«Su, svegliati!» disse mia nonna accendendo d'abat-jour e posando la scodella di caffelatte bollente sul comodino. «Stanotte è venuta giù un po' di neve e probabilmente la corriera non arriverà. Devi andare a scuola a piedi. Sbrigati!» concluse, uscendo dalla stanza e lasciandomi sola a combattere contro il desiderio di restare sotto le coperte e continuare a dormire. Mi tirai su a sedere e presi la scodella dove i grissini si stavano gonfiando e in parte spappolando nel liquido bollente. Vi affondai il cucchiaio, mescolando quella poltiglia da cui estrassi una colata di zucchero. Detestavo lo zucchero nel caffelatte, ma la nonna era irremovibile. "Lo zucchero fa bene e dà energia" affermava. Ormai ero rassegnata e nemmeno protestavo più e mangiavo.
Non quella mattina.
Posai la scodella sul comodino e mi trascinai in bagno con il fagotto degli indumenti. Non avevo voglia di andare a scuola, ma solo di ficcare la testa sotto il cuscino e lasciare che quella giornata passasse.
«Allora, vuoi sbrigarti a uscire da quel bagno!» gridò la nonna dalla cucina.
«Arrivo, arrivo!» gridai di rimando. Mi vestii in fretta; un colpo di spazzola ai capelli. Gli occhi mi bruciavano ancora e lo specchio mi confermò che effettivamente erano congestionati e due occhiaie gonfie come canotti non mi permettevano di aprirli completamente. Ma non me ne importava.
Non quella mattina.
Tornai in camera, presi il cappotto, infilai guanti e berretto e afferrai la cartella, senza nemmeno controllarne il contenuto.
«Ciao, io vado» salutai la nonna, defilandomi.
«Ma non hai fatto colazione!» mi apostrofò, affacciandosi alla porta della cucina.
«Non ne avevo voglia. È tardi, devo andare» risposi, ormai fuori dalla porta.
Sapevo che il mio comportamento al limite della maleducazione, l'aveva offesa; le avrei chiesto scusa.
Non quella mattina.
Era buio e l'aria gelida pungeva la pelle del viso come tanti aghi di ghiaccio, facendo lacrimare gli occhi. Meglio così. Aveva smesso di nevicare, ma quella scesa durante la notte era diventata una lastra di ghiaccio, trasformando la strada in un nastro bianco. Solitamente percorrevo il primo tratto quasi di corsa per raggiungere l'amica che mi attendeva oltre la curva. Quella mattina, al contrario, rallentai il passo per ritardare il nostro incontro; anzi sperai che fosse ammalata e non venisse a scuola. Milena, la mia migliore amica, prima di quattro fratelli, approfittava di quel tratto di strada per confidarmi i suoi progetti per il futuro o per raccontarmi le marachelle dei suoi fratellini a cui peraltro era affezionatissima.
Non quella mattina.
Ci salutammo con un 'ciao' appena mormorato e, in silenzio, camminammo fianco a fianco, lo sguardo fisso sulla strada, fino alla fermata della corriera dove già sostava un gruppetto di adulti, operai e operaie imbacuccati nei loro pesanti cappotti, che lavoravano nelle fabbriche in città. Più in là i ragazzini che frequentavano le scuole elementari in un istituto privato scalciavano svogliatamente la neve con la punta degli stivaletti. Regnava un silenzio pesante e grigio come il cielo carico di neve. L'attesa della corriera si prolungava; entro pochi minuti avremmo dovuto deciderci ad incamminarci. Almeno ci saremmo scaldati camminando. Per noi erano gioco quei quattro chilometri di strada; lanci di palle di neve e scivolate sulla neve tra grida e risate.
Non quella mattina.
L'inconfondibile suono del clacson della corriera ne annunciò l'imminente arrivo. Il fumo nero, untuoso e puzzolente che fuorusciva dal tubo di scappamento era sempre motivo di animate proteste e colpi di tosse.
Non quella mattina.
Non ci furono discussioni. Ordinatamente ci mettemmo in fila e salimmo in silenzio mostrando all'autista i documenti di viaggio che salutò ciascun passeggero con un cenno del capo. Prima di ripartire l'autista controllò nello specchietto retrovisore i posti in fondo, di solito occupati dal gruppo di bulletti che si divertivano a dar fastidio agli altri passeggeri e che regolarmente minacciava di scaraventare giù dal mezzo se diventavano troppo fastidiosi.
Non quella mattina.
Milena, seduta vicino al finestrino, guardava fuori. Io presi il libro di latino e diedi una scorsa alla lezione che avrei dovuto studiare per il compito in classe.
I passeggeri scendevano e salivano alle fermate, salutandosi sottovoce.
La corriera ci depositò davanti al cortile della scuola dove già si erano formate le file di studenti pronte ad entrare e raggiungere le rispettive aule. Suonò la prima campanella e le file si mossero ordinatamente, sfilando davanti al preside che, sul portone, era pronto a intervenire energicamente alla prima avvisaglia di litigi, di spintoni o pizzicotti.
Non quella mattina.
Raggiungemmo le rispettive aule; nel corridoio salutai Milena; ci saremmo riviste all'intervallo. Nell'attesa del suono della seconda campanella, quaderni e diari volavano attraverso l'aula, accompagnati da grida e urlacci; sedie strusciate rumorosamente e i cancellini trasformati in proiettili.
Non quella mattina.
Alessandra, la mia compagna di banco, si chinò sotto il banco, estrasse il fazzoletto dalla tasca e si asciugò gli occhi, voltandosi verso la parete. Le presi la mano; me la strinse forte. Quando si voltò, aveva gli occhi rossi e gonfi, proprio come i miei. Dal fondo della classe arrivò il rumore di un singhiozzo soffocato. Mi voltai. Le ragazze che vivevano in collegio dalle Orsoline stavano piangendo; una cercava di consolare la compagna, ma anche le sue spalle sussultavano leggermente. Mi guardai attorno e mi resi conto che tutte noi, più o meno apertamente, condividevamo il medesimo smarrimento. Ci alzammo in piedi all'ingresso dell'insegnante -allora si usava così- senza gli spostamenti rumorosi di banchi e sedie che facevano imbufalire gli insegnanti. Una nostra piccola innocente vendetta.
Non quella mattina.
«Sedute» disse l'insegnante, prendendo posto in cattedra. Aprì il registro, ma non fece l'appello; si limitò ad indagare con lo sguardo l'intera classe. Incontrò i nostri sguardi annichiliti. Annuì e chiuse il registro.
«Prendete un foglio e scrivete la data di oggi, 23 novembre 1963 e mettetelo nel vostro diario.»
Ho ancora quel foglio. Non scrivemmo altro.
Non quella mattina.
Maria Lacchio
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