Ormai non aveva potuto rimandare. Per mesi con una scusa o con l’altra era riuscito a schivare quella sgradevole incombenza, una vera seccatura. E la scocciatura era già cominciata; da più di mezz’ora si trovava incolonnato sull’autostrada. Era partito presto per non trovarsi imbottigliato nel traffico del fine settimana, ma in tanti dovevano aver fatto il suo stesso ragionamento. Aveva previsto di arrivare al paese prima di mezzogiorno, sgomberare la casa e tornare in città nel pomeriggio. Si sarebbe riposato un paio d’ore e poi avrebbe raggiunto i suoi familiari al mare. Sempre che l’interminabile serpentone multicolore si fosse deciso a muoversi. inserì un cd nel lettore e la musica delle cornamuse e dei bodran si diffuse nell’abitacolo climatizzato. Amava quella musica primitiva; gli ricordava un periodo felice della sua giovinezza. L’unico periodo felice. Con una lentezza esasperante il codazzo delle auto si mosse.
Un paio di chilometri più avanti un poliziotto segnalava di proseguire roteando la paletta. Rivolse uno sguardo distratto alle due auto accartocciate. Considerate le loro condizioni, gli occupanti dovevano essere ridotti piuttosto male. Scosse il capo, pensando che per quei poveretti il week end era finito lì. Superato il luogo dell’incidente il traffico rapidamente si sfoltì e lui imboccò l’uscita dell’autostrada sull’ultimo rullo di tamburo. Allungò la mano per inserire un nuovo cd, ma poi cambiò idea; lo attendevano una cinquantina di chilometri di tornanti in salita che necessitavano di tutta la sua concentrazione tanto più che, se ricordava bene, in alcuni punti mancava un guard rail e l’ultimo dei suoi desideri era finire in una scarpata. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che era salito lassù? Anni, tanti anni ma sempre troppo pochi perché i ricordi non facessero ancora male.
Rimase piacevolmente sorpreso nel constatare che, nel tempo, la strada aveva subito delle migliorie; la carreggiata era stata allargata e un rassicurante riparo lo separava dallo strapiombo. Anche il paese si era modernizzato: villette a schiera, un supermercato e impianto polisportivo che sarebbe stato inaugurato la domenica successiva, così dicevano i manifesti che tappezzavano i muri della piazza. Una cosa sola non era cambiata, la scontrosità degli abitanti; le dieci di un sabato mattina e in giro non si vedeva anima viva. Meglio così, non aveva alcuna voglia di incontrare qualcuno che avrebbe potuto riconoscerlo. Già immaginava i pettegolezzi che ne sarebbero seguiti. Arrivò a destinazione e parcheggiò davanti alla casa nel prato infestato dalle erbacce che arrivavano all’altezza del finestrino. La casa era lì davanti a lui, ultima silenziosa roccaforte tra il paese e il bosco. Rimase ancora seduto in macchina per alcuni minuti a fissare l’edificio che, nonostante gli anni e i segni di un’incuria cronica, non aveva perso il potere di farlo sentire a disagio. Non era sempre stato così. Un tempo aveva rappresentato la sicurezza, l’allegria, l’orgoglio di appartenervi. La tentazione di fare inversione e tornarsene a casa era forte. Avrebbe chiamato una di quelle agenzie di sgombero e avrebbe dato incarico al notaio di redigere tutti gli atti per la vendita. Sarebbe passato nel suo studio per definire le clausule del contratto di vendita e tutto sarebbe finito lì. Ma la parte di lui che non sopportava che quella casa si trasformasse in uno sterile fascicolo di carte gli fece aprire il cruscotto. Si trovò in mano la grossa chiave arrugginita. Con un sospiro aprì la portiera e scese dall’auto. Inalò a pieni polmoni l’aria pura e profumata di erba e immediatamente si sentì più rilassato. Chiuse gli occhi e lasciò che la brezza montana gli fornisse l’energia necessaria ad affrontare l’esperienza che lo attendeva. L’auto, rifugio protettivo contro il passato, era dietro di lui. Ora erano solo lui e la casa.
