Seduta sui gradini del sagrato della chiesetta consultò l'orologio per la decima volta in due minuti. Dov'erano finiti i suoi colleghi? In ritardo, come al solito, pensò. A lei, ultima arrivata, era toccato l'onore di accompagnare i ragazzi sullo scuolabus dal piazzale della scuola al pianoro dove ora stavano giocando. Potere del pallone: quando dal ventre del pulmino aveva estratto due magiche sfere, i ragazzi le si erano accalcati attorno per impossessarsene, strillando e allungando le braccia. Tenendole in alto sopra la testa, aveva imposto l'ordine e il silenzio, minacciando l'immediato sequestro delle medesime. Come per incanto il pianoro era tornato silenzioso e la colorata e disordinata orda si era trasformata in due file ordinate, maschi da una parte e femmine dall'altra, in meno di trenta secondi. Tutto ciò era avvenuto più di mezz'ora prima. Stavano ancora giocando; ma quanto sarebbe durato? Diede un'altra sbiriciata all'orologio; le lancette si erano spostate di un paio di minuti. La campagna attorno era di un verde brillante per merito della recente pioggia. Sbuffò, spostando il peso del corpo. Il freddo della pietra umida che penetrava attraverso la tela dei jeans le gelava la pelle e una gamba le si era atrofizzata. Volse gli occhi al cielo e la colonnina del suo malumore scese di un paio di tacche. All'orizzonte, un fronte di nuvoloni neri avanzava minaccioso. Ci mancava solo un temporale, pensò. Si guardò attorno in cerca di un possibile riparo per la truppa. Il sagrato era troppo stretto per accoglierli tutti, ma la chiesa si prolungava in una tettoia sufficientemente ampia. Rassicurata, rivolse l'attenzione ai suoi cuccioli talvolta teneri micetti, più spesso leoncini ringhiosi, ma pur sempre cuccioli bisognosi di affetto e attenzione. Le ragazze stavano disputando una partita a palla schiava 'all'ultima pallonata'. Da una parte Alexandra, riccioli rossi ereditati dalla madre irlandese, era in procinto di lanciare la palla e colpire Celeste, una ragazzina peruviana adottata da una famiglia del paese. Colpita! Un grido di esultanza si levò dalla squadra vincitrice. Mentre le ragazze si riposizionavano per un'altra partita, guardò i maschi che stavano giocando a calcio, senza né vinti nè vincitori e soprattutto senza feriti. Per ora. Poco distanti, sedute su un sasso, Bea e Marika, inseparabili amiche fin dalla materna, stavano armeggiando con i rispettivi telefonini. "Le siamesi", così le avevano soprannominate le compagne, ogni tanto si scambiavano gli apparecchi e ridevano. Meccanicamente fece la conta delle teste ... e non vide la coda castana di Matteo. I suoi occhi saettarono dalla parte delle femmine e, come si aspettava, mancava Claudia. Mentre la maggior parte dei ragazzi era ancora nella fase 'maschi da una parte e femmine dall'altra' quei due la suddetta fase l'avevano superata da un pezzo, e non perdevano occasione di defilarsi. Si alzò e fece un giro attorno al perimetro del pianoro, schivando un paio di pallonate.
«Scusi, prof.!» gridò Alexandra.
«Scusi, prof.!» le fece eco Carletto, correndo a recuperare il pallone appena passato a pochi centimetri sopra la sua testa. Perlustrò con lo sguardo ogni albero, ogni cespuglio finché, da dietro il tronco di un castagno vide spuntare il cappuccio rosa della felpa di Claudia. Percorse a ritroso il campo di battaglia e tornò a sedersi sui gradini del sagrato, tenenedo d'occhio il triangolo rosa; sarebbe intervenuta nel caso si fosse abbassato al livello delle radici. Anche lei aveva avuto il fidanzatino alle medie, Giacomo. Giacomo, in quel momento, era in palestra a fare il tifo per le loro gemelle impegnate in una gara di ginnastica artistica.
«Un soldo per i tuoi pensieri.» Alzò lo sguardo sul collega che aveva parlato.
