Dintagell 60 d.C.
Il sole era tramontato, ma strisce di intenso viola e arancio solcavano il cielo. Lì in alto la brezza era fredda e tonificante. Le colline erano forme scure, appena visibili, l’orizzonte già si perdeva nell’oscurità. Proseguì in un tratto di bosco dove cespugli e sottobosco erano meno fitti. Qua e là si scorgevano radure e distese d’erba. Un lieve aroma di torba sorgeva dal terreno. Si muoveva come se appartenesse a quel bosco, ma il dolore che gli succhiava l’anima lo faceva sentire fragile, vulnerabile. Attraversare la foresta alla lattiginosa luce della luna piena non era un problema poiché ne conosceva ogni sentiero, ogni anfratto. Sapeva riconoscere la maggior parte delle piante che vi crescevano, evitando in tal modo di ferirsi con le spine celate dal fitto fogliame di ingannevoli arbusti o di scivolare sull’edera velenosa. Il sentiero che stava percorrendo era peraltro privo di insidie; un lungo nastro scuro che si inoltrava nella parte più antica del bosco, fitta e buia, dove, al contrario, il cammino sarebbe stato ostacolato da cespugli pieni di radici, grovigli di alberelli e rampicanti, costringendo a continue deviazioni. Una cicala nottambula emise un verso ingannevolmente allegro contraltato dal lugubre richiamo di un uccello acquatico o di un falco. Non seppe distinguerli. Rudiano rasentò uno stagno dove le rane gracidavano incalzanti. Nella testa gli era entrata una nenia, la cui eco non accennava a spegnersi. Il rumore vicino di un ramo spezzato lo fece trasalire. Trascorsero alcuni attimi e il rumore si ripeté. Il suo passaggio aveva forse indotto qualche creatura invisibile a fuggire rumorosamente per rintanarsi più avanti nell’oscurità. A ben guardare, la foresta era il suo territorio e lui l’intruso. Eppure lui non si riteneva affatto un estraneo, al contrario, sentiva di far parte di quella meravigliosa opera della natura. Amava la foresta, i suoi alberi che svettavano verso il cielo come colonne di una cattedrale, il muschio che formava un tappeto lucente e morbido, ma più di tutto ne amava lo spirito. Con l’avanzare della notte sarebbe scesa una foschia che avrebbe infuso l’aura magica e un poco misteriosa che rendeva il luogo intimo nella sua immensità. Rudiano si avvolse meglio il mantello attorno alle spalle, affrettando il passo per raggiungere in fretta la radura che sapeva stendersi al di là della salita dove avrebbe trovato riparo nella grotta scavata da un fiume scomparso dalla notte dei tempi, le cui pareti di pietra ospitavano generazioni di ragni e formiche e le foglie morte che volavano qua e là portate dal vento, erano marcite fino a diventare polvere negli interstizi delle pietre.
Procedeva a zigzag tenendosi al riparo degli alberi, mantenendo come punto di riferimento Venere che, ancora sola al crepuscolo, presto sarebbe stata raggiunta dalle altre stelle. Dei segni sul terreno attirarono la sua attenzione e si accovacciò per esaminarli. Sapeva riconoscere le orme di tutti gli animali, ma quelle non appartenevano ad un legittimo abitante della foresta; erano impronte umane, ma singolarmente piccole e poco profonde, come se chi le aveva lasciate pesasse poco più di un bambino. Col palmo della mano sfiorò la leggera infossatura. Erano recenti. Ne seguì le tracce per un tratto; ma ad un certo punto si interruppero, sostituite dalle strisce irregolari di un ramo trascinato sul terreno, come se chi aveva camminato lì, avesse voluto cancellare i segni del suo passaggio. Si rialzò, controllò le ombre inquietanti gettate dai rami mossi dalla brezza e annusò l’aria impregnata dagli effluvi della foresta, ma nulla gli rivelò la vicinanza di una presenza umana.
Provò un leggero fremito di sollievo quando arrivò alla grotta; ad ogni buon conto tenne le orecchie tese, attento a cogliere il minimo movimento. Un’ombra si materializzò dietro la protuberanza della roccia; la figura tendeva l’arco in modo così maldestro che Rudiano non ebbe timore di essere colpito. Si avvicinò, fissandola con un’espressione che oscillava tra il disgusto e la pietà: il naso storto deturpava il viso incorniciato da ciuffi di capelli di un castano indefinito, flosci e sottili che lasciavano intravedere la cute della grossa testa tonda. Gli occhi grigi lo fissavano penetranti, ma non ostili. Nonostante l’ipostaturalità, emanava un’energia quasi palpabile. Per un po’ rimasero a fissarsi, tesi, poi l’ometto abbassò l’arco e con un gesto lo invitò ad andare verso di lui. Rudiano non ravvisò in quella richiesta alcuna intenzione bellicosa, pertanto gli si avvicinò. Stava sorridendo e un attimo dopo era piegato in due per un’esplosione di dolore all’inguine. Un calcio fulmineo lo aveva colpito ai testicoli. Il mostriciattolo l’aveva colto di sorpresa. Anche il secondo colpo arrivò inaspettato; una ginocchiata lo fece stramazzare a terra, dove rimase ad assaporare il sangue che fuoriusciva dal labbro spaccato. Lottando contro il dolore e il senso di nausea, provò a rimettersi in piedi,appoggiandosi alla parete della grotta.
