La via Francigena, chiamata anche via Romea, era la strada che da Roma o in Terra Santa, portava nell’Europa centro-occidentale.
Già i Longobardi nel VII secolo la usavano per spostarsi lungo l’Italia. Questa vera e propria autostrada europea ante litteram fu inaugurata da Sigerico, arcivescovo di Canterbury, recatosi a Roma nel 994 per venerare il luogo del martirio dei SS Pietro e Paolo. Sigerico impiegò due mesi a coprire quasi 1600 chilometri e durante la via del ritorno annotò le ottanta tappe del percorso sul suo diario. Tra queste tappe c’era anche Santhià; ed è lì che il pellegrino Ronan si fermò una sera d’estate del 1661.
Questa è la sua storia
Si lasciò cadere su un masso al bordo della strada polverosa. Nelle gambe avvertiva la stanchezza di una giornata di cammino. I campi di segale ondeggiavano alla bruma cinerina del crepuscolo che stava calando. gli ultimi raggi del sole infiammavano il cielo, mentre una nebbiolina, leggera come garza, aleggiava appena al di sopra dei campi. Era stata una giornata serena; il sole aveva asciugato il suo mantello. La sera avanti si era scatenato un furioso temporale: il cielo plumbeo aveva rovesciato scrosci di pioggia sospinti da violente folate di vento sul povero viandante. Sotto la pioggia sferzante che gli schiaffeggiava il viso a malapena protetto dal cappuccio del mantello pregava: «Mio Dio, fa che trovi un riparo.» I Bretoni sono persone di poche parole, poco inclini alla conversazione, ma in mezzo a quella furia degli elementi Ronan sentiva il peso della solitudine. Un lampo rischiarò il cielo: il giovane scorse in lontananza, in cima ad una collinetta, le ombre scure di de monoliti che la pioggia faceva brillare come due torri di scisto nero. Non era un granché, ma pur sempre un riparo.
Abbandonò la strada e si diresse verso la collina, ringraziando Dio e i Sette Santi di Bretagna. Alla base di uno dei monoliti si apriva una specie di grotta. Ronan si infilò nella bassa apertura, si tolse il mantello inzuppato di pioggia e lo arrotolò per terra. Scosso da brividi di freddo, si rannicchiò contro la parete. Tolse dalla bisaccia un pezzo di pane umido e una fetta di lardo, doni di un contadino, e consumò il suo pasto, sforzandosi di ignorare i pantaloni bagnati che gli gelavano le gambe. Se solo avesse avuto un bicchierino di flip! L’idromele e l’acquavite mescolati al sidro sì che l’avrebbero scaldato come si deve. Dopo essersi ripulito le mani, estrasse dalla bisaccia il vecchio encologio con la copertina di banzana e il fermaglio di rame, dono di Dom Bléaz, l’anziano parroco del paese che aveva immaginato per lui la gloria del sacerdozio. Ma le cose erano andate diversamente: crescendo, Ronan aveva mostrato un vivo interesse per le gonnelle e una scarsa predisposizione alla meditazione. Si strinse al petto il vecchio volume dalle pagine ingiallite e, al buio, iniziò a recitare le preghiere della sera e l’atto di contrizione, ma il sonno ebbe il sopravvento sul suo spirito e l’ultimo suono che udì fu il rombo di un tuono lontano.
Una lama di sole trafisse il buio della grotta. Ronan aprì gli occhi e lentamente prese coscienza della realtà. Con cautela mosse le membra intorpidite. Vincendo il dolore che dalla schiena si irradiava giù giù fino alle gambe, uscì carponi dal suo rifugio. La luce del sole gli ferì gli occhi. Tornò nella grotta, raccolse le sue cose e si incamminò lungo la strada sterrata costellata di pozzanghere. L’aria frizzante del mattino lo rincuorò; attorno a lui nella campagna piatta e luminosa gli uccelli mandavano i loro richiami, negli acquitrini le rane gracidavano e l’aria profumava di erba bagnata. Una volpe gli attraversò la strada e in un lampo svanì nel fondo di una radura. Camminava di buon passo, canticchiando una vecchia ballata. Aveva mangiato le ultime more selvatiche dolci e succose e si era dissetato ad una polla d’acqua. Il sole gli era stato compagno per tutta la giornata. In mezzo ai campi assolati e mal tenuti aveva scorto qua e là dei casolari simili a quelli della sua terra; basse costruzioni di pietra e fango con tetti ricoperti di muschio e rampicanti. Un paio di maiali grufolavano in un campo lasciato a gerbido. Ora, seduto su un masso, si toglieva la polvere di dosso e sperava di trovare un riparo per la notte incombente. Nel cielo che si stava tingendo di violetto, poche nuvole vagavano come un bianco gregge. Una rana saltò fuori dal fosso che fiancheggiava la strada e prese al volo un moscerino. Ronan la guardò con invidia; il suo stomaco, vuoto come la sua bisaccia, brontolò rumorosamente. Si alzò e inspirò l’aria profumata della sera: il paesaggio gli ricordava i vasti pianori bretoni, sentiva perfino il suono delle campane che, all’Angelus, si rincorreva da un paese all’altro. Tese l’orecchio; il suono si ripeté, lontano ma nitido. I Bretoni sono molto legati al suono delle campane che scandisce il ritmo della giornata. Sorrise tra sé, cosa assai rara per un bretone, pensando che per quella notte, forse, avrebbe trovato un giaciglio e in po’ di cibo. Allungò il passo, canticchiando sottovoce.
Le mura striate di nebbia che cingevano in un abbraccio protettivo il Borgo addormentato, sbarrarono il cammino a Ronan. la luce gialla di due torce poste sopra il portone chiuso per la notte, illuminava la scritta sbiadita Sancta Agatha Vulgo Sant’Ia. Avvolto nel mantello per proteggersi dall’umidità, si lasciò scivolare lungo il muro, troppo stanco per andare a cercare asilo. Si addormentò, ignorando le insistenti proteste del suo stomaco.
«Ehi tu, alzati!» Si svegliò di soprassalto; qualcuno lo stava scuotendo. D’istinto si rannicchiò proteggendosi il volto con le mani. Non molto tempo prima, mentre attraversava le foreste della Valle D’Aosta una banda di briganti l’aveva bastonato per bene per rubargli i pochi denari che suo padre gli aveva dato. Deglutì con la gola asciutta, il cuore gli batteva a mille.
«Su, svegliati!» ripeté la voce. Lentamente alzò la testa; un uomo, appoggiato ad un bastone, avvolto in un corto mantello e un cappello a tesa larga calcato sul capo, lo stava fissando. Nel buio non riusciva a distinguere i tratti del volto incorniciato da una folta barba scura, ma la figura era imponente.
«Sei rimasto chiuso fuori eh?» disse. La sua voce baritonale risuonò nel silenzio della notte.
«Non puoi restare qui, è pericoloso, ci sono dei briganti in giro» disse, tendendogli la mano per aiutarlo ad alzarsi.
«Lo so,» rispose Ronan con una smorfia. «Li ho già incontrati, mi hanno bastonato e derubato. Non possono rubarmi più niente.»
«Da come sei vestito sembri un pellegrino, come me. Mi chiamo Guillaume, Guglielmo e vengo dalla Provenza.»
«Io mi chiamo Ronan e vengo dalla Bretagna.» Le loro voci avevano svegliato dei cani che latravano indispettiti dal brusco risveglio.
