Grottesco, caotico, amaro e paradossale, l'atteso esordio di Chiara Moscardelli, scrittrice romana nata negli anni Settanta, è una tragicommedia generazionale, femminile e corrosiva.
È narrativa di grande umanità, benedetta da una vera capacità di sorridere di tutto: e puntinata, qua e là, da una risata trascinante che sa surclassare tutte le ombre e tutto il male del mondo. Alla grande, e come niente fosse. “Volevo essere una gatta morta” (Einaudi, 2011) è il romanzo gentile e disperato di una ragazza, e di una generazione, che hanno dovuto imparare a prendersi gioco della realtà, e di sé stessi, senza cattiveria: è la storia di una ragazza, e di una generazione di giovani donne, che sono state martirizzate e nevrotizzate dal precariato, offese e scosse dalla decadenza della qualità della vita nelle grandi città, dalla disgregazione delle famiglie e del tessuto sociale. È la storia di una ragazza che ha saputo fronteggiare e rovesciare il male, e ha saputo sghignazzare in faccia alla morte, per non mostrare paura e non cedere alla tentazione della sofferenza, al capriccioso strapiombo della compassione. È la storia di una ragazza che ha saputo accettare che le cose non vanno come dovrebbero, certe volte – magari: il più delle volte – ma ha saputo imparare a fregarsene. La cosa più incredibile è che questo libro è stato confezionato come una sorta di diario di una Bridget Jones de noantri, con tanto di copertina acchiappona da grande libreria in centro città, mentre invece è un diario di una persona vera e tosta e spigolosa e allegra, una che dà del tu ai grandi artisti e dà del tu al dolore con la stessa disinvoltura e la stessa personalità. Uno legge questo libro e pensa che la vita può essere veramente rocambolesca e infame, ma certe volte il bene vince. E quando il bene vince uno riesce a capire cosa abbia significato esistere. E perché sia stato così bello.
“Lavoravo dodici ore al giorno, guadagnavo mille euro al mese e avevo trentatre anni. Mi sentivo in diritto di godere della mia libertà. Apericene con finger food, sano shopping e, cosa più importante, un appartamento tutto per me dove organizzare serate con gli amici o invitare un uomo a trascorrere la notte senza dover rendere conto a nessuno. Matelda ripeteva che non ce l'avrei mai fatta e che soprattutto non avevo un uomo da invitare. Io la liquidavo dicendole che quella era una sottigliezza. Alla fine la caccia all'appartamento ebbe inizio. E purtroppo non è ancora finita” [Moscardelli, “Volevo essere una gatta morta”, p. 161]
Trentatrè anni, e non sa dove ha sbagliato. Non ha ancora trovato l'uomo giusto, non capisce se in lei ci sia qualcosa che non va, non si capacita di come vadano davvero le cose, in amore. È una vita che si sente sbagliata, al posto sbagliato, nel momento sbagliato. Forse è quello. Sempre fuori luogo in ogni circostanza. Siamo al di là della grande lezione letteraria del triestino inetto. Siamo dalle parti della poetica dello sbaglio assoluto.
Figlia unica di genitori separati, cresciuta dalla mamma, Chiara è parte di una generazione che di famiglie ha imparato ad averne diverse – con tanto di fratelli che spuntano fuori a sorpresa, in adolescenza, facendo ciaociao con la manina. Forse è per questo che si commuove di fronte alla pubblicità del Mulino Bianco. Oh, si fa per dire: ma è una favola assurda, quella famigliola là, che ogni tanto fa ghignare ogni tanto stranisce, e ogni tanto fa pensare a ciò che ci siamo lasciati alle spalle, una-due generazioni fa. Forse è per questo, per essere nata da una famiglia italiana postmoderna classica, assemblata e riassemblata con nonchalance, che Chiara sognava di avere un solo grande amore, e voleva fosse quello dei tempi del Liceo, guarda un po'. Il primo e l'ultimo. Il vero principe azzurro. Quello capace di amarla per quel che era. Ma le cose non sono andate così. E lui è diventato assurdo. Imprevedibile, scontroso, lunatico, sfuggente. E lei... lei è diventata una persona speciale. Piena di vita e di allegria nonostante niente vada come vuole lei, o quasi. Piena di amici disadattati e stravaganti. Ma: veri. Una con cui si può parlare di tutto, no? Meglio che con chiunque altro. Una che all'università ha imparato ad arrangiarsi e a sopravvivere, resistendo al disordine assoluto della Sapienza di Roma, scampando al soffocante traffico della città eterna, alle manifestazioni senza fine e al supremo fancazzismo della facoltà di Lettere. Una che ha capito, crescendo e provando e sbagliando lavori, e trovandosi tutto a un tratto a fare il lavoro della sua vita per una persona sensibile e genuina, spuntata fuori dalla vita con un'opportunità stupenda e un tempismo perfetto (tanto che viene da dire: sembrava scritto...), che non è questione di essere ambiziosi, né di avere sogni: è questione di saper stare al mondo e di saper amare la vita, per quello che è, la vita, senza farsi rovinare quel che già si ha, e a cui si è legati e affezionati, da ciò che non si può avere. Vale a dire, dal desiderio di essere altro. E dal desiderio di avere di più. Ma chi se ne frega. Ma no. Tutto può succedere, ma non ci devono essere forzature. Niente artifici. Niente pressioni.
Chiara ha una fissa buffa. Ha la fissa della donna rivale. Quella donna è la gatta morta. Se fosse nata gatta morta la sua vita sarebbe stata diversa, dice Chiara. La gatta morta è una contro cui non c'è niente da fare, una che vince sempre. È una furba, una molto determinata, una che sa ubriacarsi senza perdere stile e misura, una che se decide di prendersi un uomo, semplicemente se lo prende. È già suo. Secondo Chiara, la gatta morta è una che “ha pochi pensieri, chiari, semplici. Nessuna dietrologia, nessuna complicazione”. È solo apparentemente passiva. In realtà è ferocemente aggressiva. Ma non ci piace, no. È farlocca. E fa poca letteratura. Fa giusto scena. È coreografica, va.
Ma invece... “Io sono Chiara. Non si sfugge al proprio destino. Il mio sarà sempre quello di trovare cadaveri nei bagni, visitare paesi in cui improvvisamente scoppiano guerre civili, incontrare uomini che mi considerano molto intelligente ma che si innamorano di un'altra, o riconoscere per caso, un giorno, alla stazione Termini, Alessandro Preziosi, l'attore di 'Elisa di Rivombrosa', e inseguirlo gridando 'Conte Ristori'...” [Moscardelli, “Volevo essere una gatta morta”, p. 231].
Ecco, invece Chiara si prende in giro e prende in giro tutto quanto. Gioca a tornare adolescente e a tornare ragazzina che va in interrail. Gioca a restituire l'emozione della prima volta e tutte le buffe strategie di corteggiamento e di avvicinamento sue, e di noialtri maschiacci. Gioca a raccontare la sofferenza dei licenziamenti cattivi e insensati e a freddo, e la paura di restare senza soldi, e di non poter pagare più l'affitto. Gioca a dirci che va bene essere ciò che si è – che è inutile combattersi. Che è il caso di volersi bene. E di volerne alle persone vere.
Salutiamo la nascita di una bella narratrice italiana, caustica e corrosiva ma mai feroce: la Moscardelli scriverà grandi pagine di satira – editoriale, borghese, erotica, ospedaliera, sentimentale, capitolina, meneghina – e lascerà il segno. Intanto, sin da questa sua opera prima, diverte, intrattiene, emoziona: consola, e cura.
Fonte: tiscali
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