«Che cosa ti ho fatto?» domandò in un soffio al suo aggressore che lo fissava con un mezzo sorriso e lo sguardo soddisfatto. Per tutta risposta ricevette un’alzata di spalle. A Rudiano girava la testa e sentiva di essere sul punto di vomitare. Si tastò il labbro tumefatto e chiuse gli occhi, in attesa che l’ondata di nausea si dissolvesse. L’ometto, intanto, aveva gettato l’arco a terra ed era scomparso, correndo a passettini veloci sulle gambette corte e arcuate. Ricomparve poco dopo reggendo un corno potorio colmo a metà di idromele e lo porse a Rudiano. Un sorso della terapeutica bevanda gli restituì un po’ di energia e il dolore lentamente si dissolse; persisteva il senso di fastidio all’imboccatura dello stomaco che combatté ingurgitando una corposa quantità di bevanda. Quando fu certo di potersi reggere sulle gambe, si staccò dalla roccia. Alzandosi sulla punta dei piedi l’omino gli tolse di mano il corno e strattonandolo per un braccio, lo trascinò all’interno della grotta dove il buio e il terreno sconnesso non favorivano un’andatura regolare. Ancora malfermo sulle gambe, Rudiano inciampava maldestramente nei propri piedi. L’aria era impregnata dell’odore di fumo e di selvaggina arrosto. Infatti, sopra un fascio di legna, infilzata in un ramo, una lepre stava lentamente arrostendo. Un pennacchio di scintille roventi accompagnato dallo sfrigolio del grasso che bruciava si levò nell’aria facendo trasalire il cane accucciato presso il fuoco. Con una spinta l’uomo mandò a ruzzolare il suo ospite accanto all’animale che indagò l’intruso con i suoi occhi acquosi e inespressivi, lo annusò per bene e, infine, con un brontolio soddisfatto gli si accucciò ai piedi mentre l’omino trafficava attorno al rudimentale spiedo. Rudiano accarezzò il testone abbandonato tra le zampe, per poi proseguire lungo la schiena. Sotto il pelo ruvido sentiva i muscoli dell’animale guizzare mentre seguiva ogni movimento dell’omino intento a sezionare la lepre arrostita. Un filo di saliva gli inumidiva le labbra, le narici si dilatavano e si contraevano ritmicamente. A fatica si sollevò sulle zampe e zoppicando si diresse verso l’uscita della caverna, preceduto dal nano che reggeva una ciotola contenente la testa e le interiora della lepre. Rudiano non si aspettava di essere invitato a condividere il suo pasto, ma l’uomo, quanto tornò, gli porse un’abbondante porzione di carne succosa e profumata di erbe selvatiche. Si sedette di fianco a lui e attaccò la sua razione. Mangiarono nel più assoluto silenzio, a parte il rumore delle mascelle. Poiché da quando si erano incontrati non era stata proferita parola, Rudiano si convinse che oltre a essere ipostaturale l’uomo fosse anche sordomuto, pertanto trasalì quando costui gli rivolse la parola.
«Come ti chiami?» domandò con una voce stentorea che mal si armonizzava con il suo fisico minuto.
«Rudiano» rispose, inghiottendo l’ultimo boccone di carne.
«Il mio nome è Medro» disse l’uomo, leccandosi la punta delle dita.
La conversazione finì lì. L’uomo si alzò e gettò nel fuoco gli ossi spolpati, vi buttò sopra una fascina di legna e nell’aria si diffuse un buon odore. Rudiano riconobbe immediatamente il profumo delle bacche di ginepro. Sempre senza proferire parola, Medro uscì dalla grotta. Non essendo stato invitato a seguirlo, Rudiano rimase accanto al fuoco. Pensò che dopo aver espletato i suoi bisogni fisiologici, l’uomo sarebbe rientrato e attese paziente. I familiari rumori notturni della foresta gli giungevano attutiti dalla nebbia; senza quasi rendersene conto si assopì, complici l’idromele e la stanchezza. Se durante il giorno riusciva a tenere sotto controllo l’ansia che lo divorava, di notte incubi terribili popolavano il suo sonno. Nelle orecchie sentiva ancora il grido angosciato della sua compagna quando aveva scoperto che il piccolo Bran era scomparso. Bran. Gli avevano imposto quel nome perché quand’era nato aveva un ciuffo di capelli neri e lucidi come le ali di un corvo.
L’avevano cercato ovunque, nelle capanne e nei villaggi vicini. Bran era un bambino vivace e curioso per i suoi tre anni, ma non si era mai allontanato troppo dalla loro capanna, né, tantomeno si era inoltrato in territori a lui sconosciuti come lo stagno prospiciente la loro capanna o la foresta. Fiduciosi, il primo giorno erano vissuti nella convinzione che lo avrebbero trovato mentre vagava nel bosco, al massimo un po’ sporco e spaventato, e prima del calar della notte sarebbe stato al sicuro nel suo letto. Mano a mano che le ore passavano, lui e la sua compagna Ura avevano però dovuto arrendersi alla realtà: di Bran non c’era traccia. Così erano rientrati alla capanna, prima confortevole, dove ora tutti gli oggetti sembrava sguazzassero fuori posto. Stretti l’uno all’altra avevano condiviso l’angoscia per il loro piccolo che era là fuori chissà dove al freddo. Al sorgere del sole, Rudiano aveva ripreso le ricerche; questa volta da solo. Ura era rimasta a casa; se mai qualcuno avesse trovato il bambino e l’avesse riportato, lei sarebbe stata lì ad attenderlo.
Correva nella foresta alla cieca, incurante dei rami che gli sferzavano il volto. Le notti seguivano i giorni e lui correva, correva senza fermarsi. Non sentiva né freddo né fame, né sonno, né dolore ai piedi sanguinanti, né arsura. Correva finché non inciampava in una pietra e cadeva sulle ginocchia e ben visibile tra le foglie che la ricoprivano leggeva il nome che vi era inciso “Bran”.
Col batticuore e la sensazione di sprofondare, Rudiano rotolò su un fianco, mentre le ultime tracce dell’incubo ancorano turbinavano nella sua testa. «Devo andare» disse, alzandosi. Il cane gli andò vicino e gli leccò la mano. In cambio ricevette una carezza sul muso e una grattatina sotto il mento. Soddisfatto, tornò ad accucciarsi nel suo angolo. Rudiano si sentì toccare una spalla e si voltò di scatto, pronto a difendersi. Dietro di lui Medro arretrò di un passo.
«Non ti ho sentito entrare» si scusò. Medro gli porse una ciotola contenete un liquido che sembrava latte. Rudiano la portò alle labbra: era veramente latte, tiepido, leggermente amarognolo, probabilmente appena munto. “Chissà come ha fatto a procurarselo” pensò. la risposta gli giunse da un formidabile belato proveniente dall’esterno della grotta. Con la sua andatura traballante, Medro trotterellò verso la capra, afferrò la corda rosicchiata e la condusse via.