«Andiamocene da qui. Là c’è la chiesa di San Nicolao» disse Giullaume, indicando un punto a ponente. «Gli Spagnoli e i Trentini l’hanno quasi distrutta, ma è ancora un buon riparo.» Un po’ malfermo sulle gambe, Ronan seguì il suo nuovo compagno.
Il portone di legno scheggiato si aprì cigolando sui cardini sbilenchi, spinto dalla mano di Giullaume. Nonostante i muri sgretolati e il tetto incurvato, la costruzione sembrava sicura. Un forte odore di muffa li investì; dal basso soffitto pendevano monconi di travi bruciacchiati. Il buio era totale e Ronan inciampò in uno dei ciottoli del pavimento andando a sbattere contro uno dei pilastri di sasso. La mano di Guillaume gli afferrò saldamente un braccio. Si tastò la fronte; non c’era sangue, ma la botta lo aveva stordito.
«Da quand’è che non mangi?» domandò Giullaume, facendolo sedere su una panca. Senza attendere risposta, trasse dalla bisaccia un pezzo di pane e del formaggio che puzzava di capra e glieli mise in mano.
«Mangia!» lo esortò. Ronan addentò il pane, e il suo stomaco intonò l’alleluia. Guillaume il proprio mantello sul pavimento e vi si avvolse dentro. Ronan si sdraiò sulla panca di pietra.
Il suono dell’Angelus mattutino svegliò Ronan. Rinfrancato dal cibo e dal sonno si sentiva pronto a riprendere il cammino. Evitando di far rumore per non svegliare il compagno si levò a sedere. La luce grigio-rosa del’alba entrava dalla finestra. “Doveva essere una bella chiesa” pensò, guardandosi intorno. Guillaume si stiracchiò brontolando e stropicciandosi gli occhi.
«Buon giorno» lo salutò Ronan.
«Già sveglio?» mugugnò Guillaume con la voce impastata dal sonno.
«L’Angelus è già suonato» o informò Ronan.
Raccolsero i mantelli e uscirono nell’aria livida del mattino. Ronan si fece il segno di Croce e anche Guillaume salutò con uno sguardo mesto alla vecchia chiesa.
«Era una bella chiesa prima che arrivassero quei senza Dio di Spagnoli» narrò Guillaume mentre camminavano verso il Borgo. «Non avevano rispetto per niente e per nessuno. Rubavano, violentavano, ammazzavano. La gente fuggiva in Valle o in Francia. Anch’io sono scappato nel ’30 con la mia famiglia. Per via della peste che hanno potato quelli là. La gente moriva come le mosche. Il Borgo però è stato risparmiato da quel flagello per grazia della sua Santa Patrona Sant’Agata.
«Pensavo che fosse San Jacopo il Patrono del Borgo» lo interruppe Ronan. «Sant’Ia … San Jacopo».
«No, è Sant’Agata, la sua festa cade il 5 febbraio. e che festa! Arrivano pellegrini da tutto il circondario per baciare la Sua reliquia e lasciare in offerta un cero. Si chiama proprio l’Offerta dei Ceri. E chi è in grazia di Dio e visita la chiesa in quel giorno ottiene l’indulgenza plenaria. L’ha decretato il Papa Clemente VIII già nel 1594.»
«Allora gli Spagnoli se ne sono andati» disse Ronan.
«Ma sono tornati nel ’38 e hanno assediato il Borgo che ha resistito fino al giugno del ’39. Non c’era più un campo coltivato, quando passavano le truppe distruggevano tutto, si prendevano le bestie, bruciavano le case. mi hanno raccontato che è stato ancora peggio del ‘30. Io vado a Roma per adempiere a un voto e tu?» domandò Guillaume.
«Vado per il Giubileo, ma non ho una ragione particolare.»
«Facciamo un giro per il Borgo, vieni» lo invitò Guillaume.
«Vorrei rimettermi in cammino» obiettò il giovane.
«Roma non si sposta, e poi a pancia vuota si cammina male. C’è una locanda qui avanti dove fanno una zuppa …» replicò Guillaume di buon umore.
«Ma io non ho denari …» protestò Ronan.
«Non preoccuparti, ho denaro a sufficienza per tutti e due.»
Carretti carichi di ogni tipo di mercanzia si incrociavano lungo la via principale. Lo scalpiccio degli zoccoli di cavalli e asini risuonava sul selciato. ai lati della strada sfilava una teoria di botteghe, basse costruzioni per lo più composte di un unico locale. Alcune donne, avvolte in scialli scuri, attendevano in fila il loro turno per attingere l’acqua al pozzo, mentre delle vecchie sedevano davanti alle porte aperte intrecciando fibre di canapa e di stancia o pulivano le verdure raccolte in ceste di vimini ai loro piedi. Al passaggio dei forestieri qualcuna alzava appena gli occhi, ma subito li riabbassava, continuando il proprio lavoro. Guillaume, però, era certo che quella sera lui e il suo compagno sarebbero stati argomento di conversazione tra quelle donne che su quelle stesse panche si sarebbero sedute a recitare il Rosario e a chiacchierare.
Si fermò davanti ad una costruzione un poco discosta dalle altre i cui muri erano ricoperti da un rampicante fiorito. Scesero tre gradini. All’interno l’atmosfera era opprimente, cupa, come se la vita l’ dentro si fosse ritirata in un angolo. Il locale semibuio puzzava di vino fermentato e di grasso stantio ed era così basso che Guillaume dovette chinarsi per non sbattere la testa contro le travi del soffitto. Una fila di panche disposte lungo le pareti annerite dal fumo arrivava fino al focolare sulle cui braci brontolava un pentolone di rame. I tavoli di legno erano sfregiati dalle bruciature delle candele di sego che qualche ubriaco faceva cadere prima che l’oste lo buttasse fuori a scopate. A quell’ora del mattino la locanda era deserta. Ronan e Guillaume optarono per una panca in fondo. Da una tenda comparve una donna grassa e ansimante. Asciugandosi le mani nel grembiule chiazzato di unto, strascicò i piedi fino al tavolo dove erano seduti i suoi primi due avventori della giornata e, probabilmente, anche gli ultimi.
«Cosa avete da mangiare?» domandò Guillaume alla donna che li guardava arcigna.
«Zuppa di fagioli e lardo» rispose sgarbata.
«Allora due scodelle di zuppa e portate anche del pane e due tazze di vino» ordinò Guillaume, ma la donna non si mosse. Fissandola negli occhi, Guillaume sbatté sul tavolo quattro monete che la donna fede sparire nella tasca del grembiule. Ciabattò fino al focolare e iniziò a rimestare il contenuto del pentolone.
«Non sono proprio ospitali da queste parti» sussurrò Ronan, indicando la donna con un cenno del capo.
«È brava gente» rispose Guillaume. «Ma ne hanno passate tante e non si fidano più di nessuno.»
La donna tornò con un vassoio che conteneva due ciotole rase di zuppa fumante, due fette di pane scuro e due scodelle di vino. Ronan prese una delle ciotole: il profumo era invitante. Intinse la fetta di pane nel brodo scuro e denso in cui galleggiavano pezzetti di lardo.
