E' questo un periodo che si caratterizza per un ritorno di fiamma di personaggi particolarmente cari a noi palermitani di vecchia data. Personaggi che tornano prepotentemente alla ribalta grazie a recenti libri che rinverdiscono fasti di nobili ed imprenditori di una Palermo 'felicissima' tra l'otto e il novecento con cui le giovani generazioni hanno poca dimestichezza, quasi nessuna memoria.
Il Gattopardo di Giuseppe Lanza Tomasi, capolavoro della letteratura mondiale, andrebbe inserito nei programmi scolastici al pari de I promessi sposi di Manzoni. L'irresistibile ascesa sociale della famiglia Florio, immortalata in due avvincenti romanzi di Stefania Auci, I leoni di Sicilia (bella anche la fiction televisiva con un sequel ancora da realizzare) e L'inverno dei leoni, sembrerebbe sconfessare clamorosamente l'idea che al sud non si sa creare impresa come al nord dello stivale.
L'eccezione che conferma la regola? Può darsi, ma non è in questo contesto che va data risposta. Piuttosto, essendomi occupato recentemente di uno di questi libri, La principessa di Lampedusa, mi corre l'obbligo di segnalare un altro romanzo che fa il paio con quello di Ruggero Cappuccio. Si tratta di Casa Lampedusa di Steven Price, un giovane insegnante canadese (strabiliante la sua full immersion nel 'mondo' di Tomasi per carpirne le più nascoste sfumature caratteriali attraverso una prosa che probabilmente deve molto a valentissimi traduttori come Piernicola D'Ortona e Maristella Notaristefano). Dunque, questo è un romanzo perfettamente speculare a quello di Cappuccio: In uno, protagonista assoluta è la madre di Giuseppe (Beatrice Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò); nell'altro, è Giuseppe in primo piano. Entrambi sono raccontati poco prima di morire. Ciò che più sorprende nei due romanzi: il fatto che tra i due testi sembra miracolosamente mancare una soluzione di continuità stilistica come se in Capuccio si dia ulteriore approfondimento alla storia narrata da Price quattro anni prima ma -e questo è davvero straordinario- usando il medesimo "alfabeto segreto con basse frequenze" mediante il quale Giuseppe comunica sensorialmente a distanza con la madre quando abbandona insalutata ospite la pensione di Capo d'Orlando per 'soccorrere' in qualche modo se stessa, ovvero la casa di Palermo distrutta dalle bombe degli "alleati, il suo mondo, la sua vita, fino a morirne. Giuseppe è, per così dire, nella stessa lunghezza d'onda della madre ma con in più il pesante fardello di un passato irrimediabilmente perduto di cui si fa carico di preservare memoria e giustificazione storica. Il resto è silenzio. Immobilità. Morte.
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