«Era ora!» commentò, rispondendo stizzita al sorriso smagliante, perfetto e finto. A detta dei maligni era opera di uno studio dentistico famoso.
«Scusaci, Vale» disse, sedendosi a fianco. «La Simo ha detto di conoscere una scorciatoia, ma abbiamo sbagliato strada e ci siamo ritrovati in mezzo alle risaie. Quando, finalmente, si è decisa ad ammettere che ci eravamo persi, facendo retromarcia, le ruote posteriori dell'auto sono finite in una pozza di fango. Io e Carlotta siamo scesi a spingere, ma giravano a vuoto. Per fortuna è passata di lì la camionetta della forestale, che tra poco arriverà, e ci ha tirati fuori.» Se per un momento Vale pensò che quella storia fosse una balla colossale, le bastò abbassare lo sguardo sulle Nike incrostate e sui jeans Armani schizzati di fango per ricredersi.
«Puoi lanciare una nuova moda» disse, accennando agli indumenti stazzonati.
«La proporrò alla prossima sfilata» rispose Leo. Il sorriso, però, era scomparso.
Leonardo, Leo per amici e colleghi, quando abbandonava il suo ruolo istituzionale di insegnante, svolgeva saltuariamente l'attività di modello di cui andava molto fiero. E poteva permetterselo! Madre natura era stata molto generosa con lui, elargendogli bellezza e fascino a piene mani. A Vale non era particolarmente simpatico, ma doveva ammettere che posseva un carisma fuori dal comune. Il primo giorno di scuola, quando era entrato in classe, le ragazzine lo avevano fissato a bocca aperta per un minuto buono. Dopo l'intervallo, tutta la scuola era a conoscenza che il nuovo prof. di mate era un gran figo. Peccato che a lui l'universo femminile non interessasse affatto.
«Quanta fauna sprecata!» le aveva mormorato la Simo una mattina, mentre davanti alle rispettive aule attendevano il cambio dell'ora.
Lasimo, tutto attaccato, ovvero Simona Ferrari, insegnante di lettere e storia era una vera istituzione in paese. Promotrice di eventi culturali, impegnata nel sociale era single in attesa dell'uomo 'giusto'. Un'attesa che si protraeva da parecchio, visto che Lasimo aveva superato da un po' la soglia degli ...anta. Ma, con l'ottimismo che le era peculiare, lei non disperava.
«Non ci sono limiti alla provvidenza!» era il suo motto.
«Ciao Vale,» la salutò la suddetta, con il suo solito tono giocoso. «Leo ti ha raccontato del contrattempo?» Vale annuì, anche se 'contrattempo' non era il termine che avrebbe usato.
«Raduniamo la truppa?» propose Leo. «Così quando arriva la forestale siamo pronti per l'escursione.» Estrasse dalla tasca un fischietto e tre potenti fischi lo trasformarono nel Pifferaio di Hamelin.
«Leo ha preparato uno scherzo» confidò Lasimo alle colleghe. «Ieri, durante il sopralluogo che ha fatto con un volontario della forestale per controllare la praticabilità dei sentieri, ha messo la mano di Ugo ...»
«Ugo?» la interruppe Carlotta.
«Ugo,Ugo» replicò Lasimo. «Lo scheletro del laboratorio di scienze, no? Ha svitato la mano e l'ha messa sotto un cespuglio, ma abbastanza visibile. Vediamo come reagiranno le fans di Damon e Stefan Salvatore.»
«E chi sarebbero?» domandò ancora Carlotta.
«Come, 'chi sarebbero'» le fece eco Lasimo incredula. «Ma dove vivi?»
«Damon e Stefan Salvatore sono due fratelli vampiri, amici di Elena Gilbert e sono i protagonisti della serie 'Vampires Diaries'» spiegò Vale che, grazie alle gemelle, si era fatta una cultura sull'argomento.
Carlotta annuì pensierosa. «Adesso capisco!» esclamò. «Qualche giorno fa', ho sentito Bea e Marika che parlavano di questo Damon e lo paragonavano a Leo. Bea diceva che Leo era uguale a Damon, si trasformava quando correggeva le verifiche.»
«Senza dubbio la sua verifica non sarà stata in lizza per un Nobel» commentò Lasimo con una smorfia eloquente.
