Sono trascorsi sessant’anni da quando il 20 settembre 1958, la senatrice Lina Merlin vinse la battaglia più grande della propria vita, l’abolizione definitiva delle “case di appuntamento o case chiuse” perché simbolo di oscenità in una nazione avviata all’emancipazione delle donne.
La legge fascista aveva messo ordine alla gestione borbonica di questa “attività” definendo in modo preciso l’istituzione di “case di appuntamento” sotto il controllo della Pubblica Sicurezza. Stabilì i rapporti fra tenutarie, subordinati e signorine lavoratrici, ponendo norme comportamentali di queste ultime, nelle ore di libertà e di lavoro. Solitamente le signorine che prestavano servizio in queste case erano sottoposte ad esami di ammissione per il passaggio da una città all’altra, da un “casino” ad un altro, fornendo documentazioni fotografiche e patentino di buona salute.
La vita nelle “case di appuntamento” per le signorine si scandiva secondo ritmi militari, ed il giusto compenso per le prestazioni era definito “marchetta” variabile per classe di categoria del bordello, e divisa in parti eguali fra la direttrice e la signorina, a cui veniva addebitata un quota per gli alimenti.
I clienti appartenevano a tutte le classi sociali, secondo l’entità della marchetta, o secondo l’importanza e la raffinatezza del bordello. I clienti erano spesso semplici padri di famiglia insoddisfatti delle proprie mogli, militari, giornalisti, politici, giovani inesperti, pensionati in solitudine.
Tutte le città d’Italia, da Milano, Firenze, Venezia, Napoli, compresa Palermo, in passato avevano le loro “case di appuntamento”, luoghi che appartengono alla storia con i loro tariffari che oggi fanno anche sorridere.
A Milano, il quartiere a luci rosse era quello di Brera, precisamente al civico 17 di via Fiori Chiari, una strada che oggi è il cuore della Milano artistica. Qui risiedeva Wanda “la Bolognese”, che era mamma e moglie, con un cospicuo giro di clienti giornalieri. Ma che finì, barbona, nei sotterranei della Stazione Centrale.
A Venezia, passeggiando sul Ponte delle Tette, tra il Quattrocento e il Cinquecento gli uomini erano soliti alzare lo sguardo verso quelle finestre da cui le donne si affacciavano seminude nell’attesa di un cliente.
A Firenze, in Piazza della Passera vi era una casa chiusa dove anche Cosimo de’ Medici amava intrattenersi, preferendola alla più famosa casa chiusa di Madame Saffo.
Napoli addirittura, fino al 1958, contava oltre novecento case chiuse tra le quali è rimasta famosa La Suprema, la più grande di tutta Europa, dove oggi sorge il lussuoso Chiaja Hotel De Charme.
E ancora a Torino c’era una vera e propria via dei Bordelli, che è poi via Conte Verde; mentre a Genova i bordelli si concentravano in via delle Carabaghe; anche Bologna con i suoi vicoli stretti era pieno di locali di questo tipo; a Roma addirittura esisteva un intero quartiere a luci rosse, Borgo Pio, proprio al confine col Vaticano.
E Palermo? Anche qui le case chiuse erano numerose e ben attrezzate, e tra queste si ricordano: la “Pensione delle Rose” in via Ventura dietro al teatro Politeama; la “Pensione Jolanda”, sempre in via Ventura ma al piano inferiore del precedente; la “Pensione Flores” in via Gagini, frequentato da Salvatore Giuliano; “Il ritrovo Taibbi” in piazza Monte di Pietà; “L’Igea” in via Lungarini;
“Vemeille” ed il “Settequarti” in vicolo Marotta, traversa di Corso Vittorio Emanuele;
la “Pensione 900” la cui attività fu interrotta dal bombardamento del ’43; “La pensione Buganè” a piazza Sant’Oliva, di fronte l’attuale Circolo Unificato dell’Esercito. Gli altri, meno eleganti e confortevoli, erano tra la Cala e la via dei Cassari, dal vicolo Ragusi a via Candelai.
In quel lontano 20 settembre di sessant’anni fa, alla “Pensione Buganè” storico fu il discorso di madame Teresa alla vigilia della chiusura del locale, che riunì le signorine per comunicare la chiusura definitiva e invitandole per quella ultima sera a divertirsi e a bere con i clienti. Un modo per lasciare un buon ricordo ai clienti. Anche a piazza Marina, una orchestrina di violinisti suonò per salutare le signorine che lavorarono per l’ultima volta nelle case che sarebbero diventate “chiuse” per sempre. In via Candelai, invece, proprio quella sera non si festeggiò, perché la legge della Merlin fu approvata proprio mentre un nuovo locale stava per aprire.
La Merlin, morì il 16 agosto del 1979 e ancora oggi è ricordata non tanto per le sue lotte antifasciste, quanto per la legge sull’abolizione delle “case di appuntamento, e ancor di più per il caos che seguì a proposito della prostituzione negli anni a venire.
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