Scostò le tende e guardò attraverso i vetri. Non che ci fosse granché da vedere; una grigia cortina di nebbia avvolgeva i campi. Erano le quattro del pomeriggio ma era buio come fosse sera inoltrata. “Dannata nebbia” pensò, allontanandosi dalla finestra. In quel momento la caffettiera gorgogliò. La tolse dal fornello e si versò una generosa dose di caffè nel vecchio, opaco bicchiere. “Il caffè nel bicchiere ha tutto un altro gusto” diceva suo padre, estimatore della bevanda da quando dalla Francia era emigrato in Italia. Quella frase era uno dei pochi ricordi che aveva di suo padre che da molto tempo ormai riposava nel cimitero del paese. Dopo la sua morte la madre si era trasferita a Torino dove vivevano i nonni che si erano presi cura di lui e della sua sorellina. Al paese tornavano di rado. La casa che era stata affidata alle cure del fattore che si occupava anche dell’orto e delle risaie. Perlustrò la stanza con lo sguardo, mentre stringeva tra le mani il bicchiere. La carta alle pareti era staccata in più punti. Vicino alla stufa era talmente coperta di fuliggine che i fiori rosa e gialli erano un ammasso informe grigio. I suoi occhi seguirono la treccia di fili elettrici, assolutamente fuori norma, che correva lungo le pareti e attraversava il soffitto macchiato dall’umidità fino al lampadario di maiolica che pendeva sopra il tavolo. Le tubazioni rumoreggiavano tutte le volte che apriva il rubinetto e l’acqua che usciva aveva un inquietante colore rosso scuro. Imbevibile. Finì il suo caffè e posò il bicchiere sul tavolo poiché l’acquaio straripava di stoviglie da lavare. Pensò al suo piccolo appartamento in città fornito di tutti gli elettrodomestici, compresa una lavastoviglie di cui provò la mancanza in maniera quasi struggente. Avvilito, si diresse verso il tavolo dove stagnava il motivo per cui era lì e non al Sestrière con la sua fidanzata e i suoi amici. Da quel mucchio di appunti avrebbe dovuto trarre il racconto che il suo editore pretendeva di avere sulla sua scrivania entro due giorni.
Non poteva nemmeno dargli torto; erano mesi che tergiversava. L’out-out era arrivato la settimana precedente: o consegnava il racconto prima della fine del mese o avrebbe dovuto restituire l’anticipo che gli era stato versato. In realtà lui non era un vero scrittore; era un ingegnere e scrittore lo era diventato per caso. Un giorno aveva mandato ad una rivista letteraria un racconto che aveva scritto per ammazzare il tempo. Quando aveva ricevuto la lettera che lo informava di aver vinto la pubblicazione del suo scritto su un’antologia miscellanea credé si trattasse di uno scherzo e nemmeno si degnò di rispondere. Lo convinse del contrario solo la telefonata dell’editore che lo invitata nel suo ufficio per ‘una possibile fattiva collaborazione’. E così era iniziata quell’avventura. «Devi assolutamente scrivere del territorio» aveva sbraitato l’editore al telefono, quando lui gli aveva fatto notare che ‘il territorio’ non offriva molti spunti. Iniziò a leggere svogliatamente; il suo interesse per quelle annotazioni, di cui in verità non ricordava quasi nulla, scemava col trascorrere dei minuti. Quando il vecchio pendolo suonò dodici rintocchi si buttò sul divano, completamente vestito, raggomitolandosi sotto il plaid.
«Arrivo, arrivo!» brontolò. Qualcuno stava bussando con insistenza. Sbirciò dalla finestra prima di rimuovere la sbarra all’uscio. Il vento si era intensificato e cadevano gocce di pioggia gelate. Il cielo aveva una sfumatura perlacea con pennellate di nuvole scure. «Aiutatemi, vi prego» lo implorò una voce al di là della porta. «Mi sono perso, sono un pellegrino.» Aprì uno spiraglio, lasciando inserito il catenaccio e osservò stupito l’uomo che gli stava di fronte avvolto, in un ampio mantello. «Mi sono perso» ribadì l’uomo implorante. «Sono un povero pellegrino, vengo da Roma. Devo andare a Torino, ma ho sbagliato strada. Vi prego, fatemi entrare; vi chiedo solo di potermi scaldare un momento, fa tanto freddo.»
La diffidenza e il sospetto gli suggerivano di mandare al diavolo quell’individuo, ma il suo smarrimento e la sincerità che percepì nelle sue parole lo indussero a levare il catenaccio.