Nel frattempo erano arrivati i volontari della forestale e i ragazzi, capeggiati da Leo, in fila per due si erano avviati lungo il sentiero. Vale, Lasimo e Carlotta li raggiunsero. L'odore del bosco riempiva l'aria fresca.Vale inspirò profondamente; era un profumo che la faceva sentire a suo agio.
Durante il percorso il volontario spiegava caratteristiche delle varie piante e rispondeva paziente alle domande che i ragazzi gli rivolgevano. Qualcuno prendeva appunti, in previsione di una probabile verifica sull'argomento. Dopo un quarto d'ora di cammino si fermarono in uno spiazzo erboso e i ragazzi si sedettero in cerchio. Dagli zainetti uscirono merendine e bibite, ignorando lo sguardo di disapprovazione di Vale che per tutto l'anno scolastico aveva cercato di convincerli ad abbandonare quel 'cibo spazzatura' per una merenda più salutistica, fallendo miseramente.
Il volontario indicò loro una pietra levigata.
«Sapete cos'è quella pietra?» domandò. Silenzio.
«Sapete che questo è un sito celtico?» Qualcuno annunì.
«Sapete chi erano i druidi?» Un braccio si levò dal gruppo.
«Dimmi,» lo esortò il volontario.
«Erano i 'preti' dei celti» rispose Emanuele, un ragazzino di prima media soprannominato Harry Potter, a causa della sua passione per il maghetto del quale aveva adottato la montatura degli occhiali e il taglio dei capelli.
«Bravo,» lo lodò il volontario. «Quella che vedete, molto probabilmente era l'altare dove i druidi celebravano i loro sacrifici.» Un altro braccio si levò.
«Facevano anche sacrifici umani?» Il volontario sapeva la domanda sarebbe arrivata; immancabilmente se l'era era sentita rivolgere tutte le volte che portava le scolaresche a visitare il sito.
«Sì,» rispose. «Nella loro cultura erano contemplati anche i sacrifici umani.» Dal fondo del cerchio si levò un altro braccio.
«Strano che Pietro alzi la mano» osservò Carlotta . Effetivamente era insolito che il ragazzino intervenisse spontaneamente. Basso e grassoccio - a Vale ricordava il Nostromo Spugna- se ne stava per conto proprio, sia per evitare di essere tormentato dai bulletti, sia per poter ingurgitare la maggior quantità di 'schifezze' nei dieci minuti di intervallo.
«Allora questa mano è un pezzo di un sacrificio?» domandò, mostrando una mano scheletrita e incrostata di terra. La ragazzina seduta di fianco a lui cacciò un urlo, a cui ne fecero eco diversi altri. Il volontario si precipitò verso di lui, intimando ai ragazzi di non muoversi.
«Il tuo scherzo ha funzionato!» disse Lasimo, rivolgendosi a Leo, ma il sorriso le morì sulle labbra. Leo era terreo, gli occhi sbarrati.
«Io non ho messo lì la mano; l'ho nascosta lungo il sentiero numero cinque» confessò sconvolto.
Con prontezza, Carlotta si alzò e si portò al centro del cerchio, ormai disfatto.
«Va bene ragazzi, lo scherzo è finito. Siamo stati noi a mettere lì la mano dello scheletro dell'aula di scienze. Per una volta, ci siamo divertiti noi alle vostre spalle.» I ragazzi la osservarono, incerti se crederle o meno. Il volontario afferrò al volo il concetto e confermò le parole di Carlotta. «È vero, è di plastica.»
«Adesso, ragazzi, mettetevi in fila che torniamo giù. Tra una mezz'oretta arrivano le pizze. Su, andiamo» li esortò Lasimo, mettendosi a capofila.
«Che scherzo del cavolo!» commentò sottovoce una delle ragazzine.
«Il prof. non viene?» domandò un'altra, vedendo che Leo era rimasto a parlare col volontario.
«Scenderà più tardi» le spiegò Vale. «Deve dare delle spiegazioni.»
«Spero che gli faccia un cazziatone per questo scherzo!» affermò un'altra.
