Il suo nome era Bruno Villaraggia, nato a Gravellona Toce, dove trascorse l’infanzia e parte della giovinezza. Intraprese molto presto la carriera di attore e poeta. Per questo si trasferì a Milano. Pur non avendo fatto studi superiori, possedeva una raffinatezza di spirito ed un’umanità tali che lo hanno reso uno dei poeti più rappresentativi del panorama letterario contemporaneo. Quest’affermazione appartiene ad Eugenio Montale. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo ha avuto modo di apprezzarne il talento artistico e soprattutto le doti umane, chi non l’ha conosciuto, ha ora l’occasione di apprezzare un pot-porri delle sue poesie. Bruno Vilar era solito presentarsi al pubblico recitando sempre la poesia intitolata “3 marzo 1942”.
3 marzo 1942 è la sua data di nascita. Tempo di guerra, quindi. E’ una poesia evocativa; è la guerra vista dagli occhi di un bambino e immaginate la paura che deve aver provato questo bimbetto di tre, quattro anni vedendo materializzarsi le sue più spaventose fantasie quando, spalancando la porte di casa, gli uomini in divisa violarono il luogo dove lui si sentiva più sicuro. E quella parola Kaput , gli resta impressa nella memoria: certamente non ne conosce il significato, ma intuisce che è una parola cattiva, una parola che porta dolore.
Era tempo di guerra il 3 marzo 1942. Quel giorno nascevo a Gravellona Toce paese della provincia di Novara. Alle campane della chiesa faceva eco gli spari . Figlio di operai quando il padre combatteva di un’invalida ora che la madre è sola non quando partoriva me ed altri dopo me.I ricordi hanno radici profonde sono ancorati nella campagna tra monti secolari. Oppure orfani dietro casa. Appena nato le bombe era pane fresco il lievito cresceva nelle mani uccidendo partigiani -fascisti più volte figli della stessa madre. La Repubblica Ossolana cresceva i confini erano muri di carne bastava un colpo di fucile per veder sanguinare i sassi. Nell’aria sentivo urla – lamenti non c’era tempo per soccorrere gli uomini sapevano. Un uomo in campo vale più di cento feriti. Negli occhi trascino reticolati fotografie d’infanzia la paura appesa alla finestra alla porta spalancata dalla divisa. Nel cervello uno strano dialetto fra tante una parola KAPUT.
Bruno Vilar scriveva poesie per appagare il suo spirito irrequieto, ma, con ironia, era solito dire che le poesie, vero che appagano lo spirito, ma non pagano le bollette.
Agli inizi degli anni ‘70 si trasferì a Milano, accorciò il suo chilometrico cognome in Vilar e intraprese la carriera di attore teatrale, professione che peraltro amava moltissimo.
Stiamo parlando degli anni della contestazione giovanile, delle canzoni di protesta, dei capelloni, dei cortei interminabili di gente che scandiva slogan.
C’era molta confusione, molto rumore. All’inizio faticò un poco a far sentire la propria voce. Poi, però, si affidò ad un mezzo di comunicazione che nasceva proprio allora: le radio libere o radio pirata. Nascevano come i funghi: bastava avere a disposizione un minimo di attrezzatura, una linea telefonica e ci si conquistava il proprio pezzettino di etere.
Erano nate per contrastare la radio pubblica, trasmettevano musica richiesta dagli ascoltatori, inframmezzata da rubriche culturali o di attualità a cui era invitato un ospite fisso col quale gli ascoltatori potevano dialogare. Bruno Vilar era un habitué delle radio, ma aveva un rapporto speciale con radio Hanna, una delle prime radio libere. Quando Maurizio Amici, uno dei fondatori di questa radio, ora regista Rai, produttore, documentarista, dialoghista , propose ai suoi collaboratori di fargli condurre un programma incentrato sulla poesia, in radio scoppiò un putiferio perché è noto che la poesia non è il genere letterario più gettonato , pertanto i suoi collaboratori non approvavano la sua scelta. Ma Maurizio fu irremovibile. Fu un successo. Quando andava in onda la sua rubrica, il telefono non smetteva mai di squillare. Radio Hanna organizzava anche delle ‘cene’ e degli incontri con gli ascoltatori e gli ospiti. Bruno, che fuori dal ‘microfono’ era una persona schiva qualche volta vi partecipava.Il 14gennaio 1978, radio Hanna gli organizzò una performance tutta per lui al teatro Anfitrione di Roma con la partecipazione del pubblico composto dai suoi ascoltatori affezionati.