Particelle di polvere illuminate dal sole vorticavano nell’aria. Rudiano le interpretò come un segno di buon auspicio. Dal suo angolo il cane seguiva ogni suo movimento e uggiolò contento quando, insieme a una carezza Rudiano gli mise davanti la ciotola ancora piena a metà di latte. I raggi del sole che entravano obliqui dall’apertura della grotta, incendiavano il pelo fulvo del cane e i rossi ricci di Rudiano accovacciato accanto a lui. L’effetto era stupefacente e sconvolse il povero Medro che, impietrito, osservava le due teste che quasi si sfioravano. Aveva sentito narrare di creature che vivevano nei boschi e parlavano il linguaggio degli animali, creature magiche che possedevano strani poteri, all’esistenza delle quali lui non aveva mai creduto. Ma ora il dubbio gli si era insinuato nella mente e poiché diffidava di tutto ciò che non riusciva a comprendere, brandì un ramo e si avvicinò minaccioso.
«Vattene!» urlò, rivolgendosi arcigno all’esterrefatto ospite.
Rudiano indietreggiò, la schiena appoggiata alla parete e lo sguardo fisso sul grosso ramo che il nano faceva roteare a pochi centimetri dal suo naso.
«Cos’ho fatto per farti arrabbiare?» domandò mentre, strisciando contro la roccia, una pietra traditrice rotolò sotto i suoi piedi e per poco non lo mandò a gambe all’aria.
«Niente, vattene! Via, fuori dalla mia grotta!» le sue parole rimbalzarono violente sulla pietra. Dal fondo si levò un suono profondo, sinistro, che catalizzò l’attenzione di entrambi; si voltarono all’unisono in direzione di quel rumore terrificante. Il cane, col pelo ritto, mostrava i denti minaccioso e un filo di schiuma biancastra ricopriva le gengive scoperte.
«Mi hai stregato il cane!» gridò il nano, avventandosi contro l’animale; ma Rudiano intuì le sue intenzioni, si mosse più velocemente di lui e con uno spintone lo mandò a ruzzolare lontano.
«Ma che ti è preso?» gli domandò, aiutandolo a rialzarsi, dopo aver prudentemente lanciato il ramo fuori dalla sua portata. «Hai mangiato l’erba matta?»
«Tu sei una creatura del bosco» bofonchiò a mo’ di spiegazione, massaggiandosi la coscia dolorante. «Parli con gli animali, sei una creatura magica.»
«Io cosa?» replicò Rudiano sconcertato.
«Ti ho visto, prima, parlavi con lui» insistette, indicando con l’indice deforme il cane che nel frattempo si era tranquillizzato e osservava guardingo i due umani. «Sei una creatura magica e io non voglio avere niente a che fare con te.»
«Se fossi veramente una creatura magica, come dici tu, saprei dove si trova mio figlio, invece sono due giorni che vago per la foresta a cercarlo!» rispose Rudiano, perdendo le staffe.
«Si è perso?» domandò il nano, con un repentino cambiamento di tono.
«Non credo, non si allontana mai troppo dalla capanna. Penso che qualcuno l’abbia portato via. È nato tre primavere fa’. Io e sua madre l’abbiamo cercato ovunque inutilmente. Non abbiamo trovato un’orma, un pezzo di stoffa, niente che ci aiutasse a trovarlo. Nessuno nei villaggi vicini l’ha visto, nessuno l’ha sentito piangere o chiamare la madre, eppure tutti lo conoscono. Temo che chi l’ha preso l’abbia fatto tacere …» Un brivido gli percorse la schiena e la voce gli si spezzò in gola.
«Non pensare al peggio» lo confortò Medro. «La dea protegge tutte le creature e in particolare i cuccioli. Forse non volevano portartelo via, magari una persona che lui conosce l’ha portato a fare una passeggiata e poi ha sbagliato sentiero e non è più stato capace di trovare la strada per riportarlo a casa.»
“Senza avvisare la madre?” pensò Rudiano, ma non lo disse; invece annuì, grato a quel piccolo strano uomo per le sue parole di consolazione, a cui non credeva, ma che in quel momento gli impedirono di sprofondare nell’abisso della disperazione.
«Sai cosa significa il mio nome, Medro?» domandò.
«Sì, vuol dire furbo.»
«Proprio così. Furbo. Ed io rendo onore al mio nome. La dea madre non è stata generosa con me; sono brutto, deforme. I monelli mi lanciano i sassi quando mi vedono e le mamme mettono le mani davanti agli occhi dei bambini perché non si spaventino. Ma la dea madre è giusta e mi ha donato questa.» Con un gesto eloquente si batté la mano sulla fronte. «Questa mi ha salvato non una ma mille volte. Anni fa’ al villaggio rubarono due agnellini. Nessuno aveva visto i ladri, ma tutto il villaggio non esitò ad accusare me del furto. Gli uomini mi presero e mi picchiarono. Volevano che dicessi dove avevo portato gli agnelli, ma io non lo sapevo, non li avevo mai visti. ma loro non mi credevano e quasi mi hanno ammazzato di botte. Capii che per salvarmi avevo solo una possibilità. Ingannarli. La dea madre mi illuminò la mente. Finsi di essere morto. Lasciai i vestiti sulla scogliera e fuggii nella foresta. Tutti pensarono che una Selkie fosse venuta a prendermi e mi avesse portato via con lei nel mare. Lasciai che la luna facesse il suo corso e una notte tornai al villaggio. Stavo rubando un paio di pesci appesi a seccare, quando un pescatore si svegliò e corse verso di me con un bastone in mano. Pensai che sarei morto davvero: non riuscivo a muovermi tanto mi tremavano le gambe. Ma quando l’uomo fu a pochi passi da me, si fermò di colpo, lasciò cadere il bastone e fuggì veloce come un coniglio selvatico.»
«Ti ha creduto uno spirito.»
«Già; e il giorno dopo tutto il villaggio sapeva che lo spirito di Medro non aveva attraversato le magiche nebbie ma ancora vagava senza pace nel medio mondo.» Un sorriso gli allargò la bocca esageratamente grande e gli occhietti brillavano maliziosi. «Così quando ero stufo di mangiare bacche, erbe e carne di scoiattolo, andavo al villaggio a trovare i pescatori che per placare il mio spirito conservavano per me il pesce migliore. Che stolti!»
