello. Conta molto l’intonazione. «Ma perché?» ci chiedono i nostri amici che non comprendono. Bella domanda. Non essendoci mai confrontati con una realtà del Sud, nemmeno ci siamo mai posti il problema. Non abbiamo una spiegazione razionale. «Perché siamo fatti così» rispondo. «Ma è brutto!» commentano. Sì, è vero. È brutto, ma noi tendiamo a chiuderci nel guscio come tartarughe. Invece i palermitani sono solari, espansivi, sono ancora capaci di sorridere, ma sorridere per davvero, anche con gli occhi; non si limitano ad uno stiramento dei muscoli facciali a rischio paresi.
Lasciamo lo splendido Verdura e attraversiamo la città. Seminascoste in parchi lussureggianti (ma non c’è carenza d’acqua a Palermo?) sontuose ville liberty fiancheggiano l’ampio viale. Nella grande piazza, ci inchiniamo davanti al superbo neoclassico Teatro Massimo e all’eccentrica architettura del Politeama. Ne aveva di fantasia Damiani Almeyda! Le emozioni si rincorrono, e ancora non abbiamo visto niente! Percorriamo viale Libertà fino all’ingresso del Parco della Favorita, residenza prediletta del re Ferdinando III di Borbone. «È la palazzina cinese» ci ragguagliano gentilmente. Effettivamente la sua architettura esotica salta immediatamente all’occhio. Ci fermiamo per una ‘cremolosa’. Definirlo semplicemente ‘gelato di frutta’ è riduttivo, direi offensivo, per una tale prelibatezza. Ormai è notte fonda, ma la città non sembra accorgersene, viva, animata com’è. Qui il tempo si dilata, assume un’altra dimensione. Il greco spira leggero e rinfresca l’aria. Proseguiamo: i Quattro Canti in stile barocco, il fiabesco Palazzo dei Normanni, la celebre Fontana Pretoria, un poco sacrificata con le sue quaranta statue.
E infine, meraviglia delle meraviglie la Cattedrale, un capolavoro d’arte normanna. Anche se è notte restiamo incantati ad ammirare la facciata ricca di ricami moreschi che ricorda una moschea, l’ampio portale la cui triplice fila di colonne sostiene archi ogivali sfarzosamente ornati, una seconda fila di ogive e su, in alto, una stretta finestra gotica, i due campanili gugliati, le sculture, gli arabeschi e i merli tondi/acuti che incorniciano l’intero immenso edificio. Una bellezza unica, mai vista in alcuna altra parte del mondo. Eppure abbiamo viaggiato parecchio.
Prima di rientrare i nostri amici ci mostrano “l’albero di Falcone”. Mormoriamo una preghiera sincera per questo eroe moderno che si è sacrificato per la sua gente.
Non siamo state scippate, ma è solo il primo giorno, siamo fiduciose.
L’indomani i nostri amici ci accompagnano al Monte Pellegrino. Un omaggio alla “Santuzza”, di cui già abbiamo visto il carro su cui attraversa la città il giorno del Festino, è doveroso. Il paesaggio sotto di noi è di una bellezza impareggiabile: la città, il golfo, la Conca D’Oro. È una giornata serena e calda, ma lassù spira un venticello che smorza la vampa rovente del sole. Il Santuario è incastonato in una grotta naturale, che favorisce la meditazione. Ci avviciniamo alla teca dove è adagiata la statua di Santa Rosalia vestita d’oro sbalzato. Il Suo volto marmoreo irradia serenità. Sostiamo un momento in preghiera. All’uscita la luce del sole ferisce gli occhi. Un giretto per le immancabili bancarelle –tutto il mondo è paese- e di nuovo giù, verso Palermo. Molto carinamente i nostri amici sostano nei punti più panoramici per permetterci di fotografare tanto splendore. Sarà una consolazione rivedere le foto il prossimo inverno, a 15 sotto zero.