Tutto esaurito. Maurizio Amici registrò la serata ed è l’unica registrazione esistente di un recital di poesie di Bruno Vilar Maurizio in occasione di questa serata ha inviato una lunga e commovente mail le cui frasi finali sono le seguenti: “Allora non me ne resi conto, ma la morte che strappa in modo violento rende a volte immortali i ricordi e annichilisce le incomprensioni della vita. Se a distanza di tanti anni qualcuno ne torna a parlare, significa che Bruno è vivo nella memoria di molti e che può e deve ancora rivivere perché quanto ha scritto nella sua breve vita può riempire grandi spazi vuoti nell’animo di chi non lo ha conosciuto.”
Nel suo spazio, Bruno Vilar recitava i suoi versi e quelli di altri poeti e soprattutto dialogava ‘a distanza’ con i suoi ascoltatori. Ascoltava tante voci che nella loro semplicità esprimevano sentimenti profondi e sinceri.
Il titolo della rubrica era “Quando la notte è poesia.”
Fu Bruno stesso a scegliere questo titolo perché lui amava la notte. Una delle sue poesie recita: “Amo la notte perché la notte scioglie ogni benda e questo mi appaga.” La notte scioglie i lacci che ci legano alla quotidianità,impegni di lavoro, relazioni sociali; la notte libera da queste pastoie e il buio, per assurdo, illumina lo spirito e lo rende libero. Per Vilar la notte era sinonimo di libertà e per lui libertà significava capacità di amare, di non ferire i sentimenti altrui, di sentirsi vicino a coloro che erano sopraffatti dall’indifferenza, dalla noia, dal caos della città, che non sempre è benevola, soprattutto verso coloro che vengono dalla provincia, da una realtà più ‘familiare’. La città spesso respinge. Isola chi vi cerca affetto e comprensione. La città imprigiona. Bruno aveva sempre pronta una parola di conforto per alleviare il senso di solitudine . La parte più bella di lui era proprio questa sua capacità di donare. Nel suo percorso di uomo e di artista Bruno sperimentò tale disagio e proprio da questa sofferenza nacquero i versi di “Non sono libero”.
Avere sonno e non poter dormire
avere fame e non poter mangiare
aver voglia d’amare e non poter amare
perché altri non lasciano
dormire
mangiare
amare.
Non posso vivere
Sono prigioniero
assetato di
pace.
Gli occhi del mondo penetrano nella carne
come una maledizione
Avere voglia di morire e
non poter morire
perché altri non lasciano morire
ALLORA
NON SONO LIBERO
Perché m’è dato voce se non ho parole
perché m’è dato occhi se non so vedere
perché m’è dato gambe se non so camminare
perché m’è dato vita
se dentro di me alloggia morte
Signore,
oggi perché aspettare domani.
Dammi per coperta
una manciata di terra
per sonno il silenzio di una tomba.
Non posso vivere
La gente è falsa
La sua falsità
mi uccide.
Le menzogne sono coltelli nel cuore
La strada è un cammino di sangue.
Nell’aria odo lamenti vibrare selvaggi.
Non posso vivere sono prigioniero assetato di pace.
Gli occhi del mondo penetrano nella carne come una maledizione.
Bruno coltivò sempre un rapporto di profonda sincerità con i suoi ascoltatori. Detestava la menzogna, l’ipocrisia e i pregiudizi. Ascoltava le opinioni di tutti, ma continuò a credere in se stesso, si impegnò a essere se stesso , a non diventare quello che volevano gli altri. Non accettò mai compromessi. Anche per questo motivo, i messaggi che ci ha lasciato attraverso i suoi versi continuano ad essere attuali e a suscitare emozioni.
Di lui disse TERRON all’epoca responsabile del Département des artes et spectacles della Bibliothèque Nationale De France: “E’ un uomo del nostro tempo – non assume atteggiamenti da intellettuale ribelle – vive credendo in una Futura migliore società.”
Fonte d’ispirazione per le sue poesie erano sovente l’attualità e i fatti di cronaca.
