C’erano due scagliette di unghie, un ciuffetto di capelli neri legati da un nastrino rosa, un dentino che era sfuggito alla fata dei denti. Di tanto in tanto, con mani nere e ossute, scuoteva la boccetta chiusa con un tappetto di sughero. Tin Tin, giusto per accertarsi che attorno al collo vivesse ancora quel piccolo amuleto.
Lui stava seduto immobile sulla roccia, mentre la litania delle cicale accompagnava i suoi pensieri lungo una processione che durava da talmente tanti anni che non sapeva più contarli. E sperava che almeno il caldo li spingesse giù verso declivi più aridi e si spegnessero asfissiati dalla morsa del caldo. E finalmente lui e la terra, entrambi spaccati come voragini di altri pianeti, sarebbero tornati a respirare.
Una lucertola di guardia al suo anfratto, che una siepe di cappero guardava dall’alto, si protese a scatti e bastò un altro rumore della collanina a farla rientrare. La camicia bagnata di sudore, il pantalone lasco e stretto alla vita da una cintura usurata su più punti, il silenzio luminoso che precipitava da un cielo troppo blu. L’altra mano stringeva un bastone ricavato da un ramo nodoso, forse d’ulivo o di carrubo, duro quanto la sua anima e secco come i suoi occhi. Una roncola, sfuggita alla sua presa, mandava lampi di luce e per un attimo lui si guardò alle spalle dove la capanna scoperchiata accoglieva una danza di mosche e l’agave centenaria ammainava ancora una coraggiosa zàbbara che una volta era di guardia alla casa come un corazziere.
Tin-Tin, il piccolo suono cristallino.
Aveva dimenticato il proprio nome quando in una notte di novembre il fiume aveva rotto gli argini e sparso distruzione col superbo atteggiamento di un milionario che non lesina le proprie ricchezze. Il mondo si era riempito di fango, la furia dell’acqua aveva divelto alberi e scomposto la geografia dei luoghi. La morte aveva falciato quanto era costato fatica e sudore: il raccolto, gli animali nell’aia, le vacche, le balle di stoppia. La casa era stata trascinata fino a valle, insieme alla moglie che forse cuciva e la figlia che dormiva su un giaciglio di lana grezza.
L’uomo batté sulla roccia col bastone e un filino di polvere s’alzò.
Tin tin: l’ultima cosa che lo facesse sentire padre.
Forse per un istante le cicale s’erano zittite. Forse anch’esse in muta contemplazione di quella nuova solitudine. Ogni giorno essa si rinnovava e si cambiava con la luna nuova, ogni giorno dal giorno in cui la tragedia aveva risparmiato lui e Calzetta, una cagna di mànnara più vecchia di lui. Nessuna voce era tornata a visitarlo in quegli anni. Non un fantasma che avesse potuto consolarlo. Nessun suono poteva riempire il silenzio che lo lacerava da dentro come un cancro che cresceva e non gli dava più tregua. Anche Calzetta s’era zittita insieme a lui, col voto fatto a un padrone che non voleva riconoscere null’altro se non il rimorso di non esserci stato quel giorno. Successe che era periodo di mercato e lui doveva assentarsi cinque, sei giorni. Era solito stare a pensione da suo cognato per evitare di imporre alla mula tutta quella strada ogni giorno.
Quando era tornato aveva speso tutta la voce che aveva, come se si fosse rigenerata da ogni fibra del corpo e, consumata nel pianto, tornasse a urtare il mondo come ultrasuoni di pipistrello. E, marcio del fango e delle lacrime, aveva trovato solo la piccola. L’aveva pulita, asciugata, pettinata. Le aveva tagliato un po’ i capelli perché entrassero tutti nella cuffietta. Aveva trovato il dentino nella poltiglia del materasso, incastonato come un gioiello antico.
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