«Entri» disse, precedendolo nella stanza. Si strinsero la mano, presentandosi. «Si levi il mantello, è fradicio. Le preparo una tazza di latte caldo» disse, invitandolo a sedersi accanto alla stufa. «Grazie, siete una persona dabbene.» «Ma come parla ‘sto qui» pensò.
«Il suo nome è …»
« Kilian. Kilian Louénant di Plégat, in Bretagna.»
L’uomo annuì, sorridendo comprensivo di fronte alla palese circospezione del suo ospite.
«Sì. Sono stato a Roma per ottenere indulgenza per i miei peccati» recitò sommessamente.
«Ah. E come mai vuole andare a Tronzano?»
Si accorse di avere usato un tono inquisitorio e cercò di rimediare «Non è obbligato a rispondermi, in fondo sono affari suoi.»
«È una lunga storia, occorrerebbero ore per raccontarla.»
«Se è solo una questione di tempo, quello non ci manca. Ci vorranno almeno un paio d’ore prima che il mantello sia asciutto» replicò, mettendogli davanti la tazza di latte fumante. «Ma, come le ho detto, non è obbligato a raccontarmi niente.»
«Al contrario, mi farebbe molto piacere intrattenermi con voi, siete una persona di così buon cuore.»
«Mangi adesso, parlerà dopo» disse, avvicinandogli un pacco di biscotti.
Con sua grande meraviglia, l’uomo fece il Segno di Croce e recitò una breve preghiera prima di iniziare a sorbire il suo latte. Quel piccolo gesto di fede lo riportò indietro nel tempo. Da bambino aveva fatto il chierichetto ed era stato così orgoglioso di indossare la tunica e di essere a fianco del sacerdote sull’altare. Attraverso il fumo profumato dell’incenso vedeva i fedeli raccolti in preghiera due gradini più in basso. Si considerava un privilegiato. In seguito gli impegni sempre più pressanti lo avevano travolto e non c’era stato più il tempo per pregare.
La vista delle orme di acqua e fango che attraversavano la stanza lo riportarono al presente. Si alzò per andare a prendere uno straccio per asciugare il pavimento e restò allibito dalle calzature del pellegrino che ricordavano le ciocie dei butteri.
«Deve avere i piedi congelati ‘sto poveretto» pensò. «Si metta queste,» disse, porgendogli un paio di pantofole. «I suoi piedi devono essere un pezzo di ghiaccio.»
Il pellegrino non si fece pregare. «Vi ringrazio, accetto volentieri la vostra generosa offerta, i miei piedi ne trarranno un gran beneficio» rispose, mettendo i calzari sotto la sedia sulla cui spalliera era appeso il mantello gocciolante. Quel modo di parlare forbito cominciava a dargli sui nervi. «Cosa ne dice se ci diamo del tu e la smettiamo con tutti ‘sti salamelecchi?» propose. L’altro lo guardò stranito, ma annuì.
«Hai ancora fame?»
«No, sto bene così.»
«Allora Kilian, la tua storia me la racconti?» domandò.
«Non saprei da dove iniziare».
«Dal principio, di solito» lo sollecitò. Era affascinato da quello strano personaggio per il quale provava empatia.
«Cinque anni fa’ sono partito da Plégat per venire a Roma» iniziò a raccontare. «Ero molto giovane ed ingenuo e scambiai per pellegrini una banda di briganti che mi derubarono. Ma non mi persi d’animo e proseguii per la mia strada. Camminai per settimane seguendo la via Francigena, vivendo della carità dei contadini. Giunsi al Borgo di Santhià una notte d’estate. Le porte erano già chiuse ed io ero tanto stanco che mi addormentai. Fu così che conobbi un altro pellegrino che divenne il mio migliore amico. Si chiamava Lommic.
«È il diminutivo di Guillaume, Guglielmo. Anche lui andava a Roma. Veniva dalla Provenza ma era originario del Borgo. Quella notte dormimmo nella vecchia e malridotta chiesa di San Nicolao. Chissà se c’è ancora. Gli Spagnoli e i Trentini l’avevano quasi distrutta. Mi raccontò che dove passavano quei barbari facevano a pezzi o bruciavano tutto quello che trovavano. La mattina seguente mi accompagnò al Borgo. Mi offrì il pranzo in una locanda vicino all’Isola di Sant’Eusebio, o forse era l’Isola del SS. Salvatore. Era vicino alla Torre di Teodolinda. C’era la processione delle Rogazioni quel giorno. Sai se la fanno ancora?» domandò.
«Non ne ho mai sentito parlare» confessò.