Il 12 dicembre 1969 a Piazza Fontana a Milano esplode una bomba, lasciando l’Italia intera basita. Bruno tradusse in versi il dolore, lo sgomento, l’indignazione della gente in maniera garbata, ma severa, dedicando il suo componimento ad Enrico Pizzamiglio che rimase gravemente mutilato dall’esplosione. Aveva 12 anni all’epoca ed era il più giovane dei feriti. In seguito Bruno lo volle incontrare di persona per portargli la sua solidarietà e il suo affetto in nome di quell’Amore evangelico che ha ispirato la sia vita e la sua arte. “Enrico ricordi quel giorno …”
Inizia con queste parole “Milano 12 dicembre 1969”
Enrico ricordi quel giorno 12 DICEMBRE 1969. Le vetrine vestivano a festa l’aria era fredda e tu per un attimo d’inferno imparasti a conoscere gli uomini.
La trappola non sapeva della tua presenza altrimenti non crederei in Dio e la colpa del boia in tante madri non troverebbe abbastanza lacrime per lavare il sangue di Piazza Fontana. Ogni epoca ha il suo eroe. Sulla spalla porti una bandiera pesante croce per la tua giovane età. Oggi il bene pare tanto domani forse non basta più il mondo ti sembrerà vuoto pieno di miseria d’ipocrisia. Vorresti le ginocchia della madre piangere dover piccolo cullavi i sogni. Quel giorno più di ogni altro peserai il bene della gente comprato a caro prezzo.
Un altro fatto di cronaca sconvolse il suo animo tanto sensibile al dolore altrui.
Non un dolore collettivo ma un’angoscia privata che diventa pubblica. E’ il primo rapimento mediatico.
Il 6 maggio 1971 Lorenzo Bozano rapisce la figlia tredicenne dell’industriale della cera Sutter. 14 gironi dopo il mare restituisce sulla spiaggia di Priaruggia il corpo senza vita di Milena. A questa sfortunata bambina Bruno dedicò commoventi versi "Genova 20 Maggio 1971".
L’aria di questo mare brucia verdi anni asciuga il pianto della sera
Non porge bianchi letti non raccoglie sorrisi di madre.
L’onda stanca per troppa lunga morte vomita a riva un nome
il tuo Milena quando il sole era fine.
Madre perché il so le muto dei pesci accarezzava bianche mani innocenti
capelli senza rispondere al triste canto.
Anche di fronte a fatti così sconvolgenti, i suoi versi non indulgono mai in inutili pietismi, sono sempre chiari, stringati. Il suo stile dinamico e nervoso si avvicina a quello di Lorca, ma al contrario di lui, Vilar risolve le sue composizioni e anche in pochi versi trasmette chiaramente il messaggio che intende inviare. Aveva una predilezione per Lorca, tanto che la sua prima raccolta di poesie intitolata “Solo nella Sera” è introdotta dalla poesia di Lorca “Il Poeta” che riassume in versi brevi ma intensi ciò che il poeta vuole comunicare e il prezzo che deve pagare. Il critico letterario Davide Lojola commentò così la sua seconda raccolta di poesie intitolata “L’Estate brucia la malinconia”:
“Nei suoi versi permeati di dolore, di gioia, di tormento si avverte una policromia di sensazioni, … è un Poeta che ha il cuore pieno di sentimenti e di aspirazioni, li scrive in poesia come se gli bruciassero sulle labbra … “ Sentimenti che si riassumono nel concetto di amore universale. La sua prima poesia che data autunno 1967 è una dichiarazione d’amore al ‘suo’ lago. E’ una poesia evanescente, nella quale brilla la sua squisita sensibilità, sfavillante come i raggi della luna che riverberano sull’acqua che si infrange sulle pietre nel silenzio della sera.
poesia sera d'autunno
Bruno Vilar rimase molto legato al suo territorio, ai suoi affetti, al suo paese, testimone degli avvenimenti importanti della sua breve vita.
Lì nasce, l’ si sposa il 18 dicembre 1972 con l’attrice Paola Borboni, suscitando grande scalpore, lì è sepolto nel piccolo cimitero.
