Non si può dire che gli Italiani siano un popolo eccellente per coerenza politica, ma non sono stupidi, soprattutto non lo sono quando accade che la politica si riduca a scontro tra personaggi. Gli scontri li appassionano, come a fare il tifo per questo o per quello, per quella squadra o per quella causa o per l’altra. Perché allora sono chiamati a fare delle scelte, andare sul pratico e quindi su un maggiore o minore interesse da conseguire. Allora sanno scegliere e come. Accadde per Renzi, allorché fu il nuovo contro il vecchio e fu plebiscitato; ma quando il medesimo, da nuovo divenne troppo nuovo, schierandosi ogni italiano con quel che era più prudente, si votò e Renzi fu liquidato. Così ora che il teatro della politica, saturo di recite a soggetto, si è ridotto ad uno scontro tra il presidente Conte e il suo vice Salvini, allorché saranno chiamati a dire la loro, gli Italiani sapranno scegliere e forse faranno pentire chi ha voluto questo scontro, anche se esso sostanzialmente si consuma con sostituzione di persona, giacché Conte non starebbe che al posto di Di Maio dei Cinquestelle.
Intanto si trovano difronte, ormai ex alleati con ogni sacco di bile esploso, da un lato un personaggio che, pur del tutto nuovo alla politica attiva, si è distinto per saggezza di apporti, per garbo diplomatico con cui ha subito ottenuto credito all’estero, per pazienza e abilità di mediazione, affermando uno stile umano esteriore ed interiore, con cui ha comunicato per lo più fiducia. Dall’altro un politico di professione che, da sottoprodotto secondario di Berlusconi, è salito di rango fino a occupare del tutto l’agone della politica di piazza, urlata e popolaresca, quella caratterizzata dai modi spicci, da bello guaglione, cari ai mercati rionali (non certo quelli finanziari), e piuttosto indigesta ai consessi europei. Quindi, da una lato una figura di prudente continuatore circa le referenze estere occidentali; dall’altro un rivoluzionario si e no, mallevadore di rischiose alleanze, con sullo sfondo lo scenario del famoso debito pubblico dal quale l’economia italiana è schiacciata. E noi siamo certi che gl’Italiani sapranno scegliere bene, anche stando alla loro storica tendenza a evitare avventure. Fin qui le previsioni.
Certo non erano forse questo il momento e i modi di determinare lo scompiglio politico che si è creato in questi ultimi giorni, tra oscure pretese di predominio, febbre di rivalsa e nessuna idea progettuale per il bene del paese, ma è chiaro che si viveva una fase di gestione della cosa pubblica troppo stagnante, per cui qualche scossone a venire pure ci stava. E si trattava senz’altro di prendere atto che l’accoppiata contrattuale di governo non poteva essere altro che un espediente di provvisorietà con cui non si poteva andare oltre un certo limite. Fidarsi del provvisorio e di continui sforzi di buona volontà era un errore. Come pure era da ingenui non prevedere che il successo politico elettorale dei Cinque stelle, giacché arrise come protesta, non potesse avere immediatamente un consistente prosieguo sul piano di una pratica di governo. Mentre la Lega, cavalcando dei temi di urgenza incombente e popolare –migranti e ordine pubblico; autonomia fiscale, cioè affari delle aziende del nord - appariva come l’unica entità a far politica utile e fuori dai vecchi personalismi.
In tutto questo dunque si affermava una logica, che contrastava vistosamente contro l’espediente delle cose da fare per contratto da parte due organismi politici diversi e ideologicamente di diversa ispirazione. Si trattava perciò di un’esperienza politica fondata sulla diffidenza continua, sulla smania continua di poter decidere e contare di più, sui litigi un giorno sì e uno no. Un’esperienza che doveva finire e che comunque era stata posta nelle mani di un giurista serio e forse troppo fiducioso, che si era prestato, che era riuscito a farla durare un bel po’ e che anzi sperava di farla proseguire per tutta una legislatura. Ora però che questi è stato sfiduciato, non c’è, a nostro giudizio, da stupirsi del fatto in sé, ma solo del modo livoroso con cui si è agito e per il quale vengono non pochi dubbi e alquanta preoccupazione: perché quanto è accaduto lo è stato in questo frangente? Perché proprio l’affare Tav ha portato intolleranza e rottura definitiva? E davvero l’Italia non potrebbe andare avanti senza le autonomie fiscali, care a Lombardia e Veneto? E di questi tempi in cui dai politici italiani non viene alcuna idea spendibile sulle esigenze della crescita del paese ma solo calcoli per le prossime elezioni, per la conquista di più seggi; davvero andrebbe bene un Conte definitivamente a casa e un Salvini presidente del Consiglio, per una nuova era? Era forse questo il punto? Sono domande da non lasciare indifferenti e crediamo che resti poco da scherzare.
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