«Probabile,» confermò Vale. Per fortuna i ragazzi avevano accettato la versione dello scherzo. Lasimo intonò una canzone e la truppa ridiscese ordinatamente il sentiero. Vale si posizionò alla fine della fila e Carlotta si infiltrò tra ragazze.
«Prof. ...» Vale si voltò; Pavel le si era affiancato. Pavel veniva dalla Bosnia ed era in affido presso una famiglia che lo amava e faceva di tutto per fargli dimenticare le bombe, la fame, la paura: i suoi unici ricordi d'infanzia.
«Dimmi, Pavel» lo esortò.
Con gli occhi bassi, il ragazzino mormorò: «Quella non era mano di plastica ...» Vale sussultò. Quel ragazzino aveva visto la morte troppe volte per non saperla riconoscere. Decise di non mentirgli e lo prese da parte.
«Hai ragione, Pavel. Non era la mano di plastica che il prof. aveva portato per farvi uno scherzo. Ma questo deve restare un segreto tra noi. Non devi parlarne con i tuoi compagni. Loro non hanno mai visto un morto, né tantomeno uno scheletro, tranne quello di plastica del laboratorio di fisica. Ne resterebbero sconvolti, capisci? Per questo ti chiedo di confermare questa piccola bugia. Me lo prometti?»
Il ragazzino annuì solennemente. «Te lo prometto, prof. Non lo dirò a nessuno.»
«Va bene, Pavel mi fido di te.» Vale gli sorrise e lo esortò a tornare in fila con i compagni.
Davanti alle pizze e alle patatine i ragazzi si dimenticarono presto dello scherzo. Vale e le colleghe si prodigarono per distrarli. Finché non arrivarono i carabinieri a catalizzare la loro attenzione. Leo andò loro incontro, seguito dagli sguardi curiosi dei ragazzi.
«Magari lo arrestano!» sussurrò una ragazzina, con un filo di speranza nella voce.
«Ti piacerebbe, vero?» le rispose Carlotta. «Quanto hai preso dell'ultima verifica?»
«Gravemente insufficiente» rispose la ragazzina mortificata.
Leo, nel frattempo, si era congedato dai carabinieri.
«Ragazzi» esordì. «Per farci perdonare lo scherzo, noi insegnanti vi portiamo a mangiare un gelato. Adesso chiamo il pulmino che ci venga a prendere.» Un coro di approvazione accolse l'invito.
«Cosa hai detto ai carabinieri?» domandò Vale, tirando in disparte Leo.
«Ho spiegato cos'è successo e che abbiamo confermato la versione dello scherzo per non impressionare i ragazzi.»
«Pavel sa la verità» gli confessò Vale. Leo fece per protestare, ma Vale lo bloccò con un gesto. «Quel ragazzino conosce la morte, lo sai. Ha capito subito che non era una mano finta. Mi ha promesso che non lo dirà a nessuno e io mi fido di lui. Mi auguro solo che questo episodio non abbia risvegliato i suoi incubi.»
Il sole, ormai basso, apriva squarci cremisi tra gli alberi.
«La morte nell'anonimato è un insulto alla dignità umana» commentò Lasimo. «C'è qualcosa di terrificante nell'idea di trascorrere l'eternità senza che i tuoi cari sappiano dove sei finito.» Quanto doveva averla colpita quella macabra scoperta, pensò Vale. Più che le parole l'aveva colpita il tono con cui erano state pronunciate. La guardò e abbozzò un sorriso.
«Ecco il pulmino!!!» annunciò Lasimo col suo solito tono allegro «Dai, carichiamo la truppa e andiamo a mangiarci 'sto benedetto gelato.»
Durante il tragitto Vale si chiese se conoscesse veramente l'amica o se lei le aveva mostrato solo quello che voleva si sapesse, vale a dire la scorza ottimista e goliardica che proteggeva gelosamente la sua fragilità.
Se fosse riuscita a scrutare dentro la sua anima, vi avrebbe trovato paura, solitudine, angoscia, serpenti addormentati pronti a vomitarle addosso tutto il loro veleno, se la corazza che si era costruita nel corso degli anni si fosse appena appena incrinata.