«Buono» bofonchiò Guillaume con la bocca piena. A Ronan il sapore della zuppa ricordava la minestra che la nonna lo costringeva a mangiare da bambino e che allora detestava. Uscirono dalla locanda nel momento in cui le campane riempivano l’aria dei loro rintocchi. Il sole, ora alto nel cielo, riscaldava la strada deserta, fatta eccezione per qualche gallina che razzolava tra le pietre in cerca di un improbabile pasto, e di un paio di cani che annusavano gli angoli dei muri.
«Arrivando qui ho visto dei vigneti. C’è il vino buono da queste parti?» domandò Ronan, mentre percorrevano il corso.
«Altroché se è buono!» confermò Guillaume. «Ma il migliore è quello che fanno i frati.» Alzò gli occhi al cielo e con la punta delle dita mandò un bacio nell’aria.
«Loro dicono che è il vino solo per la Messa, ma io non ci credo» disse Guillaume, dando di gomito al compagno. «Se siamo fortunati ne assaggeremo un goccio anche noi. Vieni, andiamo al convento di San Francesco dove vive un frate amico mio.»
«È lontano?» domandò Ronan. Abituato al clima freddo della Bretagna, soffriva per l’afa opprimente. Gli abiti troppo pesanti per quel clima gli si appiccicavano addosso e gli occhi gli bruciavano a causa del sudore che colava dalla fronte per non parlare dei piedi …
«Ma non sei tu quello che vuole andare a Roma a piedi?» lo canzonò Guillaume. «Comunque, il convento è qui vicino, all’Isola di San Lorenzo. I frati vi si sono trasferiti dall’isola della SS Trinità nel 1623.»
«Che caldo!» sbuffò Ronan, trascinandosi a fatica dietro il suo compagno.
«Certo che come Romipeto …» commentò Guillaume.
«Romi… che?»
«Romipeto. I pellegrini vengono chiamati così dal nome della strada, via Romea, o Francigena, o Franciasca» gli spiegò.
«Ci ho camminato per settimane, ma non ne conoscevo il nome» ammise candidamente Ronan.
«Hai viaggiato sempre da solo?»
«Per un tratto in Francia ho avuto un compagno, ma lui era un mercante e mi ha lasciato dopo un paio di giorni. Da Aosta a Pont Saint Martin ho avuto tre compagni. Loro però si sono fermati a Pont ad aspettare altri pellegrini e non sapevano quando sarebbero ripartiti. Così ho proseguito da solo.»
«E scommetto che è lì che ti hanno derubato.»
«Sì» confermò Ronan. «Ma come fai …»
«È un vecchio trucco usato dai briganti. Si fingono pellegrini, avvicinano la loro preda con una scusa e poi la derubano.»
«Li ho incontrati in una locanda dove volevo passare la notte. Però non c’era posto, così ho solo mangiato. Loro erano seduti vicino a me e abbiamo cominciato a chiacchierare» ricordò Ronan.
«Ti hanno visto tirare fuori i soldi, vero?»
«Sì, quando ho pagato l’oste ho posato il sacchetto sul tavolo e ho contato le monete.»
«Briganti furbi, quelli. Ti hanno tenuto d’occhio, per farti credere che erano pellegrini ti hanno accompagnato per un tratto, poi, col pretesto di aspettare dei compagni ti hanno fatto proseguire da solo. Sicuramente ti hanno seguito senza che tu te ne accorgessi. Nella foresta è facile nascondersi, per chi la conosce bene. Scommetto che anche il taverniere era in combutta con loro» concluse Guillaume con convinzione.
Nelle vicinanze di Porta Vercellina, Guillaume svoltò a destra. Un bella chiesa sovrastata da una torre campanaria, brillava al sole. Appena accosta, stava una costruzione imponente.
«Quella è Santa Maria delle Grazie, e questo è il convento» spiegò. Imboccarono un vialetto fiancheggiato da siepi di mortella. Dal portale aperto usciva un intenso profumo d’incenso. I monaci cantavano le lodi in due file scure ai lati dell’altare; le loro voci si fondevano in una sola, dando origine ad un’armonia limpida come l’acqua di una cascata. Guillaume condusse Ronan all’interno del convento. Tre chiostri circondavano l’ampio cortile. Cespugli fioriti rosa e lilla formavano un’aiuola attorno al pozzo di pietra ricoperto di edera. Le api ronzavano attorno ai fiori e ai folti ciuffi di lavanda che riempivano l’aria col loro profumo. Vialetti ben curati conducevano verso dei sedili di pietra, dove i monaci sedevano a pregare o a meditare. Guillaume ne scelse uno all’ombra.
«Aspettiamo padre Raniero» disse, sedendosi. Alcuni merli saltellavano chioccolando tra le siepi. “Che pace!”, pensò Ronan; non osava parlare per non turbare l’atmosfera del luogo. Guillaume tolse dalla borsa due pezzi di pane e uno lo porse a Ronan.
«È duro» lo avvertì. Duro era un eufemismo; gli scricchiolò sotto i denti come un pezzo di sughero.
«Buon giorno, Guglielmo. Il Signore sia con te e con il tuo compagno.» Ronan restò col pane a mezz’aria a fissare l’uomo in piedi davanti a loro. Guillaume si alzò, con un largo sorriso si avvicinò alla figura vestita di un saio scuro e lo accolse in un caloroso abbraccio. Ronan assistette in disparte all’incontro tra i due amici. “Chissà se al mio ritorno il mio amico Kilian mi accoglierà con tanto calore, o si sarà dimenticato di me” pensò.
«Sono padre Raniero, dell’Ordine dei Frati Minori» si presentò il frate. «Per la gente di qui siamo gli ‘zoccolanti’ per via delle nostre calzature.» Ronan abbassò gli occhi su un paio di pesanti sandali di legno che spuntavano dal saio. Deglutì per ingoiare un boccone particolarmente ostico.
«Mi chiamo Ronan Louénan, vengo dal borgo di Plégat in Bretagna» si presentò. Padre Raniero era un uomo alto e robusto; in altezza superava Ronan di una spanna abbondante. Il naso dritto e gi zigomi alti conferivano al viso abbronzato un ché di autoritario. Attorno alla tonsura i capelli formavano una ghirlanda di riccioli castani. in contrasto con il portamento austero, gli occhi di un color nocciola dorato rivelavano una profonda bontà d’animo.
«Un lungo viaggio per un giovane» commentò. «Venite, vi accompagno alla foresteria.» Nel cortile al di là del chiostro un uomo stava scaricando dei sacchi dal suo carretto. Vide Padre Raniero e si levò il berretto.
«Il Signore sia con te» lo salutò il frate. «Come sta vostra moglie?»
«Molto meglio, Padre» rispose l’uomo, rigirando impacciato il berretto tra le mani. «L’impiastro che le avete dato le ha liberato i polmoni e adesso respira senza affanno.»
«Ne sono lieto. Portatele i miei saluti e la mia benedizione.»
«Vi aspettiamo, Padre. Venite presto a farci visita» lo salutò l’uomo, risalendo sul carretto.
Padre Raniero accompagnò i due pellegrini in un’ampia stanza; per terra c’erano pagliericci e coperte ben ripiegate. l’aria profumava di sapone e lavanda. Sulla parete spoglia era appeso un crocifisso. Il rumore dell’acqua di un ruscello entrava dalla finestra aperta.
«Ecco, qui potete riposare. Vi consiglio di fare un bagno nel ruscello qui fuori, ne avete bisogno» disse rivolto a Ronan. Tolse dallo scapolare una manciata di polvere bianca e gliela mise in mano. «È saponaria.»
