Una terra può essere raccontata in vari modi. Andrea Gabbrielli ha deciso di descrivere uno spaccato d'Italia attraverso uno dei suoi prodotti più amati: il vino. Il giornalista romano si è concentrato sulla produzione vinicola delle isole minori analizzando le differenti realtà che caratterizzano la viticultura del Belpaese. Un viaggio che ha toccato varie tappe, dall'arcipelago toscano alle isole della laguna veneta passando attraverso il Sulcis in Sardegna, Ischia e Procida in Campania fino alle Egadi e alle Eolie. Realtà molto differenti ma, spiega Gabbrielli, con "molti elementi in comune dal punto di vista geologico e produttivo". Il giornalista ha utilizzato questa inedita guida del vino per raccontare anche piccole storie locali e imprenditoriali con un fine manifesto: riscoprire e valorizzare le produzioni insulari per conservare meglio l'ambiente. Il frutto di questo suo viaggio è il libro Il vino e il mare (Iacobelli editore, 2011) Gabbrielli, come nasce l’idea di un libro su una materia così specifica?
"Da circa quindici anni c’è un gruppo di persone composto da giornalisti, professori e produttori che cerca di dare un valore aggiunto alla viticultura che ha un ruolo molto importante nelle isole per il mantenimento dell’ambiente, di una storia e di una tradizione produttiva. Le isole mantengono il loro fascino perché l’uomo ha continuato a curarle attraverso la produzione di vino con la manutenzione dei terrazzamenti e dei muretti a secco. Dove si sono perdute queste tradizioni c’è stato un rapido decadimento del paesaggio. Basta prendere ad esempio il flagello degli incendi che in estate colpisce tutta l’Italia per comprendere l’importanza che l’uomo ha nella conservazione dell’ambiente in cui vive. Il libro vuole scattare una fotografia del quadro nazionale e inserire ogni gruppo di isole o ogni singola isola, perché nonostante la distanza non solo geografica, sono molti gli elementi e i punti in comune dal punto di vista geologico e produttivo. Ogni isola naturalmente mantiene i propri vitigni che sono stati selezionati nel corso dei secoli, ma è una specificità che rientra all’interno del quadro ben definito della viticultura insulare".Questo discorso però esula dall’aspetto economico della produzione vinicola.
"La tutela del paesaggio e la difesa della tradizione vanno oltre il mero dato produttivo. A parte qualche isola infatti ci troviamo davanti a piccole produzioni perché tutto è proporzionale alla grandezza dell’isola e agli ettari che è possibile coltivare. Due ettari e mezzo nell’isola di Gorgona, nell’Arcipelago toscano, che è lunga 3 chilometri e larga circa 2, sono tantissimi".Come si esce da questa situazione poco felice?
"In realtà ci troviamo davanti a una piccola inversione di tendenza. Sino al 2003 si registravano solo notizie di abbandoni, mentre oggi ci sono importanti investimenti da milioni di euro. Oggi molte persone sono alla ricerca di vini dotati di carattere e personalità e l’isola dà queste caratteristiche. Questo discorso non vale solo per i vini, ma ad esempio anche per le erbe aromatiche. Per chi vuole investire quindi diventano prodotti interessanti. Resta però il problema, di natura economica, di realizzare tutta la filiera partendo dalla produzione dell’uva fino all’imbottigliamento del vino. Questo è accaduto nell’isola di Favignana in Sicilia dove l’azienda Firriato ha impiantato una vigna dopo cent’anni di abbandono investendo oltre quattro milioni di euro".Non tutti possono permettersi un investimento di queste proporzioni.
"Solitamente i produttori insulari si limitano alla produzione dell’uva che poi viene data alle cantine. I prezzi delle uve vendute alle cantine sociali sono molto bassi e quindi poco remunerativi rispetto ai costi di produzione. Il quadro è identico a quello della produzione del vino nel continente ma per le isole i costi sono ovviamente superiori perché non si possono fare economie di scala".Lei descrive realtà insulari molto differenti c’è una storia che l’ha colpita maggiormente e perché?
"Nel Sud della Sardegna, a Carloforte e Calasetta, si coltivano dei vigneti a piede franco. Le due cantine raccolgono uva da vigneti impiantati prima dell’arrivo della fillossera e quindi hanno minimo ottant’anni. La fillossera è un afide che fa morire la pianta ed è responsabile della distruzione della viticoltura europea. L’unico modo per resistere alla fillossera è quello di innestare sulla radice americana, questo non accade però in Sardegna perché i vitigni sono impiantati su terreni molto sabbiosi. La sabbia impedisce alla fillossera di respirare. Sono vigneti di una bellezza mozzafiato e producono dei vini straordinari dal punto di vista genetico perché il vigneto prefillosserico ha un metabolismo differente da quello di una pianta innestata. Non solo il vigneto dura più a lungo ma c’è una diversa sintesi degli zuccheri. Solo recentemente questi vigneti sono diventati oggetto di studio, ma io ritengo che quello di Sant’Antioco, così come la vite ad alberello di Pantelleria, sia un patrimonio di biodiversità da inserire tra i patrimoni dell’umanità dell’Unesco. Dovrebbero essere valorizzati e protetti anche perché chi cura questi vigneti è molto vecchio e non c’è un ricambio generazionale. Il mancato turn-over generazionale dovuto alla spopolamento di queste aree porta all’abbandono dei vigneti con una perdita gravissima non solo per la biodiversità. Nell’Isola di San Pietro la viticultura era praticamente scomparsa, ma nel 2001 due investitori lombardi hanno dato vita all’azienda Tanca Gioia di Carloforte".Altri esempi?
"C’è quello dell’Isola di Mozia o San Pantaleo. E’ una proprietà privata della fondazione Whitaker, dal nome di uno dei grandi commercianti di Marsala dell’Ottocento. Giuseppe Whitaker riportò alla luce i resti fenici e oggi è bellissimo vedere le vigne a fianco di quelle rovine. C’è poi l’Isola di Capraia che ha visto rinascere i vigneti alla fine degli anni Novanta grazie al romano Stefan Teofili. Dopo la chiusura della struttura carceraria nel 1986 i terreni erano divenuti incolti per trent’anni".
Fonte: tiscali
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