Il più difficile! Il più terribile! Non sono solo le malattie, le ambasce del lavoro, le domande che ti poni ogni istante e alle quali non sai dare risposta. Il mestiere di vivere non è per tutti. Per i più sensibili non basta nemmeno la gloria per riuscire a svolgerlo in modo accettabile. Si può eccellere tanto, per esempio, da vincere un Premio Strega e poi uccidersi in una stanza d’albergo. È quanto successo a Cesare Pavese, l’autore che più ha inciso sulla personalità e sullo stile di tanti scrittori. L’opera di Pavese è celeberrima e non sarò certo io ad aggiungere note inedite o più o meno interessanti. Mi serve da spunto, semplice spunto, per operare alcune riflessioni. Lo scrittore vero è, fondamentalmente, un bambino. Continuamente dilaniato tra l’esigenza di razionalità e lo spirito romantico, nostalgico, legato ai ricordi della prima infanzia, al senso di protezione della prima infanzia. Un imprinting che tormenta e del quale non è facile liberarsi. La risultante prende spesso la connotazione di un annichilimento, anzi di un compiacimento, di una tendenza masochistica all’autodistruzione più totale. L’impossibilità a comunicare con i propri simili, causata proprio dall’ipersensibilità, determina una chiusura spesso irreversibile nei confronti del nuovo che avanza. I tentativi di adeguamento, sollecitati dal prossimo più che frutto di autentiche convinzioni, spesso falliscono e riportano al punto di partenza. Il classico e tragico gioco del cane che si morde la coda. In poche parole, si precipita in quello che Sergio Solmi definisce mirabilmente clima di solitudine esistenziale. Alla fine, si parla solo con se stessi, si scrive solo per se stessi, del tutto rapiti da raptus di egoismo purissimo. Nei quali ci si crogiola e, nello stesso tempo, ci si dispera. Di qui a comportamenti che il resto della società definisce irrazionali e precipitosi, il passo è breve. La Fede? Non sempre aiuta. Anzi, poiché vieta di abbandonarsi all’annichilimento spesso diventa tormento nel tormento, il Tormento. E ci si ribella anche contro di essa. Il baratro è sempre più vicino, le remore circa l’irreparabile sempre più labili. Fin quando la voglia di chiudere e tuffarsi nel buio trionfa. Si arriva a quest’ultimo stadio quando crolla la più grande illusione: l’utilità della sofferenza. Illusione che per anni è stata vista come certezza: attraverso la sofferenza si diventa migliori, degni di nobili missioni, perfino amaro calice che bisogna bere per riparare i peccati propri e degli altri. Poi, il crollo, sotto forma di rinsavimento. “Ma la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente”. Ecco la conclusione di Pavese, e non solo sua. Paradossalmente, il rinsavimento conduce alla follia, a quella che il mondo definisce follia. E che, invece, altro non è che voglia di vivere, in pace con se stessi e con tutto ciò che ci circonda. La morte come elemento di vita, indispensabile alla vita. L’altra, quella vissuta per tanti anni, non conta più. Anzi, la si lascia con disprezzo, senza alcun rimpianto. “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più”. Così, a 42 anni, finisce una vita. Una tra le tante.
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