«Grazie, Padre, ma …» rispose imbarazzato. Fu Guillaume a venirgli in aiuto.
«Una banda di briganti gli hanno rubato tutto.»
«Un novizio vi porterà tutto ciò che vi occorre» lo rassicurò il frate. «Voi pensate a ripulirvi.» Quindi si rivolse a Guillaume. «Vieni Guglielmo, andiamo a salutare il Padre Priore e lasciamo il tuo compagno alle sue occupazioni.»
Ripulito e ristorato dall’acqua fresca, Ronan si avvolse nell’ampio telo ruvido che profumava di gelsomino. Il mantello, insieme agli abiti impolverati, era scomparso. Si gettò sul giaciglio e chiuse gli occhi. Le cicale frinivano incessantemente nell’aria ferma. Un novizio entrò reggendo una casacca e un paio di pantaloni. A capo chino, senza proferire parola, posò gli indumenti puliti ai suoi piedi e scomparve. “Avrà sì e no dodici anni” pensò Ronan, cominciando a vestirsi. Il pensiero corse al fratellino Guillaume, Lommic, come lo chiamavano in casa. Nonostante la differenza di età, o forse proprio per questa ragione, Ronan nutriva per lui un affetto particolare. La sera che aveva annunciato alla famiglia riunita a tavola che sarebbe partito pellegrino alla volta di Roma, Lommic, al contrario delle sue sorelle, non aveva pianto, ma avevano dovuto cercarlo tutta la notte nei boschi circostanti. L’avevano trovato all’alba, addormentato tra le radici di una quercia secolare; il visetto sporco, rigato di lacrime. Per giorni aveva supplicato Ronan di portarlo con sé. la mattina della partenza l’aveva accompagnato insieme al padre fino alle porte del paese. Si erano abbracciati e Ronan gli aveva raccomandato di prendersi cura di Awellik, il suo cavallo, fino al suo ritorno. Lommic aveva promesso, trattenendo stoicamente le lacrime. Quindi, drizzando le spalle, era tornato a casa a fianco del padre , senza voltarsi indietro.
L’arrivo di Padre Raniero lo distolse dai suoi pensieri.
«Venite, il Priore vi aspetta» annunciò.
Ronan si rassettò gli abiti e seguì il silenzioso frate. A metà del secondo chiostro Raniero bussò ad una porta. Una voce all’interno li invitò ad entrare. Raniero aprì l’uscio e si fece da parte per permettere a Ronan di passare. Accennò un inchino e scomparve; il rumore dei suoi passi si dissolse nell’aria immobile del pomeriggio. Ronan, in piedi accanto alla porte, volse lo sguardo intorno. La stanza non era molto grande, ma luminosa e profumava di cera d’api. Il pavimento di assi lucidate e le pareti bianche di calce risplendevano. Un crocifisso appeso sopra un inginocchiatoio, su cui era aperto un antico quanto pregevole libro di preghiere, un lungo tavolo di quercia ed una sedia foderata di cuoio componevano l’arredamento. In piedi davanti alla finestra il padre Priore lo invitò a venire avanti.
«Il Signore sia con voi» lo salutò. La magrezza del frate era impressionante. intorno alla tonsura, una corona di capelli bianchi incorniciava il viso scarno. Gli occhi di un azzurro liquido erano contornati da una ragnatela di rughe sottili. Le labbra strette parevano una ferita violacea. Padre Adriano parlava a voce bassa, lentamente, come se ogni parola gli procurasse una grande pena. Lo sguardo sfuggente non aveva l’amabilità di quello di Raniero. Il suo volto nulla mostrava se non un cortese interesse.
«Qual è il vostro nome?» domandò.
«Ronan Louénan, sono bretone, vengo da Plégat.» rispose compito.
«Siete un cloaerc, un chierico?» Ronan si stupì di sentirsi rivolgere quel titolo in bretone.
«No,» rispose. «Ma sono stato chambriste seminarista al seminario di Trèguier.» Il Priore annuì.
«Mi è stato riferito che siete un pellegrino, giusto?»
«Sono un pellegrino» confermò.
«Potete fermarvi qui per la notte» proseguì il Priore con la sua voce sottile. «Ho saputo della vostra disavventura. Al giorno d’oggi le strade non sono più sicure. Che il Signore vi accompagni» fu il suo congedo. A capo chino Ronan ricevette la benedizione, si inchinò ed uscì. Trovò ad attenderlo Padre Raniero e Guillaume che chiacchieravano a bassa voce, seduti su una panca del chiostro. Lo videro e si alzarono.
«Prima del canto dei Vespri ho un po’ di tempo. Facciamo un giro per il convento» propose il frate.
Nascosti da siepi di bosso si stendevano gli orti dove un gruppo di frati col saio arrotolato fino alle ginocchia si dedicava alla cura delle verdure. Al loro passaggio alzavano il viso arrossato e lucido di sudore e salutavano con un sorriso.
«È un convento molto antico; è stato costruito dai francescani attorno al 1460» spiegò Padre Raniero. Seguendo una sequenza di sentieri giunsero nel frutteto dove altri frati, muniti di scale e ceste, raccoglievano la frutta cantando lodi. Attraversarono un ponticello di assi che scricchiolarono sotto il loro peso. Ronan non aveva mai visto un vigneto così rigoglioso e ben curato; i grappoli di uva ancora acerba occhieggiavano tra i pampini. Oltre il vigneto si stendeva una querceta dove in autunno si raccoglievano i funghi. Lì, ai contadini era consentito raccogliere le ghiande per i maiali e le foglie secche per lo strame.
« Tra dicembre e gennaio, i mesi neri, come li chiamate voi bretoni, i nostri buoni contadini ammazzano il maiale e non si dimenticano mai di portarci qualche pezzo di carne salata. qualche salame e una mezzena di lardo. Anche in tempo di carestia, durante e dopo l’occupazione spagnola, hanno condiviso con noi i loro magri raccolti. Allora le soldataglie razziarono anche il nostro convento e ci avrebbero sicuramente uccisi volentieri, ma ci prendevamo cura dei loro soldati ammalati o feriti. Poveretti, molti di loro erano poco più che ragazzi» raccontò con profonda pietà.
Svoltarono a destra e seguirono un sentiero nascosto dall’erba alta del prato che emanava un profumo dolce. In fondo al sentiero un filo di fumo azzurrognolo usciva dal camino di una costruzione di pietra grigia sulla cui facciata un tralcio di rose selvatiche si contendeva lo spazio con l’edera tenace e invadente. Dall’erbario davanti alla casa saliva l’aroma intenso delle erbe officinali i cui cespugli facevano bella mostra di sé tra i vialetti di pietra.
«Questo è il suo regno» disse Guillaume, rivolgendosi a Ronan. Raniero rise.
«Vero, qui dentro mi sento un re.»
«Peccato d’orgoglio!» lo canzonò l’amico, mentre Raniero apriva la porta e faceva strada. Un’unica stanza occupava tutta l’area. Sulla parete di fondo il focolare era acceso, nonostante la calura opprimente. Una grossa pentola di coccio posata sulle braci brontolava sotto l’occhio vigile di un frate che ne rimestava il contenuto con un lungo bastone.
