C'è un conflitto lungo e di non facile comprensione conosciuto come questione israelo-palestinese. Quando si parla di Israele e Palestina e del loro conflittuale rapporto gli eventi storici finiscono per mescolarsi e confondersi nelle interpretazioni politiche dei fatti. La lettura diventa difficile anche per chi, come l'esperto in cooperazione internazionale allo sviluppo Franco La Torre, ha passato vent'anni a Gerusalemme. La Torre è arrivato in Israele con un'idea che poi si è evoluta e modificata ascoltando tutte le voci di questa guerra non dichiarata ma combattuta senza sosta da tre generazioni. "La scelta di stare dalla parte dei palestinesi era motivata dal fatto che erano indubbiamente loro i più deboli ma niente di più. In seguito avrei capito che la realtà era più complessa, che le ragioni e i torti, seppur con pesi e rilevanze diverse, erano tanti e stavano sia da una parte che dall'altra" scrive nel suo libro Grazie a Dio è venerdì (Iacobelli editore, 2011). Il testo ripercorre gli ultimi vent'anni del conflitto attraverso gli occhi di chi, nonostante tutte le difficoltà e il sangue versato in Terra Santa, ritiene che la convivenza pacifica sia ancora possibile.
La Torre, perché il suo libro s'intitola Grazie a Dio è venerdì?
"Quando arrivai a Gerusalemme mi fu mostrato da Bruno Neri un calendario, un importante strumento di lavoro per chi opera in Terra Santa. Erano indicate le festività delle tre principali religioni monoteiste: ebraica, musulmana e cristiana. Venerdì è il giorno di riposo dei musulmani, il sabato degli ebrei e la domenica dei cristiani. Io immaginavo di trovarmi davanti a un weekend lungo, ma in realtà era esattamente l’opposto perché sebbene qualcuno riposasse nel giorno festivo, noi dovevamo lavorare per gli altri. Il titolo nasce da questa mia riflessione".
Lei scrive: "Il conflitto israelo-palestinese è la chiara dimostrazione di sessant’anni di fallimenti diplomatici e politici, durante i quali la ragione di molti è stata sconfitta a vantaggio della forza di pochi". I "molti" sono la popolazione e i "pochi" sono gli interessi politici?
"Sì. I molti sono gli israeliani e i palestinesi che non ce la fanno più a vivere un conflitto che va avanti da tre generazioni insanguinando la Terra Santa. Ma i molti sono anche coloro che amano la pace e si trovano in tutto il mondo. I pochi non sono i politici e i loro interessi - perché anche dietro alle strategie di pace ci sono i politici - ma gli interessi economici".
Si riferisce agli interessi legati al petrolio e al controllo delle risorse energetiche?
"Sono convinto che finché ci sarà una goccia di petrolio che scorre in Medio Oriente, quell’area rimarrà instabile. Secondo la vecchia strategia del divide et impera se sono tutti armati l’uno contro l’altro chi detiene gli interessi primari, ovvero le grandi compagnie petrolifere, è in grado di fissare il prezzo e dettare le condizioni di mercato. Nel momento in cui l’area si stabilizzasse a fare il prezzo sarebbero i Paesi. A questo aspetto, attorno al quale si sviluppa un forte interesse geopolitico, va aggiunto quello dell’industria delle armi e quello sociale che sconfina nell’emotività".
Che cosa intende dire?
"E’ difficile per delle leadership deboli rinunciare al collante che in qualche modo la paura dell’aggressione e della guerra esercita sul popolo. Non vale solo per i palestinesi, ma anche per tutti quei regimi arabi in crisi che hanno utilizzato, molto e strumentalmente, la questione palestinese per distrarre le loro opinioni pubbliche dai problemi reali".
Perché quello israelo-palestinese viene definito come un "conflitto a bassa intensità"?
"Perché non ci sono due eserciti che si scontrano e perché ci sono lunghi periodi di calma apparente. Anche se il conflitto determina angoscia, paura, privazioni e frustrazioni fortunatamente si ricorre alle armi senza quella continuità che un conflitto ordinario determina. E’ una formula degli storici geopolitici utilizzata proprio per definire quelle tipologie di conflitti che non presentano lo scontro tradizionale tra eserciti".
Lei ribadisce in più parti come la questione palestinese sia considerata un dramma umanitario e non una questione geopolitica.
"Il conflitto israelo-palestinese è di natura politica. Se la politica fosse pronta e capace e soprattutto se i tempi lo consentissero si potrebbe raggiungere la pace. Bozze di accordo ne sono state scritte tante e c’è un consenso generale sui punti cruciali, ma alle leadership manca il coraggio della decisione finale. L’approccio politico viene però indebolito dalla prevalenza di quello umanitario. Non è un caso che la prima agenzia delle Nazioni Unite per l’assistenza e il lavoro è per i rifugiati palestinesi. Sono i primi rifugiati della storia contemporanea e hanno un’agenzia dedicata a loro, ma questo li ha trasformati in un caso umanitario e non politico".