«Poi Lommic mi condusse da Padre Raniero, al convento vicino a Santa Maria delle Grazie.»
A lui non risultava che a Santhià ci fosse un convento, né una chiesa con quel nome, ma non disse nulla.
«Ebbi un colloquio col Padre Priore» proseguì. «Quella notte dormimmo nella foresteria perché si scatenò un furioso temporale. Lì conobbi Jacopo Scaglia.»
Lui fissava stranito il suo ospite, ma questi non pareva accorgersene. Parlava con voce pacata, con quella buffa ‘erre’ arrotolata. Negli occhi aveva una luce trasparente, pulita. Non era uno squilibrato, eppure il suo racconto era stravagante, per usare un eufemismo. Ne era affascinato.
«La mattina seguente uscimmo da Porta Tronzania.» proseguì, incoraggiato dallo sguardo del suo ospite. «Lommic mi guidò attraverso un bosco. Io sono nato tra le foreste della Bretagna e mi parve di essere di nuovo a casa. Quando uscimmo dal bosco, però, le zanzare mi assalirono. Davanti a noi c’erano acquitrini e marcite che ammorbavano l’aria. Mi spiegò che prima che arrivassero quei senza Dio – li chiamò proprio così- lì c’erano le risaie. E poi arrivammo a Tronzano.»
«Come mai eravate diretti a Tronzano?» lo interruppe. Il pellegrino si agitò a disagio sulla sedia, poi, dopo un attimo di esitazione, si schiarì la voce e proseguì.
«Credo che a Lommic non dispiacerà se racconto la sua storia. All’inizio mi disse di essere andato in Provenza per sfuggire alla peste, ma in realtà era fuggito perché credeva di aver ucciso il fratello della donna che amava. Era lei che voleva incontrare.»
«E c’è riuscito?» chiese, ormai totalmente assorbito dalla storia. Kilian annuì. «Sì,» rispose laconico. Comprendendo di aver toccato un tasto delicato, sviò la sua attenzione offrendogli da bere. «Allora siete arrivati a Tronzano.»
«Sì, ci fermammo nella chiesa di San Pietro.
Faceva molto caldo e la penombra della chiesa fu una vera benedizione. Ero affascinato dal grande quadro della Vergine col Bambino e i Santi Pietro e Paolo. Lommic mi spiegò che le due figure ai piedi di San Pietro erano i benefattori Barberis. Poi mi indicò il quadro di San Bovio e mi raccontò che i tronzanesi gli sono molto devoti, essendo il protettore degli animali e gli dedicano una grande festa. Mi ha pure narrato del Disné dal Prior.
Quando gli domandai se fosse il Patrono del Borgo, lui mi rispose che no, era San Pietro dai tempi dei Guelfi e Ghibellini. Allora io gli raccontai di una festa in Bretagna in onore del Santo.»
«Ti va di raccontarla anche a me?»
«Con piacere. A Montreff e si festeggia il Santo con dei falò che chiamano Tantad. Ogni famiglia sceglie un posto sulla montagna costruisce una catasta con mucchi di legna secca. Quando è pronta, una vergine appende alla pertica che ne forma l’asse una ghirlanda di fiori e sulla punta della pertica mette una rocca avvolta di lana bianca. Poi arriva il Tadiou, il più anziano del clan, che accende il fuoco sotto la catasta. Intanto un orante intona le litanie del Santo che finiscono prima che il fuoco si spenga. Inizia allora la processione delle anime: al termine la gente prende delle pietre di scisto, le segna col segno di Croce e le depone attorno alla cenere della catasta. La cenere viene poi messa all’asta.
Poi tutti raccolgono una manciata di cenere da portare a casa. Lommic mi canzonò quando gli dissi che il cibo preferito da San Pietro era la pappa d’avena. È una storia raccontata dai montanari. Quando San Pietro accompagnò Gesù in Bassa Bretagna si dice che mangiasse volentieri la pappa d’avena e i montanari, quando hanno un parente prossimo alla morte, si recano alla cappella di San Pietro per intercedere per lui e gli offrono una scodella di pappa d’avena.»
«Ogni Paese ha le sue tradizioni ed è giusto che vengano rispettate.» sentenziò lui con una punta di spocchia. «Poi cosa è successo?»
«Andammo a mangiare in una locanda. Era un posto puzzolente e sporco, ma la minestra era buona. Lì Lommic incontrò un vecchio amico, Gerlando. Fu l’unica volta che lo vidi commosso fino alle lacrime. Mi sentivo di troppo, e uscii dalla locanda. Gironzolai un po’ e, per caso, mi trovai davanti al vecchio convento. Spinto dalla curiosità entrai.»