«Domani siamo convocati tutti in caserma» annunciò Leo, chiudendo il cellulare. «Vogliono le nostre deposizioni.»
«Non i ragazzi, spero» disse Vale, allarmata.
«No, solo noi. Hanno trovato altre ossa disarticolate, ma sicuramente ossa umane.»
«E noi cosa possiamo dire?» intervenne Carlotta. «Non penseranno mica che le abbiamo messe lì noi.»
«Vedi troppi telefilm, Carlotta» la canzonò Lasimo. «Ci faranno le solite domande; cosa facevamo là, chi ha trovato la mano, che ore erano... cose così. Noi rispondiamo, firmiamo e ce ne torniamo a casa. »
«Certo» intervenne Leo, ma la sua voce tradiva una notevole preoccupazione. Quello stupido scherzo avrebbe potuto costargli molto caro. Nel trambusto si era dimenticato di andare a recuperare la mano di plastica. Ma quello era il minore dei suoi problemi. Il preside gli avrebbe fatto una bella ramanzina e un discorsetto sulla maturità, l'etica professionale, sul buon nome della scuola e bla, bla, bla... Passò il dito sulla piccola cicatrice a croce sul polso destro; dopo tanti anni era ancora visibile a ricordargli il 'patto di sangue' col suo migliore amico e il segreto di una vita.
«Non credevo che Leo possedesse uno spiccato senso del macabro» commentò Giacomo, quando Vale, la sera a letto, terminò il racconto del pomeriggio. «A cosa stai pensando, amore mio?» le domandò. «Sento che sei irrequieta; l'esperienza di oggi deve averti sconvolta più di quanto immagini»
Vale si accocolò tra le sue braccia. «Quando Spugna, volevo dire Pietro, ha mostrato la mano, Leo ha avuto una reazione strana, eccessiva. È impallidito, anzi no, era terreo, e anche se cercava di nasconderlo, tremava come se avesse la febbre.»
«Sarà una persona particolarmente impressionabile» le rispose Giacomo.
«No, era come se lui già sapesse di quelle ossa. Lui credeva di non essere visto, perché c'era tanta confusione, ma io ho notato che è corso verso una montagnola e da lì osservava il posto dove sono state trovate. È rimasto là per un bel pezzo. Quando è tornato traboccava di stress.»
«Anche le tue colleghe l'hanno notato?» domandò Giacomo, perplesso.
«No, almeno non credo. Carlotta era al centro del gruppo a convincere i ragazzi che era uno scherzo architettato da noi e Lasimo era impegnata ad allontanare i più curiosi.» rispose Vale, cercando di ricordare la sequenza degli avvenimenti.
«E poi?»
«Poi noi abbiamo radunato i ragazzi, siamo scesi e Leo si è fermato a parlare con il volontario. La cosa strana è che mentre di solito lui è molto attento, protettivo, nei confronti dei ragazzi,oggi non si è curato affatto di loro.»
Giacomo tacque pensieroso. «Ve ne occupavate già voi, dei ragazzi voglio dire. Forse si vergognava a farsi vedere spaventato o sconvolto o impressionato, scegli l'aggettivo che vuoi, e si è tenuto in disparte.»
«Non ne sono convinta. Non è da lui comportarsi così. » lo contraddisse Vale.
«Le tue convinzioni si basano unicamente sul tuo istinto, non sono attendibili.» rispose Giacomo col suo consueto pragmatismo.
«No, non sul mio istinto, mi baso sulla cinesica, che è una metodologia scientifica.»
«Lo so cos'è la cinesica ...»
«Allora saprai anche che Darwin ha scritto che 'le emozioni represse vengono in superficie sotto forma di movimenti del corpo' citò testualmente Vale. A tradirle possono essere un dito che tamburella o un piede che batte sul terreno, se si possono tenere sotto controllo le parole o le espressioni del viso, non si possono controllare i movimenti delle estremità.»
«Grazie per la esaustiva lezione di cinesica, amore; ma possiamo riparlarne domani?» Le diede il bacio della buona notte e spense la luce. Dopo pochi minuti dormiva profondamente. Vale, al contrario, restò sdraiata a fissare le ombre sul soffitto. Poi si infilò le ciabatte, scese in salotto e accese il computer. Erano le due passate quando finalmente la ricerca diede i suoi frutti. Stampò l'articolo, spense il computer e tornò a letto.