«E tu non ti sei fatto scrupoli ad approfittare della loro stupidità.»
Medro scrollò le spalle: «Che colpa ne ho io se loro erano degli sciocchi creduloni!»
Rudiano si congedò: «La dea madre ti protegga e ti ricompensi per il cibo che hai diviso con me e per il riparo che mi hai dato per la notte.»
«Dove hai in mente di andare?» domandò perplesso.
«Alla scogliera. Potrebbe essere in una delle grotte.»
«Ma la maggior parte di quelle grotte viene sommersa all’alta marea.» affermò Medro, grattandosi il mento.
Rudiano rabbrividì; immaginò Bran annaspare nell’acqua e il pensiero gli fece tornare la rabbia, tanta rabbia,e per mantenere il controllo dovette stringere i pugni con tutte le sue forze.
«Conosco una scorciatoia, prima che il sole sia alto saremo arrivati e avremo il tempo di cercare il bambino» sentenziò Medro. Da un sacco prese della frutta secca e riempì di acqua una piccola zucca essiccata che appese al collo con una cordicella e guidò Rudiano lungo un sentiero che si inoltrava nel fitto del bosco. I richiami degli uccelli si dilatavano nell’aria profumata di resina ancora umida della notte, mentre i fruscii tra i cespugli stavano ad indicare che gli abitanti della foresta erano usciti dalle loro tane alla ricerca di cibo. Medro camminava davanti, le sue gambette si muovevano veloci. A tratti i raggi del sole riuscivano a penetrare tra i rami e disegnavano pozze di luce sul terreno, facendo luccicare le ragnatele appese ai rami simili a finissime trine. Camminarono per un buon tratto, mantenendo un’andatura sostenuta. Giunsero a un piccolo terrapieno che qualcuno aveva rinforzato con dei sassi, al di là del quale si apriva una distesa di erbacce, punteggiata di massi. In lontananza si scorgevano le scogliere e già si sentivano le grida dei gabbiani portate dal vento. Medro si lasciò cadere su una pietra e si deterse il sudore dalla fronte con la manica della casacca. Era rosso in volto, ansimava e il respiro gli usciva dai polmoni con un leggero sibilo. Rudiano gli sedette a fianco. Medro estrasse dal sacco qualche noce e gliela offrì. Con una pietra ne schiacciarono i gusci e mangiarono in silenzio.
Ora che erano usciti dalla foresta, Rudiano diede voce ad un dubbio che lo tormentava da un po’.
«E se Bran fosse stato rapito dal Piccolo Popolo? Le loro tane sono inaccessibili agli umani; le loro arti magiche sono potenti.»
«Il Piccolo Popolo non rapisce i cuccioli degli umani, al più prende piccoli animali, ma solo per curarli se sono ammalati, feriti o se sono stati abbandonati dalle madri» rispose Medro.
«Hai mai incontrato un abitante del Piccolo Popolo da quando vivi nella foresta?» domandò interessato.
«Loro si tengono lontani dagli umani, non perché li temano, ma perché puzziamo troppo. Non li ho mai visti, ma mi hanno aiutato a sopravvivere. Quando mi nascosi nella foresta, non conoscevo né gli alberi né gli arbusti che vi crescevano e se avevo fame mangiavo quello che mi capitava a tiro; così qualche volta mi capitava di torcermi dal mal di pancia per aver mangiato delle bacche tossiche. Loro sentivano i miei lamenti e mi facevano trovare delle foglie che mi facevano passare il dolore o delle bacche buone da mangiare. In cambio io lasciavo dei ciuffi di pelo di scoiattolo o di coniglio che trovavo attaccati ai tronchi o delle piume per le loro tane. Mentre dormivo, venivano e raccoglievano tutto.»
Rifocillati, ripresero il viaggio. Si inerpicarono sulle ripide scogliere; non era facile mantenere l’equilibrio sulle pietre scivolose. Un passo falso e sarebbero precipitati. Le grida dei gabbiani ora erano assordanti e confondevano la mente. Sotto di loro il mare mugghiava minaccioso. Perlustrarono ogni grotta, ogni anfratto, anche il più piccolo; Rudiano gridò il nome del figlio fino a perdere la voce, ma di Bran non trovarono traccia. Risalirono lungo la scogliera; la marea si stava alzando velocemente e folate improvvise di vento rendevano ancora più ardua la risalita. Medro, favorito dalla bassa statura e dalla conoscenza millimetrica del terreno, procedeva spedito. Rudiano, al contrario, si teneva rasente la parete rocciosa per proteggersi dal vento e spesso le vertigini lo costringevano a fermarsi. Un paio di volte aveva messo un piede in fallo ed era caduto bocconi. Mentre una gragnola di piccole pietre precipitava in mare, si era aggrappato ad uno spuntone di roccia, ferendosi le mani. Imprecando, si era rialzato, col cuore che gli martellava nel petto. Alla fine del sentiero, si lasciarono scivolare lungo un pendio erboso. In lontananza la collina del Tor spiccava verde sotto il cielo azzurro, stranamente sgombro di nuvole e il sentiero che dalla base arrivava fino alla sommità dell’altura spiccava come un nastro bianco sull’abito di una sposa. Stanchi e frustrati, si sedettero sull’erba umida. Medro porse al compagno la zucca e con un gesto lo invitò a bere. L’acqua fredda gli stimolò la vescica. Restituì la zucca e si diresse verso un gruppo di alberi. Doveva esserci un ruscello nei dintorni, perché sentiva il rumore dell’acqua e poiché erano presso il Tor, sicuramente alimentava una fonte sacra. Improvvisamente il vento cambiò direzione e un sentore rivoltante di carne putrefatta arrivò a zaffate. Respirando profondamente, Rudiano riuscì a controllare un rigurgito. Tornò velocemente verso il pendio dove Medro l’attendeva, disteso sull’erba.
«Deve esserci un animale morto laggiù; c’è un puzzo insopportabile!» lo informò.
Medro si alzò di scatto. «Andiamo a vedere» disse allarmato. «L’acqua del ruscello alimenta il pozzo del villaggio; Se un animale morto c’è caduto dentro può avvelenare le persone e il bestiame.»
