" Videant consules ne quid res pubblica detrimenti capiat"
Da quando ci si è resi conto di essere nel pieno di un’epidemia, provocata da un virus feroce e misterioso, si è scatenato uno scilinguagnolo mediatico incredibile, circa la sua entità, il modo di diffondersi, poco sulle cause. Non c’è stata ora del giorno e della notte in cui in TV non si esibivano corsie di malati, camici bianchi affaccendati e soprattutto comparivano virologi e immunologi di ogni tipo per far lezioni esplicative e più o meno allarmistiche. Col guaio purtroppo di non offrire pareri concordi e quindi seminare ulteriore confusione nella sciagura. Tuttavia il molto e vario dire in una vicenda oscura è spiegabile e non è detto che sia male, giacché, quando su quanto accade si avanzano molte opinioni, è possibile che tra queste venga fuori pure quella giusta. Quel che invece resta preoccupante è la mancanza di una linea di opinioni sul dopo di cui tanto oggi si parla, che sia organica, credibile, utilizzabile. Abbondano soprattutto tra i parolai d’occasione, quelli che con l’aria dei primi della classe ammoniscono che bisogna mettersi in testa che non tutto può tornare come prima. Ma nel dire questo, che da un lato è una verità ovvia giacché dopo ogni distruzione ogni rifacimento comporta qualche diversità, forse vogliono giustificare e rendere logico il fatto che tutto possa tornare peggio di prima. E no. Le conquiste della civiltà vanno tutelate, cioè ripristinate. Ciò che riguarda la dignità dell’uomo ove sia stata lesa, va ribadito; in primo luogo le necessità di formazione e le condizioni di lavoro, oggi compresse con mezzi approssimativi, vanno riportate al loro iter funzionale. Si allude precisamente ai problemi del mondo della scuola, ove sarebbe folle non ripristinare in qualche modo il sistema educativo quale dialogo psico-fisico docente-studente; e al mondo del lavoro, ove se chi lavora se ne starebbe sempre a casa, finirebbe il mondo di relazioni, di confronti e quindi di evoluzione della società. Il lavoratore sarebbe ridotto ad essere solo un addetto al funzionamento dello strumento; l’azienda solo un ufficio per trattare commesse, senza metterci neppure le spese per un locale; si direbbe venuta l’epoca in cui lo strumento conti più o sia vece della persona. Oggi che si parla di ripartenza, il buon senso dice che l’approssimazione dovuta all’incidente va superata, come cultura e in ogni progettazione.
Purtroppo siamo nelle mani della politica, anzi di una certa politica che, proprio nella gravità delle circostanze rivela le sue crepe. E queste sono dovute a due fattori che incidono sulle sorti del paese: la mediocrità dei soggetti che praticano questa politica e la sempre mal celata disunità tra il nord e il sud di esso. Anche nel pieno della calamità che ci ha afflitto, i capi dei partiti non hanno cessato di tirare l’acqua al loro mulino, che non sono le urgenze della gente ma il cercare di accaparrare più consensi in vista di auspicate elezioni future; e se il virus ha colpito più il nord che il sud, questo è servito per ravvivare la polemica sulle diversità di esigenze, sulla reale o carente disponibilità di strutture tra Lombardo-Veneto e Meridione. E se il virus ha fatto morti, sulla scia del discorso portato poi sulle competenze regionali, si è pure caduti nella grave stonatura di un conflitto tra Governo e Regioni, addirittura finito in mano della Magistratura. Come dire che, nell’analisi del dopo, i poteri pubblici si fanno guerra e causa tra di loro, in un micidiale protagonismo di Governatori, Sindaci e Ministri, da vera repubblica delle banane.
Per cui, badando al parlare che si fa di ripartenza, ci si domanda perplessi se si sta cominciando dalla posta opportuna e con la coscienza ben avvertita delle esigenze e delle priorità da affrontare. Si ha invece l’impressione che si segua una tattica dilatoria, perché solo questo può giustificare il creare tavoli, comitati speciali e commissioni Colao, per dire solo quello che c’è da fare e non per fare subito, cioè accumulare proposte e non decisioni; addirittura s’inventano degli Stati generali, con evidente piglio esibizionistico, come un volere entrare nella storia mentre scappa di mano la cronaca terra terra di troppa umanità che sta per affogare, tra troppe aziende dove non si sa che fare.
Forse nei frangenti difficili il vero buonsenso da far prevalere sarebbe solo quello degli antichi romani, i quali, a fronte della gravità delle situazioni, affidavano ogni responsabilità d’intervento a due persone scelte appositamente e impegnandole ad evitare i temuti guai: videant consules ne quid res pubblica detrimenti capiat. È chiaro che di questi nostri tempi ubriacati di democrazia, con troppe correnti, troppi partiti e partitini, dove qualsiasi bellimbusto con quattro amici può costituirne uno e condizionare qualsiasi scelta, è difficile per qualsiasi Governo prendere decisioni di vasta portata e nell’urgenza; ed evidentemente è difficile poi attribuire le colpe per quel che non si fa o non funziona. Forse qualcosa a fondo del nostro sistema democratico va aggiustata. Questa la verità.
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