Ingrid Betancourt racconta i suoi sei anni di prigionia nel libro "Non c'è silenzio che non abbia fine". Confessa di essere riuscita a sopravvivere a quel momento difficile grazie a una profonda fede e a una radiolina che le permetteva di ascoltare le voci dei familiari. Nonostante la sua forza d'animo dice di avere ancora bisogno della psicoterapia. Intervistata da Tgcom dice: "A certi uomini basta un'oncia di potere per pensarsi onnipotenti".
E' più alta di quello che ti aspetti, Ingrid Betancourt. Al collo porta una collana di perle, il corpo minuto è ricoperto da un poncho rosso per ripararsi dal freddo di Milano. Veste una giacca nera sopra la camicia bianca.
Fa un effetto straniante vederla in abiti borghesi con la valigia e le borse degli acquisti, si fatica a immaginarla una normale donna di 49 anni che vive nella società parigina, occupandosi della sua fondazione: per tutti è rimasta la candidata alla presidenza della Colombia tenuta sotto sequestro dalle Farc, le forze armate rivoluzionarie, per sei lunghi anni, nella selva, costretta a marce forzate nel fango, legata con una catena al collo, tra insetti velenosi e animali feroci che, oltre ai carcerieri, alle malattie, ne hanno messo in serio pericolo la vita. Una lunga prigionia che adesso racconta ne “Non c'è silenzio che non abbia fine” già in testa alle classifiche americane.
"Ho tentavo di scappare cinque volte, ma mi hanno sempre catturato, una volta perchè Clara Rojas, la mia compagna, si spaventò per un nido di calabroni, urlando a squarciagola, un'altra perché ci trovammo di fronte un muro invalicabile d'acqua – dichiara la fondatrice del Partido Verde Oxígeno, che nella campagna elettorale distribuiva preservatrivi per spingere la gente a prevenire la malattia e la Colombia dalla corruzione -. Ma non mi sono e mai mi sarei arresa. Ogni volta che sono scappata ho imparato qualcosa di quei luoghi, così, appena mi riacciuffavano, pensavo: la prossima volta non commetterò quell’errore. Tigri e serpenti non mi spaventavano più, ma certo i fiumi erano una barriera invalicabile".
Il titolo del libro è tratto da un verso di Pablo Neruda...
"Quando stavo male, mi tornavano alla mente i versi del poeta cileno, mio padre me li recitava sempre da bambina, sono un mantra, la vittoria della vita sulla morte, ho sempre pensato che sarei riuscita a tornare alla vita, non ho mai perso la speranza, volevo riabbracciare i miei figli. Mi ha aiutato moltissimo la fede religiosa, anche se ho vacillato. Mi chiedevo come Dio potesse permettere quello che stavo passando. Però la fede mi ha dato forza, quando accade un’ingiustizia non è colpa di Dio, spesso ci dà alcuni segnali, bisogna passare attraverso la sofferenza per maturare. Ogni mattina vado a messa. A Milano sono andato in S. Marco".
Come ha fatto a sopravvivere 2321 giorni nella giungla? Lei non era una guerrigliera abituata a vivere in quella condizioni. E' cresciuta a Parigi, nelle migliori scuole, ha frequentato ambienti diplomatici con suo padre e poi col suo primo marito Fabrice Delloye...
"Alcuni miei compagni di prigionia erano nati nella selva, conoscevano i serpenti, gli animali velenosi, si erano immersi dentro fiumi e fango fino al collo, ma soffrivano come me, quindi non era una questione di censo o classe sociale di provenienza. Il problema era abituarsi a essere privi della libertà. E io non ci sono mai riuscita: questo paradossalmente mi ha salvato. Per questo quando mi vollero sequestrare la radiolina, che era l'unico mezzo per sapere di cosa stesse accadendo del mondo e di sentire notizie dei nostri familiari, l'ho nascosta, rischiando la vita".
La radio valeva come la salute, era il bene più prezioso...
"La radio era tutto, sentivo la voce calda di mia madre che mi diceva di tenere duro, darmi notizie sui miei figli. Ma, mentre ero legata a un albero con una catena che mi stringeva il collo, ascoltavo anche giornalisti e politici dire che mi ero innamorata di un guerrigliero, avevo fatto un figlio, ero diventata anche io una delle Farc. La radio era motivo di speranza ma anche di impotenza, certe volte l'avrei sbattuta contro un albero anche se poi, quando sentivo la voce di mio figlio, mi intenerivo".
Clara Rojas, sua candidata alla vicepresidenza, ebbe rapporti con un carceriere, tanto da mettere al mondo un bimbo, strappatole e poi restituitole. A lei è capitato di provare simpatia per Marc Goncalves, un contractor americano che poi in un libro l'ha definita egoista e dispotica... Era possibile innamorarsi in quella condizione di promiscuità?
"Con Marc ebbi un’amicizia amorosa. Nacque una intimità di sguardi e parole, ma sapevamo entrambi che sarebbe finita con la prigionia, che tornati alla vita reale le nostre strade, anche perché viviamo agli antipodi del mondo, non avrebbero potuto che separarsi. Certo, se lo rivedo, tra noi c'è empatia, quel che può avere scritto non mi tange più di tanto. Con Clara il rapporto non fu semplice: la convivenza forzata con chi non scegli, soprattutto in una condizione di sofferenza, è sempre complicata".
Ha avuto carcerieri brutali, ma alcuni hanno mostrato anche affetto, o quanto meno interesse nei suoi confronti, chiedendole consigli sui problemi di cuore, ammettendo di soffrire, come lei, la lontananza da casa...
"Era la cosa più difficile avere confidenza con persone mie nemiche. Dividevamo il cibo, le lunghe marce, l’umidità, il caldo, mi raccontavano dei loro amori con compagni di guerriglia poi destinati ad altre missioni, mi chiedevano consigli, ma erano pur sempre i miei aguzzini e non posso dimenticare che mi hanno privato della libertà per sei lunghissimi anni. Mi hanno anche picchiata".
Fonte: tgcom
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