La chiave girò nella toppa senza sforzo e l’uscio si aprì scricchiolando sui cardini arrugginiti. Lo interpretò come un benvenuto. Gli tornò alla mente la parabola del figliol prodigo; solo che lì non c’era il padre ad accoglierlo a braccia aperte ma solo delle stanze vuote piene di polvere e di ricordi stantii. Aprì le imposte per fare entrare un po’di luce. Chiazze di muffa disegnavano astratte composizioni negli angoli tra le pareti e il soffitto. I raggi del sole si riflettevano sulle numerose ragnatele facendone brillare i fili come se fossero trine di seta. Ancora si intravedeva il giallo pallido del colore a tempera sul quale erano visibili i segni dei quadri e delle fotografie che tanto tempo prima avevano fatto la loro bella figura. Non doveva assolutamente farsi trascinare dai ricordi. Corse fuori dalla stanza come se fosse stato inseguito da una frotta di demoni, e si fiondò su per le scale. Arrivò in cima col fiatone e si sedette sull’ultimo gradino di pietra a prender fiato. D’istinto allungò il braccio verso il bastone uncinato che apriva la botola della soffitta. Agganciò l’anello al centro della botola e tirò con forza, ma lo sportello non cedette di un millimetro. Probabilmente l’umidità aveva dilatato le assi di legno oppure era un segno del destino che lo dissuadeva a salire lassù. L’idea lo fece rabbrividire, ma fu questione di un attimo. Tirò con più forza, accompagnando l’operazione con una colorita sequela di improperi. Se sua moglie l’avesse sentito! A casa poteva solo pensare le imprecazioni, anche la parolaccia più innocente era vietata. Dopo vari tentativi finalmente il legno cedette. Appoggiò la scala a pioli alla buca e salì. La soffitta era esattamente come la ricordava: i bauli avvolti nelle coperte erano lungo la parete di fondo mentre sotto la finestrella incrostata di polvere c’erano la sedia a dondolo col bracciolo mancante, la cassettiera stile liberty con le modanature a sbalzo a forma di mazzi di rose a cui mancavano diversi petali. Se ne avesse aperto i cassetti vi avrebbe trovato i libri e i quaderni delle elementari, sempre che nel frattempo non fossero diventati cibo per topi. Avrebbe dovuto disfare quel mobile per farlo passare dalla botola e un’altra sfilza di parolacce che nemmeno ricordava di conoscere prese corpo nella sua mente. Sorrise tra sé, cominciava a prenderci gusto. Si diresse verso i bauli; quelli almeno avrebbe dovuto solo trascinarli fino alla botola e farli precipitare giù dalle scale. Le orme delle sue belle scarpe di marca lo informarono che presto anche i jeans e la maglietta firmati si sarebbero ricoperti di polvere grigia e untuosa. Non aveva pensato di portarsi un cambio, maledizione! Tolse la coperta che ricopriva il baule più vicino, sollevando una nuvola di polvere che gli irritò gli occhi facendoli lacrimare e gli procurò un convulso accesso di tosse. Con una mano aprì il coperchio, e attraverso il velo delle lacrime, la vide: l’astronave. Sopra un lenzuolo ingiallito dal tempo sembrava lo attendesse. L’aveva desiderata così tanto! Con dita tremanti la prese. Incurante della sporcizia si sedette sul pavimento e la rigirò tra le mani. Cercò la chiavetta che caricava la molla, la girò fino in fondo e posò il giocattolo sul pavimento. Sul momento non accadde nulla poi, come se si stesse svegliando da un lungo sonno, la piccola astronave prese vita. Ad una ad una si accesero le lucine blu e rosse, poi cominciò a girare sulle ruotine, emettendo un suono metallico che andò scemando man mano che la carica si esauriva. La riprese in mano e la ricaricò. Chiuse gli occhi.
Era stato il suo ultimo Natale felice.
«Guai a voi se vi avvicinate ai regali!» li ammonì la mamma. Per tutto il pomeriggio lui e suo fratello avevano gironzolato attorno all’albero di Natale sotto il quale erano disposti i pacchetti colorati, ognuno provvisto del cartellino del destinatario. «Qual è il mio?» gli aveva domandato il fratellino che ancora non sapeva leggere. «Quello» aveva risposto, indicando un grosso pacco avvolto in carta rossa. «E il tuo?» lui indicò un pacchetto semi nascosto da altri. «Il mio è più grosso, il mio è più grosso!» canticchiava il bambino saltellando per la stanza. A lui non importava che il suo pacchetto fosse meno voluminoso, sperava solo che contenesse il giocattolo che tanto desiderava: l’astronave con le lucine che si accendevano che aveva visto esposta nella vetrina dell’emporio del paese. Tutti i giorni, tornando da scuola, si fermava a rimirarla e ne parlava in continuazione. Al ritorno dalla Messa di mezzanotte finalmente avrebbe saputo se il suo primo desiderio era stato esaudito. A soddisfare il secondo aveva provveduto il parroco, scegliendolo come chierichetto tra i bambini che avevano ricevuto la prima comunione proprio per alla Messa di mezzanotte. Sarebbe stato un Natale speciale, ne era certo. Ricordava ancora con quanto orgoglio aveva indossato la tunica inamidata che profumava d’incenso. La Messa era durata più del solito e il suo fratellino si era addormentato in braccio al papà. Dalla sua posizione privilegiata sull’altare li vedeva chiaramente. Poi, all’uscita dalla chiesa c’erano stati gli scambi di auguri e il ritorno a casa sotto la neve. Mai la strada gli era sembrata tanto lunga. Finalmente arrivò il magico momento dell’apertura dei regali. Ed eccola lì, la piccola astronave, avvolta nella carta velina. Sembrava posata su una nuvola.