Aggirarono il boschetto e raggiunsero un torrentello non troppo profondo, tanto che si potevano vedere i sassi sotto la superficie dell’acqua limpida. Buffe gallinelle d’acqua becchettavano tra le canne. Attraversarono un traballante ponticello di assi mezze marce e giunsero sulla riva opposta. Lì l’odore era intollerabile. Rudiano provò a respirare con la bocca, col risultato che oltre che nel naso, l’odore gli scese anche in gola e il suo stomaco si attorcigliò dolorosamente. Riprese a respirare col naso; gli occhi gli si riempirono di lacrime e a malapena intravide Medro che scendeva di corsa lungo la sponda.
«La carcassa di una capra o di un cervo sarà rimasta impigliata tra le pietre e i rami» disse, mentre scivolava sul fango della riva, tenendosi agli sterpi. Si sporse e vide galleggiare sotto il ponte il corpo di una donna. Aiutandosi con una canna, Medro lo trascinò sotto la riva e lo voltò. Rudiano soffocò un grido e corse dietro un cespuglio a vomitare bile.
La nebbia stava cominciando a calare. Era densa e umida e rendeva il sentiero scivoloso. Ritrovare la strada di casa fu un’impresa. In breve, da un leggero velo bianco la nebbia divenne un drappo grigio così spesso che riuscivano a malapena a vedere la punta dei propri piedi. Fecero il cammino per lo più in silenzio; di tanto in tanto Medro posava una mano sulla spalla del compagno. Rudiano arrivò al villaggio a notte fonda. Era certo che Ura l’avesse aspettato alzata. Infatti la trovò rannicchiata davanti al focolare. Era sfinito; la sua vita era diventata un disastro, e lo sguardo che gli rivolse Ura ne fu un’ulteriore conferma, se mai fosse stata necessaria. Doveva rimettere insieme i pezzi ed era consapevole che gran parte del fardello ricadeva sulle sue spalle.
Durante la lunga notte lui e Ura rimasero abbracciati accanto al fuoco. Nel buio la sentiva singhiozzare e la stringeva più forte a sé, più che altro per trarre conforto dal calore del suo corpo; niente l’avrebbe consolata, se non il ritorno di Bran. Si ritrovò a pensare alle parole ‘Il pianto durava tutta la notte, ma al mattino diventava gioia’. Dove le aveva sentite? Ah sì, ricordò, da quell’uomo che si era fermato al villaggio l’estate precedente; un seguace di Giuseppe d’Arimatea. Parlava di un uomo risorto dalla morte per salvare gli uomini e faceva cose straordinarie. Miracoli, li aveva chiamati. A lui serviva proprio uno di quei miracoli. Guardò Ura che si agitava nel sonno. Si alzò appena spuntata l’alba e col cuore pesante uscì dalla capanna. C’era un’atmosfera strana; era una mattina serena e il sole illuminava con la sua luce dorata i prati e le pecore che brucavano in lontananza. Non doveva lasciarsi prendere dal panico, si ripeteva mentre si inoltrava nella foresta, dove il sole non era ancora penetrato e nuvole di nebbia si allargavano e si addensavano, come se respirassero.
Trovò Medro che dormiva, o fingeva di dormire, sul giaciglio che divideva col cane in fondo alla grotta. «Ti ho portato un po’ del formaggio e delle focacce che ha fatto Ura, e un po’ di vino» disse, togliendo il fagotto dal sacco che aveva appoggiato ai suoi piedi. Medro lo prese e sciolse i nodi. «Buono» affermò, addentando una formella bianca.
«Come sta?» domandò, invitandolo a sedersi accanto a lui.
«Non parla, non mangia, non piange nemmeno più. Questa notte, quando sono entrato nella capanna senza il bambino, mi ha guardato in un modo … e poi è tornata nel suo angolo, senza una parola.» rispose avvilito.
«Non le hai detto di …» domandò Medro.
Rudiano scosse il capo: «È già abbastanza sconvolta.»
«Però tu sai chi è.» Non era una domanda e nemmeno un’accusa, ma Medro aveva intuito la verità quando Rudiano, con dita gentili, aveva scostato dalla fronte della donna una ciocca di capelli incrostati di fango.
Rudiano annuì: «È Lovania, la sorella di latte di Ura. Sono cresciute insieme, sono state inseparabili finché non sono arrivati i Romani e Lovania si è innamorata di un soldato. Una notte è fuggita dal villaggio ed è andata a stare nella sua tenda, tra i Romani. Nei primi tempi ogni tanto tornava di nascosto, si incontrava con Ura in una radura nel bosco e le raccontava della sua vita, delle feste, degli abiti e dei monili che lui le regalava. Era felice, innamorata e … cieca. Quando il suo soldato si stancò di lei la vendette ad un altro, come schiava. Una notte bussò alla porta della capanna; faticai a riconoscerla tanto era malconcia, cenciosa e piena di lividi. Ci chiese di nasconderla; non voleva tornare dai Romani. Ci raccontò cosa la costringevano a fare.» Si passò una mano sugli occhi, come volesse allontanare la visione di quel ricordo, poi proseguì: «ma al mattino arrivarono i soldati e la trascinarono via. Da allora non abbiamo saputo più niente di lei.»
«Avrà cercato di fuggire di nuovo» ipotizzò Medro. «Poveretta!»
«Devo andare a prenderla» disse Rudiano. «Non posso lasciare che il suo corpo diventi cibo per gli animali della foresta; ha già subito troppi oltraggi. E poi, qualcuno potrebbe vederlo, e non voglio che Ura sappia che fine ha fatto.»
«Il suo corpo è sepolto nella foresta. Nessuno la troverà. Solo io conosco quel posto» gli confidò Medro.
«Tu … hai sepolto Lovania. Come hai fatto a portarlo nella foresta?» La domanda era più che lecita, e anche l’incredulità e lo stupore che si leggevano nei suoi occhi. Per quanto fosse leggera, Lovania era un peso spropositato per il piccolo uomo.
«Con quella» spiegò Medro, indicando una rudimentale barella di pelli e rami. «Ho avvolto il corpo in un telo e l’ho sepolto in una fossa. Non mi sono fidato ad accendere i fuochi sacri, troppo pericoloso; ma attraverserà le sacre nebbie e andrà dalla dea madre perché anche se era diventata romana, portava questo al collo» affermò, porgendo a Rudiano un piccolo ciondolo. Era una piccola falce intagliata nel legno. Rudiano lo prese e lo accarezzò e se lo portò alle labbra, deponendovi un tenero bacio.