Improvvisamente nella stanza l’atmosfera si fece tesa; Kilian rabbrividì sensibilmente.
Lui aspettò. Guardò l’orologio; era piuttosto tardi e prese a rigirare il vecchio bicchiere tra le dita. «Quel giorno mi resterà impresso nella memoria per sempre, anche se in realtà non ricordo tanti particolari» sussurrò.
«Se ne parli, riesci ad esorcizzare quel brutto ricordo» disse lui, avvalendosi della psicologia spicciola dei rotocalchi. Il pellegrino si schiarì la voce e trasse un profondo sospiro.
«Ricordo che entrai in una stanza spaventosa. Il pavimento era ricoperto di paglia; tavoli e panche erano rovesciate. Dalle travi pendevano ragnatele e dalle aperture penzolavano brandelli di tende. C’erano tre uomini; uno indossava il saio, gli altri due pantaloni grossolani e una camicia logora sotto il corpetto di cuoio. Quello col saio teneva gli occhi chiusi, mentre gli altri due parlavano a bassa voce. C’era anche una donna che piangeva sommessamente accanto al focolare. Non fu la scena in sé a sconvolgermi, ma il gelo che regnava in quel luogo, l’odore della morte. Fui colto da vertigini. Ero stato punto da una zanzara infetta e avevo contratto la malaria. Quelle allucinazioni erano la conseguenza della febbre.»
«Certo che sei stato sfortunato! Sono secoli che non si registra un caso di malaria da queste parti. E poi?» chiese intrigante.
«Lommic mi trovò, mi caricò sul carretto del fabbro che per caso passava di lì e mi portò a casa sua.» Si schiarì di nuovo la voce e un feroce rossore comparve sotto la barba scura. «Lì conobbi Magdala.»
«Ti sei innamorato di lei?» chiese. «Sì.» I suoi occhi brillavano di una gioia.
«Sono tornato per chiedere la sua mano a suo padre, o almeno all’uomo che lei crede sia suo padre.»
«Lommic è il suo vero padre.» Una folata di vento fece sbattere un ramo contro il vetro. Kilian sobbalzò.
«Hai detto che il tuo amico era scappato perché credeva di aver ucciso il fratello della sua donna» ricordò.
«Si erano conosciuti da ragazzini» iniziò a raccontare. « Lei piangeva perché il suo gattino non era più capace di scendere da un albero. Lui si era arrampicato l’aveva afferrato per la collottola e l’aveva portato giù. Si erano rivisti molte volte, avevano un posto segreto. Un giorno lei arrivò piangendo disperata perché il padre l’aveva promessa in sposa ad un altro. Continuarono ad incontrarsi di nascosto. Il fratello di lei li scoprì. Lommic lo colpì con una pietra. Pensò di averlo ucciso e quella stessa notte fuggì. Poi scoppiò un’epidemia e lui non poté più tornare da lei.»
«Quindi, quando lui se ne andò non sapeva che lei era incinta» dedusse. «Scoprì dell’esistenza della figlia solo cinque anni fa’.» «E come faceva ad essere sicuro che fosse sua?»
«Glielo disse lei. Lui le giurò che saremmo ritornati sani e salvi, ma non ha potuto mantenere la promessa. Si è addormentato e non si è più svegliato.» spiegò rassegnato.
«Così sei tornato per mantenere la promessa.»
«Anche per quello. Devo informare donna Marta che Lommic è morto.»
«Non vorrei sembrarti cinico, ma sei sicuro che Magdala ti abbia aspettato per tutto questo tempo? Cinque anni sono tanti, può aver cambiato idea.»
«Ne sono certo» disse, con una sicurezza disarmante. «Suo padre non mi negherà la sua mano. Ho vissuto a casa sua quasi un intero anno, mi conosce bene.»
«Se cerchi una casa, questa è libera. Ti faccio un buon prezzo»
«Una volta sposati la porterò a Plégat.»
«E se lei invece volesse restare qui?» lo stuzzicò.
«La moglie segue sempre il marito. C’è scritto anche nei Libri Sacri» replicò Kilian con assoluta sicurezza.
Era quasi l’alba. Aveva passato tutta la notte insieme a quello strano personaggio.
«I miei indumenti sono asciutti. È ora che riprenda la mia strada» disse, alzandosi.
« Ma è presto, non vorrai presentarti a casa della tua futura sposa a quest’ora!»