«Attento a non farlo bruciare» raccomandò. Il frate rispose con un cenno, allontanando il viso di scatto per evitare uno schizzo bollente. Dalle travi del soffitto pendevano ad essiccare mazzi di erbe officinali. Al centro della stanza un lungo tavolo era occupato da file di barattoli di vetro ordinati per grandezza e debitamente etichettati. Un frate ne stava riempiendo alcuni con una pappa vischiosa verde e puzzolente. Arrampicato su uno sgabello, un ragazzetto pestava delle erbe in un mortaio di sasso. Rivolse a Raniero uno sguardo torvo. Per contro il frate gli sorrise amichevole. Il ragazzo abbassò gli occhi e ricominciò a pestare con maggiore energia. Raniero fece accomodare i suoi ospiti e prese delle ciotole e una brocca da una credenza.
«È il vino del convento» disse, mentre riempiva le ciotole.
«Quello della Messa» precisò Guillaume ammiccando a Ronan.
«Sai Ronan,» proseguì, facendo schioccare la lingua assaporando il vino fresco.«È stato uno dei suoi intrugli a salvarmi la pelle, tanto tempo fa’. Il vecchio Elvezius, il becchino, mi aveva già preso le misure. Poi è arrivato lui con i suoi impiastri, ed eccomi qui, tutto intero e sano come un pesce.»
«Devi ringraziare il buon Dio, io non c’entro» replicò Raniero. Guillaume cambiò discorso. «Vedo che hai degli aiutanti, adesso.»
«È bene che altri più giovani di me imparino a fare buon uso dei doni che il Signore ci ha donato nella Sua infinita misericordia» spiegò. «Da solo non ero più in grado di preparare medicamenti sufficienti. l’inverno appena passato è stato veramente brutto. In tanti, soprattutto i più vecchi e i più deboli hanno sofferto di febbri e tosse. Le nostre scorte sono finite in fretta e tanti sono morti senza che potessimo aiutarli. È stato molto triste. Per questo ho chiesto al Padre Priore di darmi l’aiuto di altri fratelli.»
I colpi secchi nel mortaio aumentarono di intensità. Raniero alzò gli occhi e rivolse un sorriso indulgente al ragazzino che riversava tutta la sua rabbia repressa nel mortaio.
«Povero Jacopo» sospirò. «È l’ultimogenito dei Signori di Tronzano. Suo padre è amico del Priore e lo ha affidato a noi per la sua educazione. È un bravo figliolo, intelligente e pronto di spirito, ma difficile da domare. Sogna di diventare un guerriero, un grande condottiero e non è affatto contento di vivere al convento.»
La campana che annunciava i Vespri interruppe la loro conversazione. Lasciarono il laboratorio e si unirono alla fila dei frati diretti alla funzione. Salutarono Raniero che si affrettò a raggiungere in suo posto. I canti di lode accompagnarono i passi dei due pellegrini fuori dal convento. Guillaume diede di gomito al suo compagno; grosse nubi scure e gonfie di pioggia stavano marciando verso il Borgo sospinte da forti raffiche di vento.
«Faremmo meglio ad accettare l’ospitalità del Padre Priore per questa notte. Tra non molto si scatenerà l’inferno.» Ronan si strinse nel mantello; la temperatura era precipitata all’improvviso. Rientrarono nel chiostro e attesero la fine dei Vespri. Come Guillaume aveva previsto, nella notte si scatenò veramente l’inferno. Grandine e torrenti d’acqua si riversarono sulle strade del Borgo trasformandole in torrenti di fango. Il vento si portò via i tetti di parecchie case, sradicò alberi, distrusse i raccolti. L’alba nebbiosa e fredda illuminò un paesaggio desolato. Le fatiche di un anno erano state spazzate via in una notte. Ronan e Guillaume uscirono dalla foresteria. I frati, muniti di scope e badili, stavano pulendo i chiostri e il cortile. Un gruppo di novizi ripuliva il pavimento della chiesa ricoperto di melma. In un angolo venivano ammucchiati i rami caduti che invadevano i sentieri. Un carro traballante entrò nel cortile della foresteria. ne scesero quattro uomini; due di loro avevano bisogno di essere sorretti e si tamponavano la fronte e il viso incrostati di fango con stracci insanguinati. Padre Raniero accorse e accompagnò i quattro nella foresteria.
«A volte penso che Dio guardi da un’altra parte» inveì Guillaume. Padre Raniero lo udì e gli rivolse uno sguardo severo, pieno di rimprovero. Mortificato, Guillaume abbassò lo sguardo e uscì dal cortile seguito da Ronan.
Uscirono dal Borgo da Porta Tronzania. Le acque limacciose del Naviglio scorrevano turbolente tra l’erba alta delle rive. Il sole, i cui raggi cadevano a cascata tra le fronde scintillanti di pioggia, cominciava a riscaldare l’aria quando i due pellegrini entrarono nel bosco. Il profumo della foresta riempiva le narici di un aroma intenso. Gli uccelli si chiamavano, ogni creature, col sole, si risvegliava. Da buon bretone, Ronan amava la foresta vasta e profonda. Trovarono una polla d’acqua, Ronan si inginocchiò e bevve. Il muschio attorno alla fonte formava un tappeto soffice. Alle loro spalle un leprotto si fermò; ritto sulle zampe posteriori, fiutò l’aria e in un lampo scomparve nel fitto della boscaglia. Guillaume guidava il compagno tra sentieri e fore, suscitando il rumoroso disappunto dei legittimi abitanti che si allontanavano frusciando nell’erba. Ronan guardò un su; tra i rami di una quercia uno scoiattolo ricambiò il suo sguardo, continuando a rosicchiare la ghianda che teneva tra le zampine. A tradimento, un nugolo di zanzare si accanì contro Ronan.
«Maledette bestiacce!» imprecò, schiaffeggiandosi il viso e le braccia.
«Dopo i temporali sono ancora più voraci» lo informò Guillaume che al contrario sembrava immune dalle loro punture. «La gente muore ancora di malaria da queste parti. Senti la puzza?» domandò. Ronan, troppo impegnato nella lotta impari con gli insetti, non aveva fatto caso all’aria. Annusò.
«Puzza di marcio» confermò.
«Guarda là.» Acquitrini punteggiati da canneti e marcite ammorbavano l’aria con i loro miasmi putrescenti. «Prima che arrivassero quei senza Dio che hanno mandato tutto alla malora quelle erano risaie che davano da mangiare a tutti. Il riso l’avevano portato i cistercensi e a Lucedio avevano cominciato a bonificare le paludi. Poi la gente è scappata e ha abbandonato tutto.»
«Dove stiamo andando? A Lucedio?» domandò Ronan.
«No, a Tronzano, un borgo molto antico, esisteva già ai tempi dei romani.»
Proseguirono in silenzio; il caldo cominciava a diventare insopportabile e fu un sollievo potersi riposare all’ombra del porticato di una modesta chiesetta.
«È la chiesa di San Pietro, il Patrono del Borgo», disse Guillaume, facendosi aria con il cappello.
«Avrebbe bisogno di qualche lavoretto» commentò Ronan. «Sai qual è il cibo preferito da San Pietro?» domandò a sorpresa, mentre riprendevano il cammino.
«Perché tu lo sai?» rispose Guillaume scettico.
«Certo. È la pappa d’avena» affermò con sussiego.
«Te l’ha detto lui?» lo punzecchiò l’amico.
«No, lo dicono i montanari. Raccontano che quando San Pietro accompagnò Gesù nella Bassa Bretagna, mangiasse volentieri la pappa d’avena. Ancora adesso i parenti di uno che sta per morire vanno alla cappella di San Pietro e offrono una ciotola di pappa d’avena perché interceda per l’anima che sta per comparire davanti al Tribunale di Dio.»