Venne l’estate e con lei le vacanze, i giochi all’aria aperta, le passeggiate nel bosco e le scorribande lungo il fiume. Una sera, al ritorno a casa da uno dei tanti pomeriggi trascorsi a giocare con gli amici, l’astronave non era più sulla mensola della libreria. Furibondo, si era precipitato in cucina e aveva afferrato il fratellino per le spalle, urlando. Spaventato, il piccolo aveva cominciato a piangere. «Non l’ho presa io!» ripeteva tra le lacrime, ma lui non gli aveva creduto e aveva continuato a gridare, accusandolo di aver nascosto il suo prezioso giocattolo. L’intervento della mamma aveva messo fine alla lite, ma il giocattolo non saltò fuori se non dopo qualche giorno, seminascosto in un cespuglio nel bosco, rinvenuto da una guardia forestale che insieme ad una cinquantina di volontari perlustrava palmo a palmo il bosco alla ricerca del suo fratellino scomparso. Il ritrovamento del giocattolo diede adito alle più svariate supposizioni. Nessuno ebbe il coraggio di accusarlo apertamente della sua scomparsa, ma presto si rese conto di essere il principale e unico sospettato. Lo leggeva negli occhi della gente e persino in quelli dei suoi genitori. Un giorno suo padre gli disse di preparare una valigia con tutte le sue cose perché il parroco sarebbe venuto a prenderlo per accompagnarlo in un collegio in città. Non ci furono baci né abbracci per lui, solo un cenno con la mano mentre saliva sull’auto del sacerdote. Non sarebbe più tornato. Anni dopo ricevette la lettera di un notaio che gli comunicava di essere entrato in possesso della casa, in quanto i suoi genitori erano morti. Non versò una lacrima. Aveva pianto fino allo sfinimento a causa di coloro che avrebbero dovuto proteggerlo e consolarlo e che invece l’avevano cacciato di casa. Non si prese neppure il disturbo di rispondergli.
L’astronave continuava a girare, disegnando dei cerchi nella polvere del pavimento, le luci blu e rosse diventarono più luminose e il rumore della molla che girava si trasformò in un rombo assordante. Percepì una presenza accanto a sé. «Ciao, finalmente sei arrivato, è da tanto che ti aspetto» lo salutò una voce affabile. Nel buio, le luci dell’astronave illuminavano la sagoma accovacciata di un bambino. «Non l’ho presa io» affermò. «Invece sei stato tu» lo contraddisse. «L’hai portata nel bosco e poi l’hai buttata tra i cespugli perché la trovassero e dessero la colpa a me della tua scomparsa.» «Non avrei potuto, ero già qui» replicò. «Qui?» domandò perplesso. «Sì, qui. Dove credi che sia stato tutto questo tempo? Qui ad aspettarti, fratellone.»
Sentì che stava precipitando e in preda al panico allungò una mano in cerca di un appiglio. Aprì gli occhi. Era rotolato nella polvere dell’assito e nella mano stringeva l’astronave le cui lucine pulsavano al ritmo accelerato del suo cuore. La molla non si era scaricata, eppure gli pareva che fosse trascorso un bel po’ di tempo. Il display del suo orologio gli confermò che era trascorsa quasi un’ora da quando era salito lassù. Lentamente il respiro tornò regolare. Era ricoperto di polvere. «Merda» imprecò. Barcollando si avvicinò al baule; senz’altro vi avrebbe trovato uno straccio per ripulirsi almeno la faccia e le mani dalla polvere. Lo spalancò e rovesciò a terra il lenzuolo sopra il quale aveva trovato l’astronave. Un ciuffo di capelli … un piccolo scheletro composto con le braccine incrociate sul petto. Al polso c’era un braccialettino. Il metallo era corroso e non si riusciva a leggere l’incisione, ma lui sapeva esattamente cosa l’orefice aveva inciso tanti anni addietro: “22 novembre 1963”. Suo fratello era nato il giorno in cui era stato assassinato il Presidente Kennedy; per questo l’avevano chiamato Giovanni. Il pigiamino era pressoché intatto; il poliestere da quattro soldi non si decomponeva. Crollò sul pavimento, davanti a quei poveri resti. «Dove credi che sia stato tutto questo tempo?» ripeté la vocina nella sua testa.