«Il fabbro si alza sempre all’alba per preparare la fucina, tagliare il ferro, riempire d’acqua il mastello. Lo so perché era il mio lavoro quando stavo da lui. Sai se la Credenza ha deciso di aggiustare la chiesa di San Pietro? Mi piacerebbe sposarmi lì. Lommic mi disse che era da quando il nobile feudatario Riccardino del Castello l’aveva donata al Borgo che non veniva più riparata. Sono passati più di cent’anni da allora … »
Lui lo stava fissando a bocca aperta con un’espressione ebete dipinta sul volto, ma Kilian gli voltava le spalle e non poteva vederlo e proseguì:
«Una volta Magdala mi disse che a sua madre sarebbe piaciuto sposarsi nella chiesa di San Martino; ma già cinque anni or sono sembrava dovesse crollare da un momento all’altro.»
Sulla soglia si voltò un’ultima volta. «Ti ringrazio per avermi dato ospitalità. Il Signore ti protegga e ti ricompensi. Addio.»
«Addio» rispose a mezza voce.
Il suo ccellulare prese a suonare con irritante insistenza. Guardò il display e pigiò il tastino verde.
«Ciao, amore. Ti ho svegliato?»
«No, ero sveglio» rispose con un velo di fastidio immediatamente percepito dall’orecchio ricettivo di lei.
«Ti ho disturbato?» domandò contrariata.
«No, no» si affrettò a rassicurarla. «È solo che sono un po’ stanco. Ho lavorato tutta la notte» mentì spudoratamente.
«Povero tesoro!» replicò. «Mi fai sentire in colpa. Noi siamo tornati ora dalla discoteca. C’era una band strepitosa!»
«Sono contento che ti stia divertendo» rispose sbrigativo.
«Sei ancora lì?» chiese incerto.
«Sì, ma ho capito che non è un buon momento. Chiamami tu quando avrai voglia. Ciao.»
«Aspetta!» gridò nel microfono, ma la comunicazione era già stata interrotta.
«Al diavolo!» inveì, gettando il telefonino sul tavolo, ma subito il senso di colpa lo assalì. Lo raccolse e schiacciò il tasto di chiamata rapida. Gli rispose il banale messaggio registrato: ‘Il cliente da lei chiamato … ’ Se l’aspettava, ma ci rimase male ugualmente. Sbuffando e imprecando ad alta voce, guardò sconsolato gli appunti; girò lo sguardo e vide l’acquaio straripante di piatti sporchi e le imprecazioni aumentarono di numero e di intensità. Non aveva scritto una riga di quel dannatissimo racconto a causa del quale aveva rinunciato alla vacanza in montagna, aveva litigato con la sua fidanzata e aveva passato la notte ad ascoltare i vaneggiamenti di uno sconosciuto. Si distese sul divano e chiuse gli occhi.
La luce che entrava attraverso gli scuri della finestra lo avvertì che era giorno fatto. Un’occhiata all’orologio gli confermò che mezzogiorno era passato da un pezzo. Si passò la mano sul viso e la barba gli punse il palmo. Ancora mezzo addormentato, si trascinò verso l’acquaio, riempì il bollitore e lo mise sulla stufa. Nell’attesa che l‘acqua si scaldasse, si sedette al tavolo. La vista del pacco dei biscotti gli ricordò l’assurda visita notturna e il cuore accelerò i battiti. Quel pensiero lo assillava, inibendo la concentrazione indispensabile per scrivere il racconto. «Il racconto» mormorò tra sé. «Il racconto!!!!» gridò, folgorato da un’improvvisa intuizione.
«Via voi!» esclamò rivolto agli appunti. Con gesti nervosi appallottolò i fogli e li gettò nella stufa. Accese il computer e le sue dita volarono sulla tastiera alla stessa velocità dei pensieri; ricordava ogni parola pronunciata la notte precedente e non ebbe alcuna difficoltà ad imbastire la narrazione.
La notte stava cedendo il passo all’alba quando schiacciò il tasto ‘invio’ e l’allegato entrò nell’etere. Esausto si buttò sul divano. Prima di addormentarsi si ripromise di andare a Tronzano a cercare il pellegrino per ringraziarlo. Se aveva fatto un buon lavoro – ed era più che sicuro che anche l’editore sarebbe stato soddisfatto - era soprattutto merito suo.
Dopo poco la bustina gialla dell’avviso di un sms in arrivo lampeggiò. Aprì il messaggino: “Ottimo lavoro ci sentiamo dopo le vacanze. Ciao”
«Bingo!!!» esclamò, «Sestrière sto arrivando!»