Prossima destinazione Mondello, la spiaggia della città. Nonostante il caldo, divoriamo panino con panelle, patatine fritte e fritto di pesce. Ci sorge il dubbio che qui non conoscano la parola ‘light’ o ne abbiano un concetto un filino diverso di quello del Nord. Già ne avevamo avuto il sospetto al nostro arrivo. La nostra amica, cuoca impareggiabile, aveva allestito un pranzo paragonabile al cenone di Capodanno: pasta col tritato (ragù), involtini siciliani (mi farò dare la ricetta) superlativi, caponata di melanzane, peperoni arrostiti, insalata mista, mellone (anguria) e, per concludere, i mitici dolci del pasticcere filosofo. Il profumo del mare si confonde con i profumi provenienti dalle numerose friggitorie. Con una punta di invidia guardiamo i bagnanti che si crogiolano al sole. Mi guardo attorno: “Ma dove sono i mafiosi armati di lupara?” mi domando. “Che siano emigrati tutti al Nord?”. La sera ci abbuffiamo con una mega brioche col gelato. Roba da sballo!
Anche oggi lo Scippatore non si è fatto vivo.
L’indomani trascorriamo la giornata in spiaggia all’Isola. Davanti a noi l’Isola delle Femmine, diamante puro e solitario incastonato nel mare. «In passato ci portavano le donne a fare il bagno, lontano da occhi indiscreti» ci racconta la nostra amica. Questo pensiero mi rattrista. Dietro di noi un semicerchio di montagne calcaree vira dal rosa all’oro, a seconda dell’ora. La sabbia fine, quasi impalpabile, è ustionante. Troviamo refrigerio nell’acqua, piacevolmente tiepida e sgombra da alghe e mucillaggine. Il contatto dell’acqua sulla pelle è una lunga languida carezza. Ci lasciamo cullare dalle brevi onde, in uno stato di assoluta beatitudine. I panini con la frittata al basilico preparati dalla nostra amica ci riportano alla realtà, peraltro altrettanto piacevole. Restiamo in spiaggia fino al tramonto.
C’è musica, la gente balla, ci rinfreschiamo sorseggiando granite. Quella ai frutti di gelso è una vera sciccheria. Riaffiorano i ricordi di un passato lontano, quando mi rimpinzavo di frutti di gelso – moroni - mentre accompagnavo mia nonna a raccogliere i rami frondosi della pianta che nutrivano i suoi bachi da seta, voraci animaletti che trascorrevano la loro breve vita a ingozzarsi di foglie di gelso per produrre il prezioso filo. Ora i bachi non ci sono più da tantissimo tempo e nemmeno i gelsi. Ma questa è un’altra storia.
Durante il tour notturno ci fermiamo in via D’Amelio. Ci tenevo tantissimo. Mi prende un groppo alla gola. C’è tutta l’Italia appesa ai rami di quella pianta. Questa volta la mafia si è tirata la zappa sui piedi, come si dice in Piemonte. Superiamo il palazzo di Giustizia e il carcere dell’Ucciardone, dove servono un caffè corretto buono … da morire. Ci stiamo abituando alla parlata locale, alla sua musicalità un po’ strascicata e prendiamo confidenza con i termini prettamente siculi. I romanzi di Camilleri hanno fatto scuola!
«Volete assaggiare il panino con la milza?» ci chiedono i nostri meravigliosi amici. «Non potete lasciare Palermo senza averlo assaggiato» ci esortano. Dobbiamo meditarci su. Per questa sera ci limitiamo al più ‘tranquillo’ sfincione, una vera leccornia. Ormai abbiamo mandato al diavolo il conto delle calorie e il frustrante cibo light. Oltre che una goduria per il palato tutte queste bombe caloriche sono un vero toccasana per la psiche. Si deve essere un masochista convinto per rinunciarvi. Davanti a una mega porzione di linguine al sugo di cozze, alle olive farcite, alle verdure cucinate superbamente in tutti i modi possibili non si può che sentirsi felici e appagati nel corpo e nello spirito.
Non abbiamo ancora incontrato lo Scippatore, ma non disperiamo.
