Con grande cortesia, la dottoressa Sonia Topazio, Capo Ufficio Stampa dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, mi ha inviato un antico e inedito documento riguardante la più rovinosa eruzione del Vesuvio (almeno 10.000 morti). Credo sia di enorme interesse scientifico e ringrazio – anche a nome di tutta la redazione di Palermomania.it - per averlo ricevuto, in occasione dell’anniversario della catastrofe. Il documento – mai pubblicato finora - è stato ritrovato tra le carte di Raffaele Matteucci, direttore dell’Osservatorio vesuviano dal 1903 al 1909. L’originale fu scritto in latino da un patrizio napoletano cinquanta giorni dopo il terribile evento (con il vulcano ancora in attività) e indirizzato al vescovo Francesco Maria Brancaccio, poi cardinale nel 1633. Per disposizioni testamentarie del porporato, la biblioteca personale di ben 22 000 volumi fu donata alla città di Napoli. La stessa biblioteca diventò la prima pubblica del Regno di Napoli. Il reperto è stato ritrovato e tradotto da Giovanni P. Ricciardi, fisico dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia-Osservatorio vesuviano. Lo scienziato è anche autore del libro “Diario del Monte Vesuvio, venti secoli di immagini”, edito da ESA.
Sperando che il vulcano possa rimanere inoffensivo ancora per altri mille anni (giacché sono state incredibilmente concesse centinaia di migliaia di autorizzazioni edilizie lungo le pendici!), invito a leggerlo.
All’Ill.mo e Rev.mo Sig. Pro.ne Col.mo Mons. Card. Francesco Maria Brancaccio
Di tutti gli incendi del monte Vesuvio che tante volte ha reso la Campania disgraziata, nessuno è stato più funesto di quello del 16 dicembre 1631, compreso quello che ebbe luogo sotto Tito Vespasiano e di cui Plinio il giovane e Dione Cassio fanno una scrupolosa descrizione. Si ebbero allora, difatti due città, Ercolano e Pompei, distrutte per il fuoco; questa volta non sono solamente Torre del Greco e Torre dell'Annunziata, le due città che sorsero dalle ceneri di Ercolano e di Pompei, ma tutti i borghi e villaggi giacenti intorno al Vesuvio che vediamo incendiati e distrutti, quali i villaggi di Trocchia, di Massa, di Pollena, di S. Sebastiano, di S. Anastasio, di Palma, di Bosco, di Resina, di Cremano, questo bruciato per la seconda volta, dei borghi di Somma, di Ottaiano, di Lauro. In quanto al borgo di Marigliano, al villaggio di Saviano e all'antica città di Nola, inondati dalle le acque sgorgate di recente dalla montagna, non hanno sofferto molto meno degli altri. Il monte Vesuvio alza la sua doppia cima nel mezzo della Campania una volta felice, in riva al mare. Non lontano dalla cima che guarda Stabia e che si estende verso mezzogiorno, si apre un baratro immenso da dove solitamente vomita fiamme dalle sue viscere, e per dove si poteva scendere fino in basso nell'interno della montagna: è al di sotto di questa cima che è nello stesso tempo un baratro che, il 16 dicembre 1631, montò un'immensa nuvola di fumo nero e caliginoso che nascose improvvisamente la luce del giorno. Questa novità spaventò tanto più maggiormente in quanto era stata preceduta durante la notte da due violenti terremoti: uno verso le ore cinque, l'altro verso la dodicesima. Durante tutta questa giornata, tuttavia, il Vesuvio non ha preso nessuno a tradimento, si accontentò di minacciare senza colpire, ma non senza spaventare: egli lanciava fumo, liquefaceva i suoi materiali interiori, muggiva orrendamente come nei dolori da parto: temibile avvertimento dato a tutti gli abitanti affinché placassero la collera di Dio e scongiurassero il flagello che si stava alzando su di loro.
Durante la giornata il Vesuvio, per il suo fumo ed i suoi ruggiti, fece tremare i Campani; con l’inizio della notte li fece morire quasi di paura. Questo fumo si trasformò in lapilli e sibilanti fiamme; inoltre gli strepiti dell’acceso Monte si sentivano come un cupo tuono e ai numerosi boati si scuoteva il suolo, che frequentemente tremava, a tal punto che i tetti della città di Napoli sembravano crollare piuttosto che oscillare; tutti gli abitanti lasciavano le case per non essere schiacciati sotto le macerie. La maggior parte si teneva all'aperto o nelle carrozze. Un grande numero si rifugiava nei templi; le vie erano piene di persone che correvano gridando; dai templi pieni di folla riecheggiavano le preghiere; si aspettava il ritorno del giorno, che funestassimo sopragiunse.
La catastrofe fu annunciata ancora da un temporale misto ad una grande quantità di ceneri: i tetti, le strade, i vestiti dei passanti erano sporchi di cenere; una spessa nuvola di cenere velava il sole e faceva un’orribile tenebra; ma verso le ore quattro del giorno il Vesuvio, dalle squarciate cavità sotterranee, fatta più larga l’antica voragine, sembrò vomitare tutte le sue viscere, a tal punto che le città e i borghi enumerati prima furono seppelliti fino alla cima dei tetti sia dalla cenere e dal bitume liquefatto, che dalle pietre infuocate; le persone erano oppresse o soffocate dal denso fumo.
Scorreva un alluvione, come si vide, di bituminoso torrente, che sembrava un incendio in un fiume d’acqua, inghiottendo, bruciando tutto nel suo passaggio, travi, tegole, alberi, greggi e animali domestici. Si vedevano uomini immersi nel fango; pesci in secco e nuove scogliere sulla spiaggia costiera del Vesuvio. Si è visto il mare presso Stabia e nel porto piccolo di Napoli ritirarsi, come se le navi navigassero nel solido, ma poco dopo riversarsi con lo stesso fragore.
Intorno a questo Vesuvio, là dove la Campania stendeva poc'anzi felice fecondità ogni suono, dove Pomona e Bacco prodigavano i loro doni, il fuoco e l'acqua hanno devastato tutto: i campi hanno perso il loro manto verde e il fogliame; i confini sono stati spostati o sono spariti sotto uno spesso strato di cenere; è ormai una terra di nessuno senza divisioni, senza proprietari, appare come il deserto libico squallido e arenoso.
La montagna, che si riconosceva da lontano per la sua mole e altezza, appare adesso mutilata e decapitata, infatti negli incendi precedenti aveva divorato solamente le sue viscere, ma questa volta ha consumato e divorato la sua cima e i suoi vasti fianchi e giornalmente continua a rodere ed a mangiare se stesso.
Ora che sono trascorsi cinquanta giorni, né ha cessato di esalare fumo, né talvolta ceneri, o ogni tanto di scuotere la terra.
Orazio Feltri Patrizio Napoletano
Napoli, 4 febbraio 1632
Giuseppe Pitrone
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