A volte basta raccontare con estrema semplicità una storia drammatica per far riflettere un lettore. A volte basta aprire un libro e scorrere un indice che recita lapidariamente i nomi di alcuni stati: Afghanistan, Pakistan, Iran, Turchia, Grecia, Italia. Uno sguardo distratto a una cartina tratteggiata con un punto d’inizio, il piccolo villaggio afgano di Nava, e uno d’arrivo, Torino. Quando è ormai chiaro che si tratta di un viaggio inizia il racconto della storia Enaiatollah Akbari, splendidamente incalzato e guidato da Fabio Geda (Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani e L'esatta sequenza dei gesti). Enaiat è un bambino hazara di dieci anni nato in uno stato, l’Afghanistan, dove i talebani dettano legge con il pugno di ferro e i ragazzini come lui sono merce di scambio per debiti insoluti. La sua storia si apre con l’abbandono in Pakistan da parte della madre e si conclude con l’arrivo in Italia, la terra dove crescere e studiare per fare, forse un giorno, ritorno in patria. Il libro s’intitola Nel mare ci sono i coccodrilli e ha conquistato sia la critica, con l’inserimento nella lista dei finalisti del prestigioso Premio Strega, e il pubblico, con oltre duecentocinquantamila copie vendute in un anno. Anche Francesca Archibugi, colpita dalla storia di Enaiat, ha deciso di trasformare il testo in immagini e dirigere un film su Enaiat.
Geda chi è Enaiatollah Akbari?
"Enaiat è un ragazzo speciale. Ha una fame di riscatto, una curiosità per il mondo, una purezza dello sguardo che lo rendono unico. Lui per primo però riconosce che se è riuscito ad arrivare in Italia e conquistare quello che ha conquistato lo deve soprattutto alla fortuna. Da un viaggio come quello che ha fatto lui non si esce vivi non soltanto perché sei intelligente, furbo o brillante ma anche perché sei molto fortunato. Cammini in un crinale scosceso e puoi sempre scivolare di sotto".
Come vi siete conosciuti?
"Oggi Enaiat ha 22 anni e vive a Torino da sei anni. L’ho conosciuto quattro anni fa e sono rimasto colpito dalla sua capacità di raccontare la sua storia, ma soprattutto dal modo in cui la racconta con freschezza e ironia. In questi anni ha studiato, presto si diplomerà per iscriversi poi in Scienze politiche. Il suo sogno è quello di tornare un giorno in Afghanistan".
Dal vostro dialogo emerge non solo la storia personale di Enaiat, ma anche uno spaccato della società mediorientale.
"Non ho utilizzato la sua storia per descrivere quel mondo. Non mi interessava scrivere un saggio sul Medio Oriente e non avevo la pretesa di descriverlo attraverso gli occhi di Enaiat. Io mi sono semplicemente messo all’ascolto di una storia, ma è ovvio che racconti anche quel mondo all’interno del quale la storia si sviluppa. Lo sguardo non era sul mondo ma sulla persona".
Su un giovanissimo migrante.
"Mi interessava prendere uno di quei migranti che arrivano sempre più spesso sulle nostre coste e nelle nostre città e che vengono banalizzati e descritti superficialmente con delle etichette erronee come ‘immigrati clandestini’. Enaiat non è un clandestino, ma un richiedente asilo. La nostra Costituzione prevede che se tu parti da un Paese in guerra, rischi la vita e sei un minorenne quando arrivi in Italia vieni dichiarato rifugiato politico. Molto spesso invece storie come la sua vengono descritte ed etichettate diversamente. Ho preso una di queste storie e l’ho descritta prima dell’arrivo nel nostro territorio perché spesso c’è la sensazione che queste persone si siano materializzate dal nulla. Invece dietro alle loro storie ci sono viaggi, famiglie, dolori, avventure e peripezie".
Il libro si apre con un fortissimo atto d’amore da parte della madre di Enaiat che coincide con l’abbandono.
"Ascoltando la sua storia mi sono reso conto di quante cose diamo per scontate convinti che, anche se con diverse sfumature, tutti gli uomini del pianeta vivano le stesse vite. Dobbiamo quindi ascoltare in silenzio e accettare il mistero di queste altre vite e di questi gesti per noi incomprensibili come quello di una madre costretta ad abbandonare il suo bambino in una città straniera facendosi carico della responsabilità di un gesto fatto per salvargli la vita. Viviamo immersi in determinati dogmi e attraverso questi leggiamo il mondo che ci circonda".
I concetti di vita e di morte nel libro risultano lontanissimi e quasi incomprensibili per il mondo occidentale.
"In generale noi siamo poco rispettosi del mistero della vita, pensiamo sempre di ricondurre tutto a degli schemi a noi noti. Siamo abituati al nostro benessere, alle nostre vite relativamente sicure e stabili, alla percezione della morte come un evento raro. Noi ci possiamo permettere anche il lusso del lutto, perché è un lusso anche il poter piangere un morto. Quando uno dei ragazzini che viaggia in mare con Enaiat per raggiungere la Grecia cade in acqua, loro lo vedono affogare. Tentano di salvarlo ma quando non ci riescono e vanno avanti. Non hanno neanche il tempo di piangere un amico".
Il suo libro è nella lista dei finalisti del Premio Strega e diventerà un film diretto da Francesca Archibugi, si aspettava questo clamoroso successo?
"In verità non mi aspettavo niente di tutto ciò. E' stata una piacevolissima sorpresa. Anche se ritenevo che una storia come questa potesse essere raccontata in qualsiasi modo, e quindi anche attraverso il cinema, mi ha sorpreso che una magnifica regista come Francesca Archibugi si sia interessata al mio libro".
Forse è stato determinante il giudizio del pubblico.
"Ciò che mi ha stupito è stata proprio la risposta del pubblico. Trovo incredibile che questo libro abbia venduto in un anno duecentocinquantamila copie. Non credevo che ci fosse tanta gente disposta a farsi raccontare una storia così. Ero convinto che l’Italia, ormai e purtroppo, fosse un Paese abitato da persone anestetizzate, con la voglia di dimenticare tutti i guai della vita. Pensavo che la gente preferisse passare le sue giornate davanti alla televisione per seguire un programma leggero e allegro e non pensare a tutto ciò che gli capita attorno. Ho scoperto invece che esiste un’Italia che ha voglia di fermarsi e riflettere. Il libro ha avuto una diffusione fortissima nelle scuole e questo mi ha fatto estremamente piacere perché lo abbiamo scritto prestando grande attenzione alla semplicità del linguaggio. E’ un testo scorrevole ma non perde in profondità".
Fonte: tiscali
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