Aveva ancora quattro giorni di vacanza e non aveva alcuna intenzione di trascorrerli in quel posto dimenticato da Dio. Prese il cellulare inviò un sms alla fidanzata. Di certo ancora gli teneva il broncio e non era sicuro che avrebbe risposto ad una chiamata. Sorrise tra sé; una volta in montagna si sarebbe fatto perdonare con una romantica cenetta in un ristorantino di sua conoscenza.
Impiegò più di un’ora a rassettare casa. Poi, soddisfatto, caricò trolley e computer nel bagagliaio e partì. La tentazione di immettersi in autostrada al primo casello era forte, ma si era fatto una promessa e imboccò la strada per Tronzano. Non aveva la più pallida idea di dove cercare quel pellegrino ma avrebbe chiesto in giro; vestito a quel modo non passava inosservato.
Percorrendo a passo d’uomo il viale che attraversava il paese, vide l’insegna di un bar. In giro non si vedeva anima viva. D’altra parte faceva un freddo cane e stava anche scendendo la nebbia.
Entrò nel locale. Fu investito da una musica assordante insieme ad un piacevole calore. «Bentornato nella civiltà» pensò. Ad un tavolino sedeva un gruppo di ragazzini circondato dall’ammasso variopinto di zainetti e giubbotti. Ridevano e parlavano ad alta voce. A lui, però, tutto quel rumore non dava fastidio; al contrario, dopo due giorni trascorsi nella quiete della casa isolata gli sembrava di essere tornato a vivere. Si avvicinò al bancone.
«Dica» chiese il barista cortese ma col tono distaccato, tipico di chi non è abituato a trattare con i turisti.
«Un toast e una birra, grazie» ordinò. «Si accomodi dove preferisce, arrivo subito.»
Per ingannare l’attesa, rivolse la sua attenzione al locale. «Dubito che un pellegrino entrerebbe qui» pensò; ma quando arrivò il barista gli pose ugualmente la domanda che gli stava a cuore.
«Per caso, ieri è passato di qui un pellegrino?»
«No» rispose, circospetto. «Di solito i pellegrini vanno direttamente a Santhià, ma posso chiedere a loro» proseguì, indicando i ragazzi. «Sono più in giro che a scuola, quelli.»
«Ehi voi, avete incontrato un pellegrino ieri?» gridò al gruppo. «No!» risposero in coro. Il barista allargò le braccia desolato.
«Sa dirmi dove abita il fabbro?»
«Il fabbro?» gli fece eco.
«Sì, il fabbro» replicò, leggermente stizzito. Tronzano non era mica Londra. Era plausibile che si conoscessero tutti in paese.
«Non c’è nessun fabbro in paese.» rispose il barista.
«Ci deve essere» insistette. «Senta, non vorrei sembrarle sgarbato, ma io sono sicuro che qui abita un fabbro. Quel pellegrino è venuto apposta da Roma per incontrarlo. Vuole sposare sua figlia ed è qui per organizzare le nozze. Cinque anni fa’ ha abitato da lui per qualche mese, poi è partito per Roma e adesso è da lui. Si chiama Kilian , Kilian … qualcosa,» terminò, passandosi nervosamente una mano sul viso.
«Adesso mangi il suo toast che sta diventando freddo, poi ci beviamo un caffè insieme e intanto parliamo. Con permesso» disse il barista, pensando che ce n’erano di tipi strani in giro, mentre tornava al bancone.
Addentò il suo toast svogliatamente; gli era passato l’appetito e dopo un paio di morsi lo abbandonò sul piatto. Il barista, che non l’aveva perso d’occhio, tornò da lui.
«Non è buono?» chiese, indicando il toast sbocconcellato.
«No, è ottimo. Sono io che non ho molta fame. Mi porta il caffè?»
«Mi sono ricordato un cognome» disse al barista che stava posando sul tavolo le due tazzine. «Scaglia. È il cognome della moglie del fabbro.»
«Non l’ho mai sentito. Aspetti, chiamo mia moglie, lei è nata qui e conosce praticamente tutto il paese.» Ma la breve conversazione telefonica non diede l’esito sperato.
«Mi spiace, ha sentito anche lei.» Lui annuì «Sì, sì ho sentito» rispose, deluso.
«Posso chiederle perché ci tiene tanto a trovare questo Kilian? Le deve dei soldi?»
«No, assolutamente. Volevo solo ringraziarlo per un favore che mi ha fatto, tutto qui. Mentre vado a Santhià a prendere l’autostrada, mi fermerò al convento; magari è andato a trovare il suo amico, padre Raniero.» Guardò l’orologio e si alzò, seguito dal barista sconcertato. «È meglio che mi muova, si sta facendo tardi. Quanto le devo?»