Mentre mia figlia dichiara che il panino con la milza non entrerà nella sua bocca, io decido di assaggiarlo. Ormai è diventata una sfida: la prova del fuoco di una piemontese a Palermo. I nostri amici ci portano nello storico locale in piazza S. Francesco la “Focacceria San Francesco”, nella città vecchia. Finalmente vediamo la Palermo del nostro immaginario: vicoli stretti e bui, case di pietra grigia abbracciate le une alle altre sulle cui facciate sporgono balconcini microscopici dai quali pendono panni stesi. Dietro le imposte chiuse immaginiamo prendano vita le storie lette nelle novelle di Verga e di Pirandello. Che sia la volta buona che da un androne buio salti fuori lo Scippatore?
«Questa è la città che ci aspettavamo di trovare, non una megalopoli moderna!» confesso. Ci raccontano la storia di questa un po’ inquietante struttura urbana. «Palermo è da sempre legata al mare ed è da lì che più facilmente potevano arrivare i pericoli. Nel caso, i palermitani chiudevano in fretta e furia le entrate dei vicoli, operazione impossibile se le strade fossero state larghe.»
Il locale è fresco e accogliente. Arancini, cous-cous, sarde al beccafico, pesci marinati e fritti, cannoli e cassate fanno bella mostra di sé dietro il vetro del bancone, assoluta delizia per gli occhi. Ma dov’è il panino con la milza? Ci indicano un pentolone luccicante, grande come una caldaia, colmo di tocchetti di milza, su un banco leggermente più alto rispetto all’altro. Come un re è giusto che abbia il posto d’onore. Il profumo è invitante, ma un pizzico di diffidenza ancora persiste, pervicace.
«Schietta o maritata?» domanda il cuoco. Si riferisce al panino, immagino. «Maritata» rispondo, anche se non so cosa significa. Lo scopro quando alla badilata di milza, inserisce nel panino una spessa fetta di ricotta. Mentre raggiungo gli amici, do una sbirciatina al tavolo accanto al nostro. Due ‘picciriddi’ stanno divorando con gusto il loro panino con la milza. Mi rincuoro. Come si conviene ad un vip, il panino viene fotografato in diverse ‘pose’. Alea iacta est: lo addento. Immediatamente rivela la sua natura: una vera prelibatezza. Il pane è morbido e tiepido, la milza si impasta tra la lingua e il palato soffice, saporita. Semplicemente divino. Palermo mi ha regalato un’altra magnifica sorpresa e un motivo di meditazione. È sbagliato fermarsi alle apparenze o lasciarsi influenzare dai preconcetti. E non mi riferisco solo al panino con la milza.
Ma dov’è finito lo Scippatore? Meschino!
L’indomani, domenica, ci attende un’esperienza per noi emotivamente destabilizzante, in senso positivo. Il pranzo della festa in famiglia al nord è una tradizione morta e sepolta da decenni. Qui è ancora viva e vitale; insieme alle ottime portate di pesce vengono serviti baci, abbracci, risate e sorrisi su vassoi di serena complicità in un’atmosfera di gioiosa condivisione. Porteremo con noi il ricordo struggente di questo convivio familiare, lontano mille miglia dai pallosissimi e per fortuna abbastanza rari ‘pranzi di famiglia’ nordici. Qui la famiglia assolve ancora alla sua funzione di nucleo aggregante e protettivo, solo marginalmente influenzato dai fattori esterni che la rendono ‘disfunzionale’. Sarà questo il segreto?
Dopo il pranzo saliamo al Castello di Carini. Conosciamo anche noi la triste storia della Baronessa di Carini. Nell’elegante Salone delle Feste, dallo splendido soffitto ligneo a cassettoni, si sta celebrando un matrimonio, istituzione qui ancora molto ‘sentita’. Bifore e trifore illuminano le stanze. Ci caliamo nei panni del turista e ci fiondiamo a fotografare l‘impronta della mano insanguinata(?) della Baronessa impressa sulla parete della stanza dove il padre la uccise. La sera, a casa dei nostri amici, ascoltiamo la struggente ballata della Baronessa di Carini, tramandata dai cantastorie.