«Un modo come un altro per manifestare la propria fede» commentò Guillaume.
Un arco di mattoni sovrastato da una torretta di guardia diede loro il benvenuto nel piccolo Borgo.
A quell’ora la strada era deserta. Qua e là, rami e foglie ammucchiate testimoniavano la bufera della notte. Dalle corti provenivano grida di bimbi che giocavano. Due cani spelacchiati si contendevano un osso spolpato in mezzo alla via. Una donna vestita di nero e scalza spingeva una carriola colma di biancheria.
Squadrò diffidente i due forestieri, ma solo per un attimo, poi svoltò in un portone e scomparve. Nella piazza alcuni carretti sostavano sotto il sole. Legati agli anelli, i cavalli masticavano pigramente la biada e con la coda scacciavano le mosche fastidiose. L’odore acre del loro sudore stagnava nell’aria. Guillaume attraversò la piazza assolata.
«Ecco l’osteria» annunciò. Dall’interno proveniva una cacofonia di voci. Guillaume spinse la porta sgangherata. L’odore di sudore e di letame si mescolava con quello del vino inacidito e di strutto fritto. Ronan deglutì, reprimendo la nausea che lo aveva aggredito a tradimento. Quasi tutte le panche erano occupate; ne trovarono una libera in fondo alla stanza e Guillaume si sedette, seguito dall’amico boccheggiante e sempre più pallido. Di fianco a loro, un gigante barbuto spolpava una coscia di un non meglio identificato volatile con un gran rumore di mascelle. L’unto gli colava sulla barba sudicia e tra un boccone e l’altro si passava una mano sulla guancia irsuta per ripulirsi. Lo stomaco di Ronan, già messo a dura prova dall’aria mefitica, si contrasse in uno spasmo doloroso. Al contrario, Guillaume sembrava trovarsi perfettamente a suo agio. L’oste arrivò con due boccali di vino e, senza fiatare, prese le due monete che Guillaume aveva posato sul tavolaccio. Tornò poco dopo con due ciotole colme di una brodaglia verdastra con pezzetti di carne bruciacchiata e alcune fette di pane nero.
«Non mangi?» domandò Guillaume. Ronan non voleva apparire scortese con l’amico che oltretutto gli pagava il pasto, così si fece coraggio e intinse un boccone di pane nella ciotola. Il sapore della minestra di erbe selvatiche, leggermente amaro, non era poi così sgradevole. Guillaume trangugiò un lungo sorso di vino acido e abbondantemente annacquato.
«Vino di fonte!» tuonò, sbattendo il boccale sul tavolo. L’oste arrivò di corsa e si piazzò davanti a lui con aria minacciosa. Guillaume sbatté sul tavolo altre due monete, tenendole prudentemente coperte con la propria mano. Nella stanza era calato improvvisamente il silenzio; tutti gli occhi erano puntati su di lui. Ronan guardava ora l’uno ora l’altro a bocca aperta e la fetta di pane sbocconcellata a mezz’aria. Rosso in volto, l’oste si allontanò imprecando. Guillaume squadrò torvo gli altri avventori che immediatamente rivolsero la massima attenzione al contenuto dei loro piatti. L’oste tornò e con malagrazia sbatté sul tavolo due boccali di vino e intascò il denaro che Guillaume gli mise in mano con un sorriso beffardo. Pian piano la locanda si svuotò.
«Io ti conosco!»
Entrambi volsero lo sguardo nella direzione da cui proveniva la voce.
«Gerlando!» esclamò Guillaume, riconoscendo l’uomo seduto un paio di panche più in là.
«Mi sembrava la tua voce!» disse l’uomo, avvicinandosi a tentoni al loro tavolo. «Non ci vedo più bene, ma le mie orecchie funzionano ancora» affermò. La sua voce ferma e profonda contrastava con il fisico cadente.
Guillaume si alzò e abbracciò il vecchio, e, di nascosto, si asciugò una lacrima col dorso della mano.
«Siedi qui» lo invitò, e ordinò un altro boccale di vino. Dimentico di tutto quello che lo circondava, stringeva tra le sue la mano ossuta del vecchio amico. Ronan, senza farsi accorgere, lasciò il suo posto ed uscì.
La piazza era deserta; i carretti se n’erano andati con i loro proprietari. I due cani randagi che avevano incontrato all’ingresso del Borgo gli si avvicinarono e lo annusarono; erano così magri che la loro pelliccia spelacchiata a malapena nascondevano le ossa. Tolse di tasca un pezzetto di pane e lo lanciò alle bestie che si avventarono sul magro pasto. Ronan imboccò una viuzza ombreggiata. Nel silenzio di quell’afoso pomeriggio si sentì veramente pellegrino. non aveva alcun legame con quel posto e tra poco sarebbe ripartito, avrebbe incontrato altre persone, avrebbe visto altri borghi, ma sarebbe stato comunque un’ombra di passaggio. Una profonda nostalgia per la sua terra e la sua famiglia lo colse alla sprovvista. ‘Ora papà porterà Lommic a caccia nella foresta’ pensò. Sorrise tra sé, ricordando le baruffe delle sorelline Gaidik e Lieltik per il posto nel lettone. Ricordò la mamma che la sera prima della partenza lo aveva preso da parte e gli aveva fatto un’infinità di raccomandazioni. Immerso nei suoi ricordi, attraversò un prato recintato da una fila di salici, dove un paio di mucche pascolavano pigre, indifferenti alla sua intrusione e proseguì lungo il viottolo. Da un roveto giunse il richiamo di un uccello Ronan si avvicinò e tra i rami contorti e spinosi intravide i muri di un edificio abbandonato. Cercò un varco per poter entrare nel cortile, dove si aggiravano dei maiali selvatici. Alla fine trovò un passaggio. Sebbene fosse in condizioni disastrose, l’ampio edificio di pietra e mattoni aveva conservato tutta la sua imponenza. ‘Sarà stato un palazzo o un convento’, pensò Ronan, aprendo il portone. Disturbati dalla luce, gli animali che avevano eletto quel luogo a loro dimora chissà da quanto tempo, fuggirono spaventati. Qualcosa di peloso gli passò tra le gambe, facendolo sobbalzare. Sul pavimento coperto di paglia ammuffita e di ossi rosicchiati erano rovesciati tavoli e panche. Dalle strette aperture lungo i muri pendevano brandelli di tende. Ronan rabbrividì. Scostando le ragnatele che penzolavano dalle travi del soffitto, attraversò la stanza che un tempo doveva essere stato un locale accogliente. Lo immaginò col focolare acceso, illuminato dalle candele. Venne colto da un senso di vertigine e si appoggiò alla parete. Davanti a lui c’erano tre uomini; uno era seduto e portava un saio, gli altri due erano in piedi, vestivano pantaloni di tela grossolana e una camicia sotto il corpetto di cuoio. Quello col saio teneva gli occhi chiusi mentre gli altri due parlavano a capo chino, con l’aria mesta. Ronan non capiva cosa dicevano, ma sentiva il suono delle loro voci. Dei singhiozzi soffocati attirarono la sua attenzione; si voltò e vide una donna tutta vestita di nero che piangeva seduta accanto al camino. Dagli abiti che indossava dedusse che doveva appartenere alla classe nobile. L’angoscia della donna era tanto profonda che colpì Ronan con la violenza di un pugno nello stomaco.