Tra le tante poesie che dedicò al suo Paese “Quanti Ricordi” è la più suggestiva. Un susseguirsi di immagini legate all’infanzia, una miriade di sfaccettature pure come un cristallo. “Le Radici” “Donne di campagna” “Rifioriranno le rose” “Strade di campagna” “Io abito qui” sono solo alcune delle poesie ch dedicò al suo Paese. Nonostante l’affetto profondo per il suo Paese, Bruno Vilar si trasferì giovanissimo a Milano.
Prima, però, lasciata la scuola, lavorò come operaio in una delle fabbriche presenti sul territorio. Non fu un’esperienza sterile; ne sono testimonianza i pochi ma significativi versi de “Il tetto della fabbrica”.
A Milano lavorò moltissimo col “Piccolo Teatro” diretto da Giorgio Strehler . Con il “Collettivo Teatrale di Milano” interpretò Lalo ne “La notte degli assassini” di José Triana. Recitò con numerose altre Compagnie in Italia e all’estero. A Berlino con l’Akademie der Kunste” Negli Stati Uniti, a New York recitò per la National Shakespeare Company ne: “Il rifiuto” di Mario Fratti a fianco di Paola Borboni e Sylvia Soares. Pur riconoscendone i limiti e le pecche, Vilar era molto legato alla sua città di adozione perché gli aveva offerto la possibilità di realizzare il suo sogno: recitare. Una delle prime fu “Asfalto e cemento” . I sentimenti più profondi, la serenità, la gioia l’amore possono sbocciare , i sogni si possono realizzare anche in un terreno sterile, senza erba, senza grilli. Basta che non sia il cuore ad essere fatto di asfalto e cemento.
Bruno Vilar amava molto viaggiare, perché ciò gli permetteva di entrare in contatto con altri popoli, gli consentiva di condividere le loro abitudini, il loro costumi, le loro esperienze. Vilar aveva un grande desiderio di sapere, un’inesauribile sete di conoscenza. Aveva una predilezione per l’Africa, magica e misteriosa. Durante un viaggio tra la Mauritania e il Marocco , si fermò tre notti nel deserto del Sahara per assistere al magico spettacolo della luna che sorge dalla sabbia che gli ispirò i versi di “Luna madre d’azzurro”. Durante un soggiorno a Berlino, dove l’avevano portato i suoi impegni di attore in compagnia di Cino Tortorella e Sandro Tuminelli un ragazzo di appena diciotto anni nel tentativo di superare il Muro viene falciato dalle mitragliatrici. La sua sensibilità di uomo non poteva ignorare l’orrore di questo fatto, e scrisse una lettera in versi a questo ragazzo sconosciuto che lui chiama “Amico dell’Est”, simbolo di tutti coloro che muoiono per la libertà. Nacque così “Berlino a metà”. “Berlino a metà” è inserita nella sua seconda pubblicazione che prende il nome dal titolo di una poesia che il critico Jean Pierre Jouvet commentò con queste parole.
“E’ una lirica che non concede nulla al compiacimento. Severa e talvolta persino spietata, al di là della sua raffinata seduzione.” Jouvet ne colse appieno l’essenza : pochi versi stringati, essenziali ma fascinosi e raffinati.
Bruno Vilar: Complesso, introverso, oscuro, difficile, schivo. Inafferrabile è senza dubbio l’aggettivo che meglio lo definisce.
Possedeva per contro un potente carisma ed era un grande comunicatore , grazie alla sua incredibile voce bassa e profonda che incantava. Uomo e artista si conquistò la fiducia e la stima del pubblico perché nelle sue poesie, mantenendoli sempre sotto il controllo stilistico, espresse i sentimenti sinceri e schietti in cui ogni uomo può riconoscersi.
Le recensioni dell’epoca lo definirono “Il Poeta dell’Amore” . La parte più autentica di lui era racchiusa in questo suo desiderio di Uomo che chiede e dona amore, ogni giorno vero, ogni giorno nuovo. Questa è la sua eredità, che non sempre si ha il coraggio di raccogliere, forse perché è un fardello troppo pesante. Anche la sua terza raccolta di poesie intitolata “ D’avorio” rientra nella tematica dell’amore. In tre poesie tratte da questo florilegio, il poeta attraverso versi carichi di forza intensa e angosciosamente sofferti, tratta il tema dell’amore nell’accezione più completa del termine. Nella prima il poeta dichiara il suo sentimento in maniera schietta , senza sentimentalismi né sdolcinature. Nella seconda mette in gioco tutte le strategie che gli permettono di far recepire il messaggio, quasi una lettera senza destinatario. La terza, infine, è la preghiera del poeta che chiede di poter amare.