Quindi è uno svantaggio.
"Cito come esempio la tanto criticata politica dell’Unione europea. L'Europa da una parte dimostra difficoltà o incapacità di intervenire sul piano politico, negoziale e diplomatico ma dall'altra è in cima alla classifica per ciò che riguarda gli aiuti umanitari di sostegno economico ai palestinesi. E’ una sorta di elemosina che serve a consolare gli animi di coloro che non fanno nulla per una più equa distribuzione delle risorse. E' una sorta di elemosina fatta la domenica all’uscita della chiesa che salva l’anima e consente al ricco di mangiare senza troppe angoscia. I palestinesi ricevono molti aiuti, ma sono un piccolo lenimento per una ferita che non viene curata".
Senza quegli aiuti però la situazione del popolo palestinese sarebbe decisamente peggiore.
"Non c’è dubbio, ma forse con un’azione politica più determinata non saremmo davanti al secondo conflitto più lungo nella storia dell’uomo".
Quale azione politica può essere esercitata se Israele agisce ignorando le risoluzioni dell’Onu?
"Israele gode in parte del sostegno e in parte dell’incapacità di contrapporre delle ragioni. Israele non agisce da sola ma all’interno di un’arena internazionale. Per una serie di motivazioni storiche e politiche contingenti non si riesce a ricondurre alla ragione il soggetto più forte che quindi in automatico è portato a comportarsi come crede. E’ naturale che chi vince vuole avere sempre ragione. Il problema è che quando questo atteggiamento non porta a una soluzione, dovrebbe essere compito e responsabilità degli altri cercare di convincerlo a ragionare. Manca questo atteggiamento di responsabilità da parte degli amici di Israele".
Perché?
"Per semplificare diciamo che gli europei sono sommersi dai sensi di colpa per essere stati i maggiori responsabili dell’Olocausto. Gli americani sono molto condizionati dalla comunità ebraica statunitense. Ci sono poi quei Paesi arabi che non hanno mai avuto a cuore una reale soluzione del problema perché si sono ritrovati in casa una democrazia che rischiava di spargere i suoi semi intorno. Se mettiamo insieme tutte queste variabili vediamo che è eccessivo indicare esclusivamente Israele come l'unico responsabile dello stallo dei negoziati".
Nonostante il muro, nonostante la politica repressiva attuata nei territori occupati e la guerra preventiva di Piombo fuso, gli israeliani continuano a essere ossessionati dalla sicurerzza.
"Non dobbiamo mai dimenticare che i conflitti che hanno segnato la regione si sono concretizzati solo in due accordi di pace. Ancora oggi il Libano, la Siria e gli altri Paesi arabi dell'area non riconoscono lo stato di Israele. Non passa poi giorno che l'Iran non minacci di distruzione lo stato ebraico. C'è una condizione psicologica dettata dalla drammatica condizione degli ebrei prima della fondazione di Israele, a questo si somma lo stato di insicurezza. C'è poi anche tra le leadership israeliane chi getta benzina sul fuoco strumentalizzando molto questo sentimento di insicurezza, trasformandolo nell'alibi per perseguire strategie che nulla hanno a che fare con il conseguimento della sicurezza. Il risultato è che permane uno stato di insicurezza generale".
Lei crede che la soluzione della questione israelo-palestinese passi attraverso la formula "due popoli, due Stati"?
"Come pensava Ben Gurion e come sostiene anche il presidente Napolitano, il primo passo è necessariamente quello dei due popoli e due Stati. Subito dopo però deve nascere una confederazione tra Israele, il nuovo Stato di Palestina e la Giordania. Nessuno di questi Paesi è sostenibile in assenza di conflitto. Non hanno materie prime, patiscono la scarsità d'acqua, hanno eccellenze in alcuni settori ma sono Paesi troppo piccoli e sovrapopolati. Credo in questa prospettiva".
Fonte: tiscali
© Palermomania.it - Il portale di Palermo a 360°
Lascia un tuo commento
Questo articolo ha ricevuto
Ultim'ora by Adnkronos
Covid 2024, cosa c'è di nuovo su XEC la variante che dominerà in inverno
Pubblicata il 24-11-2024 alle ore 00:10
Daniele, nato due volte, dal trapianto di cuore alla mezza maratona: la storia
Pubblicata il 24-11-2024 alle ore 00:10
Ucraina-Russia, Zelensky: "Guerra può finire nel 2025, nuovo piano entro gennaio"
Pubblicata il 24-11-2024 alle ore 00:07
Cop 29, approvato l'accordo: 300 miliardi di dollari all'anno per i Paesi poveri
Pubblicata il 24-11-2024 alle ore 00:01
Figc, idea Del Piero per la presidenza: un numero 10 per la federazione?
Pubblicata il 23-11-2024 alle ore 23:11
Approfondimenti
Opinioni a confronto
Articoli più letti