Mentre rientriamo a Palermo ci fermiamo a fotografare un gruppetto di anziani seduti al tavolino di un bar, immagine icona, per noi, della Sicilia atavica. Ci saranno anche Totò e Mimì tra loro? Sopra di noi gli elicotteri dei vigili del fuoco gettano il loro carico d’acqua sulle alte fiamme che da giorni divorano i boschi. La riserva naturalistica dello Zingaro è completamente distrutta e il rogo di Bellolampo ha creato non pochi problemi alla città ormai disseminata di rifiuti.
Non si può lasciare la Sicilia senza aver visitato il Duomo di Monreale. La scarna architettura esterna racchiude un inimmaginabile gioiello. Ovunque mosaici, intarsi, sculture, ricami preziosi creati da minuscole tesserine d’oro o laccate. Nessuna foto è in grado di rendergli merito, bisogna vederlo, viverlo con gli occhi e col cuore per apprezzarlo appieno. Penso quanta perizia, quanta fatica sono costati in termini di tempo e di lavoro gli arabeschi e le scene sacre che ornano le pareti e il soffitto questa immensa cattedrale. Di fianco alla chiesa si distende il chiostro. Lo vediamo dall’esterno. A un chiosco ci ristoriamo con una granita. L’indole gentile dei siciliani si esprime nella loro quotidiana e disinteressata cortesia. Allora la tanto vituperata omertà è tutta una bufala!
Sorpresa! Su una bancarella troviamo gli scacciapensieri. Il venditore ne prende uno e inizia a suonarlo. Deun, de deun de deun … musica di Sicilia! Sorpresa, sorpresa! Un carretto siciliano in miniatura. Ci precipitiamo a farci fotografare vicino a questa icona, e pazienza se il cavallino è finto!
La mia attenzione viene attirata da un dolce, piccolo e invitante, rosso come un cuore, morbido come una carezza. «È il gelo di mellone, lo vuoi assaggiare?» Certo, tra noi è stato amore a prima vista!
Domani sarà il nostro ultimo giorno. I nostri amici ci propongono un ultimo giro in città. «Vi interressa vedere ancora qualcosa in particolare?» A dire la verità una cosa ancora c’è. Sono le catacombe dei Cappuccini. Recentemente ho visto in tv un documentario. Mi intriga vedere la Bambina. Vederla sullo schermo è una cosa, dal vivo è un’emozione grandissima, molto più sconvolgente degli scheletri che occupano le pareti. Penso a lei come a un piccolo angelo che vuole mostrarci l’estasi che attende il nostro spirito dopo che avremo abbandonato il nostro guscio nella terra. Poiché lo spirito è invisibile, ha mantenuto la sua innocente e serena bellezza a beneficio della nostra limitata umana comprensione. Questo luogo ci ha turbati profondamente.
Una visita al quartiere Zen che tante volte abbiamo visto in televisione in quanto teatro di fatti delittuosi è irrinunciabile. Abiterà qui lo Scippatore? Apparentemente è un comunissimo quartiere popolare, gli appartamenti hanno addirittura la vista mare!
Il cruccio dell’imminente distacco comincia a insinuarsi nella mente e nel cuore fortunatamente dissipato dall’affetto caloroso dei nostri amici e da una super mega spettacolare torta Sette Veli. Paradisiaca.
Anche stasera lo Scippatore no si è fatto vedere. Era l’ultima occasione.
Il mare si confonde col cielo; entrambi grigi e tristi come i nostri cuori. I nostri amici ci accompagnano all’aeroporto a quest’ora impossibile del mattino. Le ultime foto, gli ultimi abbracci. I sorrisi sono un po’ tirati. Porteremo nel cuore il loro affetto profondo e sincero insieme alle immagini strepitose di una città generosa e nobile, magnifica e signorile. Addisposizione!!!!
P.S.: davanti alla Stazione Centrale di Milano uno scippatore strappa la borsetta ad una signora. Ci guardiamo negli occhi.
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