«Sei euro» rispose il barista, battendo lo scontrino.
«Tenga pure il resto e buona serata» lo salutò, porgendogli una banconota da dieci euro.
«Grazie, buon viaggio» gli rispose, ma lui era già sparito nella nebbia. Rimase lì con la banconota a mezz’aria. Forse avrebbe fatto bene a dirgli che a Santhià non c’era un convento, ma ormai era troppo tardi. Controllò che la banconota non fosse falsa e chiuse la cassa. Erano quasi le sette; a minuti sarebbe arrivata sua moglie ad aiutarlo. Fortunatamente la sera i clienti non mancavano. La campanella appesa all’uscio sul retro del locale annunciò il suo arrivo.
«Ciao» lo salutò stampandogli un bacio sulla guancia. «Com’è andata oggi?»
«Normale. E tu stai bene, ha fatto il bravo?» domandò premuroso, accarezzandole il ventre prominente.
«Ha scalciato tutto il giorno. Ormai deve starci stretto qui dentro. Per fortuna manca poco … Hai fame? Ho portato la pasta al forno ti va? »
«Altroché! Preparo subito la tavola. Tu siediti, non devi affaticarti» disse, prendendole dalle mani le pirofile per metterle nel microonde.
«Agli ordini!» rispose, portandosi la mano destra alla fronte.
«Cosa volevi sapere degli Scaglia?» gli chiese tra un boccone e l’altro di pasta.
«È passato un tizio, e mi ha chiesto se sapevo dove stava un fabbro. Gli ho risposto che qui non ci sono fabbri, ma lui insisteva; poi si è ricordato il cognome della moglie, Scaglia, appunto, e dato che io non la conosco ho chiamato te. »
«Sei proprio sicuro che ti ha detto Scaglia?» insistette.
«Certo che sono sicuro, non sono mica rimbambito! Allora questi Scaglia abitano qui o no?» chiese curioso.
«Abitavano … » rispose la moglie sibillina.
«Si sono trasferiti?» la incalzò lui.
«Si sono estinti, piuttosto. Gli Scaglia erano i Signori di Tronzano, ma si parla di circa quattrocento anni fa’» spiegò. Il boccone che stava masticando gli andò di traverso. «Porca pu …»
«Non dire le parolacce!» lo ammonì lei severa. «Lui ti sente, sai!» disse, indicando il pancione.
«Quel tipo parlava di cinque anni fa’, ti rendi conto? Cinque, non cinquecento!»
«Avrai capito male … »
«Ho capito benissimo, invece» replicò risentito. «Ha raccontato che cinque anni fa’ un suo amico, un pellegrino, era stato ospite di questo fabbro per un po’, si era innamorato della figlia e adesso era tornato da Roma per sposarla. Lui lo stava cercando per ringraziarlo di un favore che gli aveva fatto.»
«Non so cosa dirti; l’avevi mai visto questo tizio?» domandò.
«No, mai. Era di passaggio, andava a prendere l’autostrada. Oh cavoli!!!!»
«E adesso cosa c’è?»
«Ha detto che si sarebbe fermato a Santhià, al convento dei frati. Ha fatto il nome di un frate. Aspetta, era il nome del principe di Montecarlo.»
«Ranieri allora. Il papà era Ranieri di Monaco.»
«Raniero. Padre Raniero, ha detto. Adesso mi pento di non avergli detto che a Santhià non c’è un convento, magari è in giro con questa nebbia. »
«A Santhià però c’era un convento vicino alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, quella che adesso è la chiesa della Trinità. Ma si parla anche in questo caso di quattro, cinquecento anni fa’. La maestra ci raccontava che i buoni frati aiutavano la gente e i pellegrini con le loro erbe medicinali. Fine della lezione di storia. Sta arrivando gente, qui finisco io; tu va di là» lo esortò, posandogli una mano sul braccio.
Effettivamente Il locale si stava riempiendo; quella sera ci sarebbe stata musica dal vivo con una band locale e prevedeva un pienone. Affaccendato com’era, dimenticò lo strano cliente del pomeriggio. Erano quasi le due di mattina e si stava apprestando a chiudere, quando due poliziotti entrarono nel locale.
«Buona sera» salutarono, mostrando i tesserini. «Dovremmo farle alcune domande.» «Prego,» acconsentì, mentre si chiedeva cosa diavolo volesse da lui la polizia alle due di mattina.
«Ha visto quest’uomo?» domandò uno degli agenti, mostrandogli una foto. L’immagine era sgranata, ma non ebbe difficoltà a riconoscere lo strano cliente. Esitò.