Bruno Vilar scrisse la prossima poesia "E voi mi rimproverate" nella primavera del 1978, pochi mesi prima della sua tragica e prematura scomparsa. Il poeta Pietro Nigro gli dedicò: “In morte di Bruno Vilar” pochi versi inseriti nella silloge “Alfa ed Omega”.
“L’infinito del cielo ha disperso la tua voce sulle ali dei gabbiani lasciandoci solo silenzi.”
E voi mi rimproverate di avervi mentito
Ma cosa dovrei dire io allora che per tutta la vita,
girono dopo giorno,
sempre ho mentito a me stesso.
Prima mentivo perché non sapere a chi parlare
Poi nessuno, nemmeno io, volevo capire chi ero
che cosa cercavo.
Così ogni volta davanti allo specchio che diceva
Rifiutavo quell’immagine trasparente e più mi scoprivo dentro fino in fondo
Attraverso quel rimasto di un cuore bambino
Più provavo una convinzione già convinta che non era la mia.
E voi mi rimproverate di avervi mentito.
Ma che cosa ne sapete voi di me
che dopo essermi giocato le labbra di sogno
ogni volta che speravo di contare una vita
Persino l’anima che avevo numerosa, mi si allontanava.
Ma io vi ho amato ugualmente, fino a crescervi
come la terra ama in estate un campo di grano.
Vi ho accarezzati senza paura negli occhi Come morbido vento sul trifoglio a sera.
Vi ho abbracciato con infinita dolcezza
Come edera aggrappata all’orizzonte
Per quell’immenso desiderio di vita.
Ho abbandonato senza respiro lunghe mani d’incontro
Come il sole che si stacca dal cielo al tramonto
Per dimenticare il vuoto degli appuntamenti.
E voi mi rimproverate ancora di avervi mentito.
Ma che ne sapete voi sempre così lontani e distratti
Della mia disperazione per il vostro silenzio.
Che ne sapete voi, gente tranquilla e felice,
di questa mia carne fredda e umida sotto la luna
Delle mie notti di ragnatela sul viso d’ascolto
Che ne sapete voi dal consiglio facile
Con i vostri processi d’accusa e sentenza
De l mio vero tribunale pronto ad assolvervi.
Quando non si ama la vita degli altri Presa solo con il suo peso di miseria
E allora verrà la dolce notte a parlarmi.
E forse solo allora, per la prima volta,
Giovane e superbo, lontano dalla menzogna
Non mentirò più a nessuno Né a voi né a me stesso
Altrimenti a che serve morire
Ma voi siete sempre lì, pronti ad accusare
A passarvi di mano il tempo affamato
Per farmi rimpiangere anche il prezzo della morte.
Grazie Bruno per averci lasciato un tesoro tanto immenso.
E io ti amo
Quante sere ti amo senza saperlo.
Sento le tue mani di carezza
gli occhi segreti
il profumo del corpo che cerco avvicinarsi
come l’onda smisurata di un mare senza rotta.
Io sono una sabbia sola nella notte infinita.
Un nido di febbre con frecce di fuoco.
Il ricordo di te mi accende il sangue Mi ruba la pace fino a urlare.
E io ti amo.
Come un bambino piango senza sonno.
La tua libertà ha un segreto.
Verrai anche tu a piangere con me
annullati nel nulla di una fame trasparente
perseguitati dal bisogno di immense braccia.
Idioti e falsi nascondiamo ulcere che il sole combatte.
Quando viene la sera,
Ti amo senza saperlo.
Un amore segreto che si stacca dagli occhi
e gira nel buio della luna
Ti vedo,
ti sento
Come pioggia entrare nella sabbia infinita
E il ricordo di te mi accende il sangue mi ruba la pace fino a urlare.
E io ti amo.
Rivolgo un personale ringraziamento all'amica Maria Lacchio, per avermi donato la gioia e il privilegio di questa pubblicazione. Maria, amica di Bruno nel tempo infinito, e oggi anche mia, spero, per lo stesso tempo.
Marina De Luca
https://www.palermomania.it/news_rub.php?id=362
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