La mattina dopo, domenica, Vale si svegliò presto. Giacomo e le gemelle dormivano ancora. Mentre si preparava il primo caffè, pensava al modo migliore per affrontare il collega. Era combattuta: da una parte una vocina le diceva di lasciar perdere e di non impicciarsi, dall'altra voleva capire. Infine prese una decisione; infilò la tuta e le scarpe da ginnastica, scrisse un biglietto a Giacomo per informarlo che andava a fare jogging, nel caso si fosse svegliato prima del suo ritorno. Si infilò in tasca l'articolo che aveva stampato e, senza far rumore, uscì. A quell'ora l'aria era ancora fresca, ma la cappa di afa non avrebbe tardato a incombere inesorabile sulla campagna. Si diresse verso la zona periferica del paese. Lì, filari di alberi nascondevano le case che risalivano più o meno ad una trentina d'anni addietro; piccole, anonime costruzioni, senza pretese. Individuò l'abitazione di Leo, percorse il vialetto e salì i gradini all'ingresso. Leo stava suonando alla tastiera un pezzo di Mozart; attese che terminasse prima di suonare il campanello. La porta si aprì; Leo rimase sulla soglia con la testa protesa in avanti e la mano stretta sullo stipite.
«Ciao» la salutò stupito.
«Ciao» rispose Vale, con un sorriso. «Ho sentito che suonavi e ho pensato di fermarmi a farti un saluto. Ti disturbo?»
«No, figurati. Entra» la invitò, facendosi da parte.
«Posso offrirti qualcosa?» chiese, indicandole la poltrona.
«No, grazie» rifiutò Vale. «Mi fermo solo pochi minuti.»
«Tutto bene?» domandò, cauto.
«Sì, certo» rispose, mentre Leo si accomodava sulla poltrona di fronte a lei. Si passò le dita tra i capelli e le rivolse un sorriso forzato. A lei non era sfuggito il suo aspetto teso, gli occhi rossi, le occhiaie scure e le labbra screpolate. Lui evitò il suo sguardo. Vale decise che non era il caso di tergiversare; ormai si era convinta che ci fosse un nesso tra Leo e il ritrovamento del giorno precedente. Estrasse di tasca il foglio, lo spiegò e glielo porse.
«Cos'è?» domandò Leo, prendendolo.
«Un vecchio articolo di cronaca locale. Risale più o meno a venticinque anni fa'. Un uomo scomparve, e di lui non si trovò traccia. Abitava poco lontano dalla zona dove sono state trovate quelle ossa» esordì.
«All'epoca non c'era 'Chi l'ha visto?' , altrimenti, forse, l'avrebbero rintracciato.» rispose. Appoggiò la caviglia sul ginocchio, in un movimento che poteva sembrare indice di relax e che invece, secondo Vale, era una chiara manovra difensiva.
«Se vai avanti a leggere,» proseguì, avvicinandosi alla sua zona prossemica «ad un certo punto il cronista riferisce che un ragazzino si è presentato in caserma e ha testimoniato di aver visto una notte due uomini che trascinavano un corpo nel bosco. Ha anche detto che era inseme ad un suo amichetto, ma si è sempre rifiutato di riferire il suo nome.» Vale si interruppe e fissò Leo. Il linguaggio del suo corpo lasciava chiaramente intendere che non voleva parlarne, ma lei arrivò dritta al punto. «Quel ragazzino eri tu, vero?»
Leo si alzò di scatto e le voltò le spalle. «Ma cosa ti viene in mente? Certo che non ero io!» Il lieve aumento del tono della voce confermò a Vale la menzogna, perché la bugia innesca una risposta emotiva e l'emozione restringe le corde vocali.
Vale rimase in silenzio, in attesa. Il silenzio è l'arma più efficace, se si vuole ottenere la verità; l'aveva sperimentato con i suoi ragazzi, a scuola, e qualche volta con le figlie. Con successo. Leo non si era mosso, ma le spalle si erano afflosciate e aveva abbassato lievemente il capo. Alla fine avrebbe detto la verità.