«Ne avevo fatte due, una per lei e una per Ura» raccontò, con la voce arrochita dalla commozione. «Erano ancora due bambine. Si avvicinava la festa di Samaine e le sacerdotesse andavano a tagliare il vischio con i loro falcetti d’oro. Ne volevano uno anche loro e così le accontentai. Non credevo l’avesse conservata.»
«Lei è con la dea adesso, non ha più bisogno di noi, invece tuo figlio ha bisogno di noi.»
«Non so più dove cercarlo, Medro» confessò Rudiano. «Non voglio pensare al peggio, ma a questo punto … »
«Conosco qualcuno che può aiutarci» disse Medro «ma devi promettere solennemente davanti alla fonte sacra che manterrai il segreto su quello che vedrai o sentirai.»
Avrebbe promesso qualunque cosa, naturalmente, ma Medro lo bloccò con un gesto perentorio: «No, taci! Alla sacra fonte.»
La sacra fonte era una polla d’acqua ai piedi della collina del Tor. Rudiano si inginocchiò sul tappeto di muschio e pronunciò la formula della promessa solenne. Quindi Medro lo guidò in una parte della foresta sconosciuta a Rudiano. Non c’era un sentiero, ma Medro camminava sicuro tra gli alberi tanto fitti che nascondevano il cielo. Non ci volle molto a Rudiano per perdere l’orientamento; con un brivido, pensò che se si fosse inoltrato da solo in quell’inestricabile groviglio di arbusti non sarebbe stato in grado di uscirne. C’era un silenzio irreale; nemmeno gli uccelli o gli animali selvatici osavano avventurarsi un quel luogo senza luce e freddo. L’aria carica di umidità rendeva faticoso il cammino e Rudiano arrancava col fiatone, attento a non perdere di vista Medro.
«Aspetta qui» disse ad un certo punto il nano, posandogli una mano sul petto.
«Non vorrai lasciarmi qui da solo!» protestò Rudiano, mentre il panico si impossessava di lui; ma Medro era già scomparso nel folto del bosco. Sfinito, si lasciò cadere ai piedi di un albero e sciolse in un pianto liberatorio tutto il dolore accumulato.
Medro, silenzioso come un gatto, si fermò poco distante ad osservare con occhi colmi di compassione, le spalle dell’amico che sussultavano scosse dai singhiozzi. Quindi gli si avvicinò: «Bevi» lo esortò, porgendogli una ciotola piena di un decotto fumante. Rudiano prese la ciotola e ne annusò il contenuto; profumava di erbe e di miele, ma ancora non si arrischiava a berlo. Veleno? Una pozione magica che procurava allucinazioni? Anche se non aveva rivelato i suoi dubbi a voce, i suoi occhi parlavano chiaramente.
«Bevi!» ripeté Medro, questa volta con un tono perentorio.
Rudiano esitò ancora un attimo, indeciso se bere l’intruglio o rovesciarlo nell’erba. Chiuse gli occhi e ingollò in un colpo solo tutto il contenuto della ciotola, scottandosi la lingua. Con una smorfia di dolore, restituì la ciotola vuota a Medro.
«Adesso alzati e vieni dietro a me» gli ingiunse il nano.
Per tutto il percorso Rudiano si concentrò su sé stesso, ma per quanto si sforzasse non notò alcun mutamento; non sentiva formicolii sospetti e la sua mente era lucida e presente. Arrivarono ad un grande arco ombreggiato da alberi secolari. Il posto era solenne, misterioso, inquietante. I sempreverdi avevano raggiunto dimensioni gigantesche e l’edera e gli altri rampicanti avevano invaso ogni superficie e il sottobosco era un groviglio inestricabile. Il cuore di Rudiano cominciò a battere più veloce, mentre passavano sotto l’arco sommerso da un denso fogliame. E nemmeno riuscì a trattenere un ‘Ohhh!’ di meraviglia davanti al tappeto di bocche di leone e di primule che si stendeva al di là del portale. Era un posto affascinante, scompigliato dal vento; in lontananza muretti a secco, carichi di mistero e senza tempo dividevano i pascoli.
«Dove siamo?» domandò a Medro. La sua voce risuonò innaturalmente calma. Si trovava in una specie di limbo; non provava né timore né smarrimento. Medro lo condusse all’ingresso di una capanna il cui tetto, ricoperto di muschio e di erica si confondeva con l’ambiente circostante. Senza annunciare la loro presenza, Medro aprì la pesante porta ed entrò. Seduta accanto ad un braciere stava una donna, una bella donna, alta, con spalle larghe e lunghi capelli neri che, illuminati dai raggi del sole che filtravano dalla finestra, brillavano come le ali di un corvo. Sulla fronte aveva tatuata la mezza luna delle sacerdotesse. Rudiano si sentì all’improvviso inerme e vulnerabile. Seguendo l’esempio di Medro, si accovacciò di fronte a lei e tenne il capo chino. L’aria era satura di profumi che gli facevano girare la testa. La donna si alzò e andò a prendere un bacile pieno di acqua che posò sopra il braciere. Con movimenti lenti si inginocchiò e, invocando la dea, gettò nell’acqua una manciata di petali secchi. L’acqua cominciò ad incresparsi, come agitata dal vento. La donna pose i palmi delle mani sopra il bacile e recitò una breve preghiera; quindi, rivolgendosi a Medro, gli domandò cosa doveva chiedere alla dea. Costui fece la sua richiesta usando una lingua che Rudiano non aveva mai sentito; l’unica parola che comprese fu il nome di suo figlio: Bran. La donna si chinò sopra il bacile; i suoi capelli formarono una serica tenda tutt’attorno e le sue invocazioni erano un’ipnotica nenia sussurrata. All’improvviso furono investiti da una folata di aria gelida. Rudiano sobbalzò. Era un cattivo presagio? La donna alzò il capo; l’acqua nel bacile aveva ripreso la sua normale immobilità.