Non riusciva a distogliere lo sguardo da quel mucchietto di ossa, talmente lucide da sembrare spolpate dai topi. Rabbrividì al pensiero che il suo fratellino fosse stato toccato da quegli immondi roditori. Accanto al piccolo cranio era adagiato quello che a prima vista pareva un vecchio album di fotografie. Il nastro che lo legava gli si sbriciolò tra le dita. Immagini sbiadite gli sorridevano dalla carta ingiallita. Le accarezzò con dita tremanti mentre grosse lacrime disegnavano umidi solchi nella polvere che gli ricopriva il viso. Subito non la vide, ma c’era una grossa busta attaccata alla fodera di finto raso della copertina. L’aprì e ne estrasse un foglio sgualcito. Riconobbe la scrittura della madre, un po’ inclinata, con le ‘t’ e le ‘l’ esageratamente lunghe. L’inchiostro era sbavato ma ancora leggibile. Per tutta la vita si era impegnato con tutte le sue forze ad odiare i propri genitori e la verità, perché era certo che quello che stava per leggere fosse la verità, gli raccontava un’altra storia, una brutta storia. Era scritto lì, nero su bianco. Era stato un incidente. Durante il litigio per l’astronave l’aveva spinto, cadendo, aveva battuto la testa contro uno spigolo ed era morto. Se si fosse venuto a sapere sarebbe stato additato a vita come l’assassino del fratello, indipendentemente da come erano andate realmente le cose. Era stato per proteggerlo che i suoi genitori avevano inscenato il rapimento e l’avevano mandato via. Per tutti quegli anni avevano convissuto con quel segreto e sopportato il suo disprezzo. Lasciò cadere il foglio nella polvere e nascose il viso tra le mani tremanti. Gli tornarono alla mente i giorni che aveva trascorso a letto, in preda alla febbre. Li aveva completamente rimossi dalla memoria. Tutti in paese l’avevano considerata come la conseguenza alla sparizione del fratellino. Poi, com’è nell’ordine delle cose, la vicenda era passata nel dimenticatoio collettivo.
Le lucine dell’astronave si erano spente. Il buio e il silenzio lo avvolsero nel loro manto protettivo, così come avevano protetto per tutto quel tempo il segreto dei suoi genitori. Doveva prendere una decisione: richiudere il baule e mantenere il segreto per sempre, oppure denunciare il ritrovamento del corpo, con tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate.
«Mi piacerebbe giocare ancora con la tua astronave. Posso?» domandò l’ombra accovacciata al suo fianco. Prese il giocattolo e glielo mise davanti. Non caricò la molla, ma l’astronave cominciò ugualmente a girare e le lucine illuminarono il volto di un bambino che sorrideva felice.
Adesso sapeva esattamente cosa avrebbe fatto. Col lenzuolo ricoprì il piccolo scheletro e sopra vi posò l’astronave. Chiuse il coperchio. «Adesso è tua» sussurrò. Gli girava la testa. Vacillò.
«Lo conosci?» domandò il volontario.
«No, mai visto» rispose il collega, coprendo con il lenzuolo il volto insanguinato dell’uomo disteso sulla barella. «Questo poveraccio ha fatto un volo di trenta metri.» Il volontario del pronto soccorso si sporse oltre il parapetto sfondato. «Hanno avuto un bel da fare i vigili a tirarla su. È un miracolo che non sia scoppiato il serbatoio.»
«Hai notato che non ci sono segni di frenata sull’asfalto?» domandò il volontario appoggiato alla barella.
«Sì, l’ho notato. Deve aver perso il controllo, andava piuttosto forte. Guarda in che condizioni è il parapetto! Chissà cos’era venuto a fare quassù. » Il collega non rispose; gli anni passati al pronto soccorso gli avevano insegnato molte cose sulla natura umana e sui ‘segni’ che la morte lasciava dietro di sé e i ‘segni’ che aveva visto raccontavano una storia di disperazione. Ma non avrebbe condiviso la sua certezza col collega; era troppo giovane e puro.
Le due lune giravano vorticosamente davanti ai suoi occhi, così brillanti che fu costretto a coprirsi gli occhi. Un vento leggero gli arruffava i capelli. Ondeggiando su gambe che non parevano sue, seguì le linee di luce che si snodavano davanti a lui. “Sto arrivando … sto arrivando …” Sbatté le palpebre; l’aria dorata era tiepida e profumata. Abbassò lo sguardo: sotto di lui proprio dove la linea di luce si andava affievolendo la vide luccicare in tutta la sua maestosa bellezza. Le luci rosse e blu proiettavano su di lui immagini ora distorte ora vivide che gli erano appartenute e che aveva perso. Il dolore per quelle perdite gli fece venire le lacrime agli occhi; poi tutto cominciò a svanire … una manina si infilò nella sua: «Non abbandonarmi di nuovo» lo implorò la voce di un bimbo. «Adesso siamo insieme per sempre, fratellino: tu io e l’astronave.»
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