«Ronan, Ronan!» La voce arrivava da lontano, molto lontano.
Attraverso la nebbia che gli velava gli occhi, vide la sagoma di Guillaume che si stava avvicinando.
«Sembra che tu abbia visto un fantasma» disse, passandogli un braccio attorno alle spalle scosse da brividi. Batteva i denti ed era madido di sudore.
«Andiamo via da qui. c’è puzza di morte qua dentro.» A Ronan girava la testa e un fastidioso ronzio gli tormentava le orecchie. Barcollò, e se non fosse stato sorretto dal compagno sarebbe caduto lungo disteso sul pavimento lurido.
«Che posto è questo?» domandò.
«Il vecchio convento dei frati che ospitavano i pellegrini e i malati di peste. Poi gli Spagnoli hanno ucciso i frati e lì dentro ci facevano tutte le loro porcherie. Ma cos’hai?»
«Niente, mi gira un po’ la testa, deve essere il vino.» Non poteva certo confessargli di aver avuto delle visioni, l’avrebbe preso per pazzo.
«Già, deve essere il vino; non ci sei abituato. Ce la fai a camminare?»
«Sì, andiamo, sto bene.» Ma non stava bene per niente; la testa gli ronzava, come se uno sciame di api gli fosse entrato nel cervello e aveva freddo, tanto freddo. Poi non sentì più niente.
Tonc, tonc, tonc. Un martello batteva ritmicamente su un’incudine. Il suo cervello intorpidito registrò quel rumore insieme a quello di una sedia che strusciava sul pavimento e al profumo di sapone e limone. Una mano si posò sulla sua fronte; qualcuno lo chiamava e cercava di svegliarlo scuotendolo con dolcezza. ‘Non voglio svegliarmi’, pensò Ronan, mentre il mondo reale si faceva strada nel suo cervello. Qualcuno andò alla finestra e chiuse le tende; sentì il rumore degli anelli che scorrevano nella bacchetta di ferro. La mano si posò nuovamente sulla sua fronte; era morbida e fresca.
«Ronan aprite gli occhi» sussurrò una voce. Vincendo il torpore, ubbidì. Una ragazza sconosciuta era china su di lui.
«Finalmente vi siete svegliato!» esclamò tutta contenta.
«Siete un angelo» mormorò Ronan, ancora sospeso tra realtà e sogno. La ragazza rise scoprendo una fila di denti bianchi.
«Oh no, sono la figlia del fabbro. Ora chiamo mia madre e le dico che vi siete svegliato» disse, allontanandosi. Ronan seguì con lo sguardo la snella figura; una lunga treccia bruna ondeggiava a ogni passo. La ragazza si voltò e gli sorrise prima di scomparire dietro una tenda. Rimasto solo, indagò con lo sguardo la stanza sconosciuta; le pareti imbiancate a calce, il pavimento di assi, un secchio, una cassapanca grezza su cui erano ammucchiati in bell’ordine degli asciugamani, una sedia accanto al letto. La ragazza aveva detto di essere la figlia del fabbro, come era arrivato lì? Chiuse gli occhi e si sforzò di ricordare. ‘Guillaume … il convento … no, non quello del suo amico frate, quell’altro quello diroccato … la stanza … la donna vestita di nero che piangeva … il freddo.’ Cominciò ad agitarsi e a lamentarsi.
«Calmatevi!» gli intimò una voce autoritaria, mentre due mani robuste gli bloccavano le spalle. Aprì gli occhi e incontrò lo sguardo preoccupato di una donna. Era la copia della ragazza, solo più vecchia. Il volto pallido, pur segnato da rughe profonde, aveva mantenuto i lineamenti fini, quasi aristocratici, che aveva notato nella ragazza. Sostenendolo per le spalle, lo aiutò a sollevarsi sui cuscini.
«Vi ho preparato un po’ di brodo per rimettervi in forze» disse, accostando la scodella alle labbra del giovane. «Bevete, vi farà bene» lo esortò. Ronan ingoiò un sorso di liquido caldo e profumato. Era buono; aveva un buon sapore di carne di pollo, una vera leccornia. Aiutato dalla donna, lo bevve tutto. «Ora riposate. Magdala resterà qui con voi» disse, indicando la figlia che silenziosamente era entrata nella stanza.
‘Magdala’ registrò il suo cervello, prima di ricadere in un profondo torpore.
Quando riaprì gli occhi, la stanza era avvolto nella penombra ed era solo. Udì delle voci; qualcuno stava parlando al di là della tenda. Riconobbe la voce di Guillaume.
«Guillaume!» chiamò, e quasi non riconobbe la propria voce. Gli sembrava di aver gridato il nome dell’amico, e invece era uscito un suono roco, appena udibile. La conversazione si interruppe e poco dopo l’amico entrò nella stanza portandosi dietro odore di fieno e di sudore di cavallo.
«Finalmente ti sei svegliato» disse, trascinando la sedia a fianco del letto e mettendosi a cavalcioni. Allungò la mano sopra la coperta e Guillaume la coprì con la sua. Quel semplice gesto rinfrancò lo spirito di Ronan.
«Cosa mi è successo?» domandò.
«Hai avuto un attacco di febbre. Ti deve aver punto una zanzara infetta. Mi hai fatto prendere un tale spavento! Mi sei caduto addosso come una pianta secca.»
Sopraffatto dalla debolezza, Ronan chiuse gli occhi. «Non ricordo nulla. Da quanto tempo sono qui?»
«Da una decina di giorni.»
«Dieci giorni!» esclamò incredulo.
«Giorno più giorno meno, sì. Ti stavo trascinando fuori dal vecchio convento quando, per fortuna, è passato il fabbro col suo carretto. Ti abbiamo portato a casa sua. Hai avuto la febbre alta per giorni; deliravi, eri proprio in un brutto stato. Sono andato di corsa a chiamare Padre Raniero, ma non era al convento perché il vescovo l’aveva convocato, non so per cosa. Allora sono corso da Gerlando. Ti ricordi di lui?» domandò.
Ronan chiuse gli occhi e visualizzò Guillaume che si asciugava una lacrima.
«Gerlando … sì, il tuo vecchio amico che abbiamo incontrato alla locanda.»
«Proprio lui; era uno speciaro, un farmacista. Anche se è vecchio è ancora un mago con le erbe. È lui che ti ha curato.»
Ronan abbandonò la testa sul cuscino. «Quando starò meglio andrò a ringraziarlo; credo di dovergli la vita.»
«Ti ha tirato per i capelli dalle grinfie di satanasso!» confermò. «Adesso riposa, domani tornerò a trovarti.»
Ronan annuì senza aprire gli occhi; si sentiva così stanco!
Oltre la tenda, Guillaume si avvicinò alla moglie del fabbro che, seduta sul sasso del focolare, mescolava in una pentola la zuppa di rape.
«Tenete, donna Marta» disse, porgendole un sacchetto di monete. «Per il suo mantenimento e per tutto quello che fate per lui.» La donna si alzò e si asciugò le mani nel lungo grembiule scuro. Prese il sacchetto e lo ripose nella tasca tenendo gli occhi bassi, come se si vergognasse di accettare quel denaro. Guillaume si inchinò ed uscì nella notte. L’aria si stava rapidamente raffreddando.
