La situazione venutasi a determinare per effetto della guerra in Ucraina sottopone alla riflessione una molteplicità di temi, alcuni dei quali sono riemersi con decisa prepotenza proprio in questa occasione.
L’osservatore attento, indipendentemente dalla visuale prospettica prescelta, prova inquietudine al cospetto delle innumerevoli implicazioni, anche sull’ordinaria quotidianità, che il conflitto reca con sé.
In un quadro di questo genere, a volersi soffermare su una delle vicende su cui è polarizzata l’attenzione in questi giorni, suscita enorme preoccupazione, per chi abbia minimamente a cuore la salvaguardia dei valori della democrazia, l’attentato messo in atto, in modo sempre più devastante, nei confronti della libertà di informazione. La guerra che il regime di Putin ha deciso di dichiarare alla libertà di espressione, al punto da costringere i media stranieri ad abbandonare il «campo», ci fa risvegliare da un torpore nel quale siamo a lungo caduti con riguardo a una delle fondamentali prerogative della persona umana.
Vale la pena ricordare che l’art. 21 della Costituzione, il quale protegge la libertà di manifestazione del pensiero, fu concepito in sede di Assemblea costituente, al pari di altre disposizioni che contemplano plurimi e basilari principi e, in pari tempo, riconoscono i diritti inviolabili della persona, in una prospettiva di reazione nei confronti del totalitarismo di un regime, resosi responsabile della cancellazione di libertà fondamentali.
Un torpore – si osservava – che si è dipanato nel tempo lungo almeno due direttrici: da un lato, manifestando, salvo rare eccezioni, insensibilità con riguardo a situazioni analoghe, che ancora oggi si verificano in altri Paesi, dove la possibilità di esprimere le proprie opinioni è fortemente avversata. Dall’altro, dando per scontata una libertà che, invece, ha bisogno di essere costantemente alimentata – cogliendone appieno, e costantemente, l’importanza fondamentale – affinché essa possa essere integralmente preservata.
Non sono del resto pochi i casi, anche nel contesto di situazioni democratiche stabili, in cui il personaggio pubblico di turno manifesta insofferenza e fastidio verso chi, nel pieno esercizio delle prerogative che discendono dal diritto all’informazione, si rivolge con domande e richieste di spiegazioni.
È indispensabile che aumentino sensibilità e sensibilizzazione sul tema: il dissenso – che i regimi, di qualunque natura, temono a causa dell’intrinseca debolezza che li contraddistingue, derivante dalla pervicace idea di assoggettamento della massa degli individui che vorrebbero propugnare –, la critica, le interlocuzioni vòlte ad ottenere chiarimenti, costituiscono elementi insopprimibili – e, quel che più conta, benefici – del corretto andamento delle relazioni democratiche ai fini di una pacifica convivenza civile.
Una libertà, quella alla manifestazione del pensiero, che deve essere riguardata anche sotto il fondamentale profilo dell’interesse della collettività ad essere informata, quale condizione imprescindibile affinché tutti possano partecipare attivamente, rendendosi protagonisti, anche soltanto mediante un contributo di idee, dell’organizzazione democratica della comunità interna di appartenenza e della comunità internazionale.
Non senza però dimenticare – e, anzi, avendolo sempre bene a mente – che l’informazione è qualificata, non da oggi, un potere. Un potere che può definirsi virtuoso solo quando concepito al servizio dell’interesse della collettività. Diversamente, ogniqualvolta il suo esercizio sia sorretto da interessi egoistici, di parte, è di palmare evidenza i danni, in non poche occasioni irrimediabili, che esso può provocare.
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