«Sai cosè questo?» chiese, girandosi e mostrandole il polso. Parlava con voce flebile. Vale fece un cenno di diniego.
«È il ricordo del patto di sangue che facemmo Edo ed io quella notte. Un taglietto a croce al polso e le gocce del nostro sangue che si mescolano. Roba da ragazzini» minimizzò con un mezzo sorriso. Vale continuò a tacere. Trascorsero diversi minuti, durante i quali Leo attraversò le fasi di rabbia, negazione per giungere all'ammissione.
«Era la notte del 10 agosto del 1987, San Lorenzo. Edo ed io avevamo avuto il permesso dei genitori di stare fuori fino a tardi per vedere le stelle cadenti. Salimmo fino al sito celtico.» Mano a mano che parlava, la sua voce si faceva più sicura. «Non c'era la luna ed era buio pesto. Ad un certo punto sentimmo dei rumori e, spaventati, ci nascondemmo dietro la pietra. I rumori si avvicinavano e potevamo sentire anche delle voci. La luce di due torce elettriche illuminavano il prato e ci schiacciammo ancora di più contro la pietra. Due uomini ci oltrepassarono senza accorgersi della nostra presenza. Ne trascinavano un altro, tirandolo su un tappeto o una coperta. Si inoltrarono nel bosco. Quando furono abbastanza lontani, uscimmo dal nostro nascondiglio. Eravamo sporchi e spaventati. Tornammo a casa di corsa. Prima di separarci, però, facemmo quel patto: non avremmo mai e poi mai parlato di quello che avevamo visto.»
«Edo però non lo ha rispettato.» commentò Vale.
«In parte sì; non ha mai fatto il mio nome. Ma aveva cominciato ad avere degli incubi e i suoi genitori si sono preoccupati, l'hanno portato da uno specialista, un pediatra molto bravo che lo costrinse a rivelare la verità. Me lo confessò lui stesso, piangendo. Non voleva che pensassi che avesse tradito il nostro patto.» Un tenero sorriso gli increspò le labbra.
«Un vero amico,» confermò Vale. «Leo, dimmi, avete riconosciuto i due uomini?» domandò ancora. Leo annuì. «Ne abbiamo riconosciuto uno, dalla voce.»
«Ma l'articolo dice che il ragazzo non è stato in grado di dare informazioni utili.» disse Vale.
«Edo ha mentito ... a oltranza. Tra l'altro credo che gli inquirenti non lo abbiano preso troppo sul serio. Fatto sta che alla fine il caso è stato archiviato come 'scomparsa volontaria' ed è finito nel dimenticatoio. Almeno fino a ieri.» Si passò le dita tra i capelli, nervoso. Alla fine si sedette sulla poltrona e si protese verso Vale. «Adesso che sai la verità, cosa hai intenzione di fare?» le domandò. Vale alzò lo sguardo sul suo viso; nei suoi occhi vi lesse angoscia, ma anche sollievo.
«Adesso ti infili un paio di scarpe da ginnastica e andiamo a recuperare la mano che hai preso nell'aula di fisica. Non vorrei trovassero una mano di troppo! Domattina la rimetterò al suo posto; Ugo sarà contento di riavere la sua ... appendice, e al preside diremo che ci siamo inventate la storia dello scherzo per proteggere i ragazzi. Lasimo e Carlotta confermeranno, sta tranquillo.»
Si lasciarono davanti alla casa di Vale. Lei aveva nel marsupio la mano di plastica.
«Grazie, Vale» la salutò, stringendole la mano.
«Dimmi la verità, da me non te l'aspettavi. Non siamo mai andati molto daccordo, come colleghi intendo.» lo provocò. Leo abbassò lo sguardo, imbarazzato. A Vale parve che il suo viso si tingesse di un leggero rossore, a forse era solo un effetto della luce mattutina.
«Sei un'amica, una vera amica. Sei la migliore.» le disse, allontanandosi in fretta.
«Un'amica con un segreto di troppo ... e una mano di troppo.» mormorò rientrando in casa.
Maria Lacchio
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