"Regalo il mio stabilimento". Ma in Italia nessuno è disposto ad investire, neanche se ti regalano una fabbrica moderna...
Già, nulla di più vero! É il caso della Mivar del patron Carlo Vichi che a dicembre ha finito la sua produzione e chiuso definitivamente i battenti, segnando la fine della storica azienda milanese che sin dal 1945 ha prodotto televisori e che ha dovuto piegarsi alla concorrenza delle multinazionali estere. Tutte le famiglie italiane hanno posseduto almeno uno dei suoi apparecchi, me compresa. É l'ennesima azienda italiana uccisa dalla crisi, con gran parte degli operai in mobilità. Ma questa volta si tratta dell'unica fabbrica italiana di apparecchi televisivi che, nel boom del passaggio al colore, arrivò a produrre un milione di apparecchi all'anno. Carlo Vichi, uomo vecchio stampo oggi novantenne, vede così infrangere la fine di un lungo sogno. Nel 1945 ha ideato e gestito la MIVAR, fabbrica di radio prima e di televisori poi, che ha vantato anni di gloria e di buona produzione. Ma, da buon imprenditore, Vichi non intende gettare la spugna e ha lanciato un appello: "Se una società di provata serietà accetta di fare televisioni in Italia, io gli offro la mia nuova fabbrica, pronta e mai usata, gratis. Non voglio un centesimo. Ma chiedo che assuma mille e duecento italiani, abbiatensi, milanesi. Questo chiedo. Veder sorridere di nuovo la mia gente. Un posto insuperabile - aggiunge - qui ci possono lavorare in 1.200, tutto in vista, senza ufficetti".
Certamente una bellissima e allettante proposta, un gesto da vero imprenditore legato al lavoro e all'azienda, quella di passare l’attività elettronica - a costo zero - a uomini di buona volontà che abbiano solo voglia di lavorare e di far lavorare; ed inoltre un dono di inestimabile valore che temo, tuttavia, non troverà alcuna accoglienza. Tutto ciò che è italiano di questi tempi pare sia destinato a scomparire in via definitiva, in parte perché manca il coraggio degli imprenditori alla stregua di Vichi, gentiluomo che ha saputo far marciare la sua impresa con la diligenza del buon padre di famiglia, con la fabbrica come casa e gli operai come famiglia; e in parte perché questa politica di politicanti tassaioli fa fuggire anche i miglior intenzionati e suicidare i temerari che hanno provato a resistere.
La cruda realtà è che oggi nessuno è più disposto ad investire in una terra dove si lavora solo per pagare le tasse, dove si è perseguitati con inutili e dispendiose normative che addirittura ostacolano la crescita; e dove le imprese non trovano nessun tipo di supporto dallo Stato. E con la viva percezione di essere giunti all'ultimo atto di una politica inetta e litigiosa capace soltanto di aumentare il tasso di disoccupazione. Mi chiedo, così continuando, cosa resterà di italiano, e se tutto questo fa parte di una strategia, studiata a tavolino, dove la ripresa economica non rientra nel piano prestabilito. Diventa ogni giorno più difficile, almeno per i nostalgici doc, salutare il Made in Italy.
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