«Ho visto un bambino» annunciò. «È vivo. C’era tanto rumore; gente che ride e che canta. Non è molto lontano perché la sua immagine è nitida e posso udire la sua voce, anche se le parole mi giungono confuse.» Detto questo, si alzò, prese il bacile e andò a sedersi in un angolo in fondo alla stanza, volgendo le spalle ai suoi visitatori. Rudiano aprì la bocca per ringraziarla, ma Medro con un gesto gli intimò di tacere e lo guidò verso l’uscita.
Fecero il ritorno in silenzio; Medro procedeva davanti al compagno e, nella luce fioca del crepuscolo sembrava una creatura dei boschi. Giunsero alla grotta che era buio pesto; furono accolti dal penoso belato della capra e dal rauco abbaiare del cane. Mentre Rudiano accendeva il fuoco, Medro andò a liberare la capra dal doloroso fardello del latte.
«Dove pensi che sia?» domandò Rudiano.
«Ha detto che c'era gente che rideva e cantava» rispose Medro, sorseggiando meditabondo il latte appena munto. «E ha detto che non è lontano; può essere l'accampamento della guarnigione romana. Finisci il tuo latte. Ci andremo domani.»
Laggiù le colline erano piuttosto basse; presto si trovarono su un ampio pianoro. Medro si sentiva a disagio senza gli alberi della foresta che lo circondavano; gli pareva di essere troppo visibile e continuava a guardarsi attorno con inquietudine.
«Che cos'hai?» domandò Rudiano.
«Mi sento a disagio fuori dalla foresta» ammise. «Mi sento vulnerabile.»
«Hai paura?»
«Non ho paura, mi sento esposto, ecco. E non mi piace, non mi piace per niente» rispose imbarazzato.
Anche Rudiano provava la stessa sensazione; sollevò gli occhi al cielo, quasi temesse che qualche uccello da preda piombasse su di loro. Ai limiti del suo campo visivo volava un puntino scuro, un falco probabilmente in cerca di una preda.
Arrivarono in vista dell'accampamento al tramonto. I fuochi erano già accesi e si sentiva l'eco di grida e risate. Al centro spiccava il grande padiglione con lo stendardo romano. Al riparo di uno sperone di roccia osservavano la guarnigione che si preparava per la notte; i cavalli erano radunati nei recinti e gruppi di uomini bighellonavano per il campo bevendo e scambiandosi pacche sulle spalle. Le sentinelle perlustravano il perimetro del campo.
«Tu resta qui, io vado giù» disse Medro.
Rudiano aprì la bocca per protestare, ma Medro stava già correndo lungo il pendio. Come facesse ad essere tanto veloce con quelle gambe corte restava un mistero.
«La dea ti protegga» mormorò.
Mano a mano che la notte avanzava l'aria si faceva più pungente e una striscia di bruma azzurrina si era alzata sopra la pianura. La luna piena brillava nel cielo nero. Rudiano si avvolse il mantello stretto attorno alle spalle; si sentiva a pezzi e la testa gli pulsava dolorosamente. Chiuse gli occhi e si addormentò.
Correva nella foresta buia e fredda; gli alberi gli venivano incontro giganteschi e maligni. Un vento gelido che gli tagliava il respiro ululava, confondendosi con il pianto di Bran. Correva, correva urlando il suo nome, inciampando nelle radici, facendosi strada tra i cespugli che gli graffiavano il volto. Sentì un dolore lancinante al petto, poi si sentì cadere …con un urlo precipitò.
«Rudiano,Rudiano, Svegliati!»
Aprì gli occhi; Medro lo stava scrollando energicamente e lo fissava con aria preoccupata. Lentamente Rudiano tornò alla realtà.
«Perché urlavi?» domandò.
«Un brutto sogno» si giustificò, abbassando lo sguardo mortificato. Aveva la gola secca e un dolore sordo al petto, come se veramente avesse corso per ore nella foresta. Medro gli sedette accanto.
«Ho parlato con una delle sentinelle» iniziò a raccontare. «È un mio amico perché una volta nella foresta … ma è una storia lunga. Allora, lui mi ha confidato che qualche giorno fa', passando per caso vicino alla tenda del suo superiore ha udito una strana conversazione tra lui e un ricco romano che abita in una villa fuori le mura di Dintagel. Stavano contrattando il prezzo di una schiava che apparteneva al soldato. Il soldato voleva venderla perché aveva perso una forte somma al gioco e aveva urgente bisogno di soldi. Il romano però, anche se è un riccone, diceva che pretendeva troppo; per quella cifra voleva una schiava con un figlio maschio che lui avrebbe allevato come suo per crescerlo come un soldato. Aveva già tre femmine e non voleva rischiare di metterne al mondo una quarta. Il soldato gli disse di avere quello che desiderava perché la sua schiava aveva una sorella con un bambino piccolo e lui sapeva come convincerla a farle fare ciò che voleva. Il romano disse che se stavano così le cose, avrebbe pagato la somma richiesta. Poi hanno bevuto e dopo un po' in romano è uscito dalla tenda.» Medro rimase in silenzio per dare a Rudiano il tempo di meditare sulle sue parole.
Non ci volle molto.
«Il soldato vende Lovania al romano; lei prende Bran e lo porta con sé. Ma lei ci vuole bene perché ce lo porta via?»
«O il soldato l'ha minacciata o le ha promesso qualcosa di molto prezioso, a cui non ha saputo rinunciare. Qual è la cosa che uno schiavo desidera di più?»
«La libertà» rispose Rudiano senza esitazione. «Che la dea abbia pietà di lei.»
