A vederla così, "esile come un giunco", non si riesce ad immaginarla mentre progetta e mette in atto minuziosi piani di fuga dalla "gabbia" nella quale era tenuta prigioniera dai guerriglieri delle Farc colombiane. Tentativi ogni volta vani ma mai inutili. "Mi guardavo dentro - scrive -, misuravo la mia forza e la mia resistenza, non sulla base della mia capacità di restituire i colpi, ma piuttosto di quella di subirli, come una nave squassata dalle onde che riesce a non colare a picco".
Ingrid Betancourt, rapita il 23 febbraio del 2002, pochi giorni prima delle presidenziali alle quali era candidata con il Partido Verde Oxigeno, per sei anni è stata usata come merce di scambio per la liberazione dei rivoluzionari detenuti nelle carceri governative.
Non c'è silenzio che non abbia fine, pubblicato da Rizzoli (600 pagine, 21 euro), non è semplicemente il racconto autobiografico di quei lunghi anni di prigionia nella giungla ma piuttosto un libro profondo, a tratti intimista, nel quale anche il rapporto terribile e conflittuale con i carcerieri può essere elevato a nuova consapevolezza di vita. Il racconto di Betancourt coinvolge e commuove. Tanto quanto può sfiancare la separazione dai propri figli, da un padre malato, dalla vita vissuta appresso agli ideali politici. Durante il sequestro molte voci si sollevarono in suo favore. L'Europa la adottò quale simbolo di lotta per i diritti umani, arrivando a chiedere, dopo la sua liberazione nel 2008, il Premio Nobel per
Fonte: tiscali
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