«Allora, l’ha visto o no?» domandò il più giovane dei due con arroganza.
«No, non l’ho visto» mentì, restituendo la fotografia.
«Ne è sicuro? La guardi bene» insistette l’altro poliziotto, avvicinandogli nuovamente la foto. Non aveva certo bisogno di pensarci, ma finse di studiarla con maggiore attenzione. «Mi dispiace, non l’ho mai visto» confermò.
«Va bene, grazie lo stesso. Se capitasse qui ci avvisi. Buona notte.»
«Tu gli hai creduto?» chiese l’agente al collega mentre risalivano in auto.
«Neanche per un momento. Si vedeva lontano un chilometro che mentiva.»
«Quando hanno bisogno di noi dobbiamo correre, ma se siamo noi ad avere bisogno troviamo un muro.» si lamentò l’agente più giovane.
«La gente non vuole venire coinvolta. E succede anche che siamo noi ad alimentare la loro diffidenza.»
«Sarebbe a dire?»
«Sarebbe a dire che il tuo tono arrogante l’ha messo sulle difensive. Risultato: ci ha mentito. Per far bene il nostro lavoro abbiamo bisogno di collaborazione e per ottenerla ci vuole cortesia. Hai capito?» lo redarguì bonario. Il giovane agente annuì mortificato. «Domani torneremo dal barista e tu lo interrogherai, usando la massima gentilezza. Dai, è tardi. ti accompagno a casa.»
«Cosa volevano quei due poliziotti?» chiese la donna dopo che il marito ebbe chiuso le porte e inserito l’allarme.
«Mi hanno fatto vedere la foto di quel tizio che è stato qui oggi pomeriggio e mi hanno chiesto se l’avevo visto.»
«E tu cos’hai risposto?»
«Che non l’ho visto, ovvio. Non voglio grane. Se la polizia lo cerca vuol dire che è implicato in qualcosa di poco pulito. E sai come sono i poliziotti; finisce ancora che ci vado di mezzo io» si giustificò.
«E se scoprono che hai mentito? Metti che qualcuno l’abbia visto entrare qui.»
«Allora dirò che sul momento non l’ho riconosciuto, che era tardi, che ero stanco. Oh, insomma, qualcosa mi inventerò» rispose brusco.
«Nessuna notizia dell’ingegnere. Kilian Louénant scomparso da Crova con la sua auto. Secondo il racconto della sua fidanzata e dei suoi amici l’ingegnere aveva trascorso qualche giorno nella casa appartenuta ai suoi genitori e avrebbe dovuto raggiungerli al Sèstriere, come conferma il messaggio trovato sul suo telefonino. Non vedendolo arrivare, si sono allarmati si sono recati a casa sua. Era in perfetto ordine, tranne un bicchiere sporco di caffè sul tavolo, che la polizia ha prelevato per farlo analizzare. Gli amici hanno fatto denuncia di scomparsa. La sua auto è stata ritrovata la notte scorsa chiusa e parcheggiata correttamente. All’interno c’erano il suo cellulare, il trolley e la valigetta con il computer. Si esclude l’ipotesi di una rapina. Tutto il materiale è ora al vaglio degli inquirenti che mantengono il più assoluto riserbo. Nessuno in paese ha visto l’ingegnere quarantacinquenne che, a detta degli amici, godeva di ottima salute ed escludono sia l’ipotesi del suicidio sia quella dell’allontanamento volontario. «Kilian è una persona seria ed equilibrata, non fa uso di sostanze stupefacenti, né di alcool. Non ha parenti, noi siamo la sua famiglia. Inoltre questo per lui era un periodo particolarmente felice sia dal punto di vista affettivo che professionale. Non sappiamo spiegarci la sua scomparsa» ha dichiarato ai giornalisti uno dei suoi amici. Le ricerche proseguiranno anche nei prossimi giorni. Volontari della protezione civile e carabinieri stanno perlustrando le campagne circostanti, anche con l’ausilio dei cani. Chi avesse sue notizie è pregato di comunicarle alle forze dell’ordine.»
«È di poche ore fa’ la notizia del ritrovamento del corpo senza vita dell’ingegnere Kilian Louénant nelle campagne attorno a Santhià. Il corpo non presentava segni di violenza. Secondo il medico legale che l’ha esaminato, l’uomo potrebbe essere morto per assideramento. Sarà comunque l’autopsia a determinare la causa della morte. I vigili che l’hanno rinvenuto dicono che era avvolto in un mantello nero e portava degli strani calzari. »
Maria Lacchio
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