Tornarono nella foresta in un silenzio greve; la mente di Rudiano lavorava febbrilmente per trovare il modo di riportare a casa suo figlio. Medro gli aveva proposto di andare alla casa del romano, ma a cosa sarebbe servito? Lui non aveva niente da offrirgli in cambio del bambino. Volse gli occhi al cielo; la luna piena brillava fredda e muta. «Perché la dea è tanto adirata con me?» si domandò. Dalla collina sacra arrivava l'eco di bodran e di flauti; era la notte di Beltane e il riverbero dei fuochi sacri illuminavano il cielo. Sarebbe stata un'altra notte senza sonno e non aveva voglia di tornare alla capanna né di affrontare il dolore negli occhi di Ura. Si incamminò verso la collina in mezzo alla brughiera. All'improvviso scorse una figura femminile che camminava nell'erica incurante del vento. La seguì da lontano. «È la dea» pensò. «Ha ascoltato le mie preghiere e mi condurrà da Bran.» Ad un certo punto la figura si fermò e si guardò attorno; il suo viso venne illuminato dalla luna: a Rudiano mancò il respiro. Ura. Cosa ci faceva Ura in mezzo alla brughiera in piena notte? Si mise a correre. «Ura! Ura!» chiamò. Ma la donna parve non udirlo e continuò a camminare. Rudiano la raggiunse e la superò parandolesi davanti. «Ura, dove stai andando? Perché sei qui fuori di notte?» domandò.
Per la prima volta da quando Bran era scomparso Ura parlò.
«Bran è qui. L'ho sentito, mi chiamava.»
«No,» la contraddisse Rudiano. «È il vento.»
«Era Bran» insistette Ura. «Sono sicura, era lui. Piangeva e mi chiamava.»
Rudiano l'abbracciò; sotto la tunica sentì la sua pelle fredda, i muscoli rigidi. La tenne stretta per trasmetterle un po' di calore. Pregò la dea che il gelo non le avesse invaso anche la mente. «Torniamo a casa» le mormorò dolcemente.
A quelle parole Ura si divincolò e iniziò a tempestargli i petto di pugni. «Devo andare da Bran! Bran è qui, devo trovarlo! Mi chiamava, l'ho sentito!» gridò, fissandolo con occhi fiammeggianti di rabbia e di dolore. Rudiano le bloccò i polsi e la scosse con violenza. «Bran non è qui! L'ha portato via Lovania e l'ha venduto a un romano!» gridò esasperato. Ura gli sputò in faccia e si divincolò con una tale forza che Rudiano barcollò. Ura corse via e scomparve inghiottita dalla notte. Un banco di nuvole nere avevano oscurato la luna.
Profondamente frustrato, Rudiano riprese il cammino verso la foresta; sarebbe andato da Medro, l'unico che gli era rimasto vicino. Entrò nella grotta senza fare rumore; era notte fonda e non voleva svegliarlo. Venne accolto dal mugolio del cane che aveva riconosciuto il suo passo e gli stava venendo incontro. Di Medro, però, non vi era traccia. Si chinò ad accarezzare il muso dell'animale. «Tu sai dov'è Medro?» gli domandò. Il cane si sottrasse alle sue carezze e si avviò all'uscita della grotta. Si fermò, in attesa, e prese ad abbaiare finché Rudiano non lo raggiunse. Quindi si girò verso il sentiero che il giorno prima aveva percorso con Medro e che conduceva alla capanna della veggente e abbaiò di nuovo. «È andato da quella parte?» domandò. Il cane abbaiò. Rudiano annuì e si chinò ad accarezzare il muso dell'animale.
Aveva percorso qualche metro, quando una lepre gli attraversò la strada. Si fermò poco distante davanti a lui e lo guardò con i suoi occhietti furbi. Poi, abbandonò il sentiero e si inoltrò nella brughiera. «È un segno della dea» pensò Rudiano, ricordando la storia della regina Boudicca. Le nubi che avevano oscurato la luna erano state trascinate vie dal vento e la sua luce, ora, illuminava il suo cammino. E poi lo vide. Medro stava spostando delle zolle d'erba . Rudiano si acquattò tra i cespugli e rimase ad osservarlo. Il nano sollevò delle assi e scomparve in una buca del terreno. Rudiano uscì dal suo nascondiglio e, strisciando, raggiunse il posto dove Medro era scomparso. Fu allora che lo udì. Bran piangeva e chiamava la mamma. Sentiva anche la voce di Medro, ne percepiva il tono irato, ma non riusciva a distinguere le parole. Se l'istinto gli diceva di scendere a prendere il bambino, la ragione che gli consigliava di attendere che Medro se ne andasse. Ascoltò la voce della ragione e tornò al suo nascondiglio, in attesa. Trascorsero pochi minuti, ma a Rudiano parvero un'eternità. Medro finalmente uscì, rimise le assi a posto e le ricoprì con l'erba. Mentre gli passava accanto lo udì canticchiare «Medro è furbo e domani sarà ricco», una cantilena che si perse nell'aria, quando fu lontano. Allora corse alla buca e con gesti frenetici spostò le assi e scese in quello che sembrava un pozzo. Bran era seduto nel fango, al buio e piangeva. Rudiano lo prese in braccio e risalì faticosamente, facendo attenzione a non scivolare, mettendo i piedi nei buchi che fungevano da gradini. La luna piena era proprio sopra di loro e illuminava il visetto sporco di fango del piccolo. Sedette il bambino sull'erba e fu allora che dalla brughiera emerse, correndo, Ura. Per un lungo momento rimasero tutti e tre abbracciati, piangendo, soffocando di baci il loro piccolo corvo. Prima di tornare verso casa, Rudiano rimise a posto le assi e le ricoprì accuratamente con l'erba. La notizia del ritrovamento di Bran si sparse in un battibaleno; nel giro di poche ore nel villaggio e in quelli vicini tutti sapevano che Lovania aveva rapito il bambino, che Medro aveva ucciso la ragazza e preso il bambino per venderlo a un ricco romano.
Medro uscì dalla grotta, portando con sé la zucca colma di latte. Sarebbe stata l'ultima volta che si sobbarcava quella sfacchinata; finalmente aveva raggiunto un accordo sul prezzo con quel tirchio di romano. La notte era stranamente buia; un cerchio nero oscurava la luna di cui si vedeva solo la corona. «La luna è vuota, stanotte» disse tra sé. Una civetta lanciò il suo grido agghiacciante. Medro accelerò il passo. Sebbene i cespugli di erica fossero più alti di lui e lo nascondessero, si sentiva in pericolo. Prese a correre più veloce che poté ed era ansante e sudato quando le donne lo accerchiarono. Come spiriti erano apparse all'improvviso dai cespugli. Lo trascinarono nella radura. Le sue urla si dispersero nella brughiera. Quando tornò il silenzio, i suoi occhi vitrei fissavano per l'ultima volta la luna vuota.
Maria Lacchio
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