«L’hai vista?» gli chiese Gerlando. Nella capanna lungo il Naviglio il vecchio stava armeggiando attorno al camino mentre Guillaume era seduto su uno sgabello vicino al tavolo. La candela di sego puzzolente e fumosa disegnava ombre inquietanti sulle pareti della stanza. Procedendo a tentoni, Gerlando si sedette sullo sgabello di fronte all’amico. Ne vedeva solo un’immagine sfuocata, ma ne intuiva chiaramente la pena.
«Dopo la tua partenza venne da me, una notte, di nascosto, da sola» iniziò a raccontare. «Mi implorò di rivelarle dove eri andato, ma io non lo sapevo e non potevo aiutarla. Credo che se l’avesse saputo, sarebbe fuggita e ti avrebbe raggiunto. Non avevo mai visto un’anima così disperata. Cercai di tranquillizzarla, le assicurai che avrei chiesto tue notizie un giro. Non la rividi più per molto tempo. Circolavano delle voci; si diceva che il padre la tenesse rinchiusa in una stanza del palazzo, che l’avesse mandata in convento, che avesse contratto la peste e fosse morta. Sai com’è, ognuno diceva la sua, ma in realtà nessuno sapeva cosa fosse realmente accaduto. Poi un giorno ricomparve, moglie di un fabbro venuto chissà da dove, con una bimbetta. È tutto quello che so» concluse. Rimasero in silenzio per un pezzo. Tra loro la candela si stava consumando.
«Io vado a dormire» annunciò ad un certo punto Gerlando. «Il tuo materasso lo sai dov’è.» Si alzò dallo sgabello a fatica; ogni giorno che passava le ossa gli dolevano sempre di più.
«Dimmi ancora una cosa» disse Guillaume con la voce strozzata dall’emozione. «La bambina è la figlia del fabbro?»
«Come faccio a saperlo? Suppongo di sì. Quando arrivò qui poteva avere quattro, cinque anni.» rispose. «È il suo ritratto, vero? Sembra di vedere lei tanti anni fa’. Solo gli occhi … non sono quelli di sua madre.»
«Quella sera, quando venne da te, non ti disse niente?» insistette.
«Cosa avrebbe dovuto dirmi?»
«Niente.»
Gerlando fece il giro del tavolo e si portò alle spalle dell’amico.
«È passato tanto tempo, non ha alcun senso rinvangare certe cose» disse, appoggiando le mani deformate dall’artrite sulle spalle dell’uomo. «Fa ancora male eh?»
«Già, fa ancora male. Andiamo a letto, adesso, si è fatto tardi.»
Si stesero sui due giacigli accostati accanto al camino, la candela si era consumata da un pezzo quando Giullaume finalmente si addormentò.
Avvolti nei loro mantelli, Magdala e Ronan erano arrivati davanti alla chiesetta di San Martino. Le foglie secche scricchiolavano sotto i loro piedi.
«È tempo che riprenda il mio viaggio» stava dicendo Ronan. «Domani, quando verrà Giullaume, gli dirò che sono guarito e pronto a partire.»
«Davvero volete partire?» domandò la ragazza.
«Sì, è tempo. il viaggio è ancora lungo e vorrei attraversare gli Appennini prima che arrivi l’inverno.»
Magdala si sedette imbronciata su un sedile di pietra, davanti alla chiesa.
«Che avete?» domandò Ronan confuso. la ragazza alzò le spalle, con lo sguardo fisso a terra e non rispose.
«Siete arrabbiata con me?» domandò. Lei scosse il capo. Ronan le sedette accanto. Per lui le donne restavano un mistero; un momento ridevano, e un attimo dopo mettevano il broncio. Poiché la ragazza restava ostinatamente silenziosa, non sapendo che altro fare, Ronan rivolse la sua attenzione alla chiesa.
«Quando ero piccola, mia madre mi portava sovente qui» disse Magdala, rompendo inaspettatamente il silenzio. «diceva che aveva sempre sognato di sposarsi qui, il giorno di San Martino.. chissà perché proprio qui; è brutta e sporca, e sembra dover crollare da un momento all’altro.»
«Probabilmente quando vostra madre era ragazza la chiesa era in condizioni migliori» ipotizzò Ronan.
«Può darsi che abbiate ragione» gli concesse la ragazza. «Ma adesso andiamo, si è fatto tardi.» Si diressero verso casa.
«E a voi dove piacerebbe sposarvi?» la stuzzicò Ronan.
«Io non voglio sposarmi» affermò la ragazza, fissandolo torva.
«Tutte le ragazze della vostra età desiderano sposarsi» ribatté con supponenza.
Magdala gli si parò davanti minacciosa. «Quello che desiderano le altre ragazze non mi riguarda. Io non voglio sposarmi» sillabò. Colto impreparato da una così violenta reazione, Ronan rimase lì, imbambolato.
«Perdonate» balbettò confuso, ma la ragazza era già corsa via. Uno stormo di anatre selvatiche gli passò sopra la testa; lui le seguì con lo sguardo e lì per lì decise che sarebbe andato a cercare Guillaume.
Lo trovò al mulino pubblico in compagnia di Padre Raniero.
«Il Signore accompagni il tuo cammino» lo salutò il frate.
«Salute a voi, Padre.» Ronan gli si avvicinò e lo aiutò ad issare sul carretto il pesante sacco di farina. Padre Raniero si passò le mani sul saio, lasciando due lunghe strisce bianche. Si guardò mortificato.
«Il fratello lavandaio si arrabbierà» sospirò. «Ma il mastro mugnaio è un brav’uomo. Tutti gli anni regala al convento un sacco di farina, di quella buona.»
«Cerchi Guillaume?» domandò. «È nella stanza della macina, sta aiutando il mugnaio a sistemare un ingranaggio. È là, oltre quella porticina.»
«Grazie, Padre.» Ronan mosse alcuni passi, il Padre lo fermò.
«Stai bene, ora?» si informò.
«Sì, Padre, sto bene.»
«C’è qualche problema che ti assilla?» insistette, poiché l’ombra nello sguardo del giovane non lo convinceva.
«No, Padre, nessun problema, ho solo bisogno di parlare con Guillaume.»
Raniero non avrebbe scommesso una moneta sulla sincerità del ragazzo; il suo turbamento era evidente, lo stesso tono della voce smentiva le sue parole. Ma non volle insistere; in fondo non era il suo confessore e capiva la ritrosia del giovane a confidarsi.
«Allora va, il Signore ti accompagni» lo congedò, ma si soffermò ad osservarlo. La morbida luce autunnale cadeva sulle spalle troppo curve, per un uomo così giovane. Rassicurato dalla certezza che avrebbe trovato in Guillaume un attento interlocutore. Scosse il saio per togliere un po’ di farina che vi si era depositava, poi prese per la cavezza il docile ronzino e si avviò verso casa.
la stanza delle macine era immersa nella penombra; la luce che entrava dalla stretta finestra non bastava ad illuminarla. Il pavimento era ricoperto da un tappeto bianco, impalpabile e morbido di farina. Guillaume e il mugnaio erano distesi di fianco alla pesante ruota. Non si accorsero di Ronan finché non starnutì a causa della polvere che gli irritava le narici e gli faceva lacrimare gli occhi. Guillaume guardò nella sua direzione, ma continuò ad armeggiare intorno alla ruota insieme al mugnaio.
«Salve, Ronan» lo salutò ansante. «Questo dannato dente non vuol saperne di entrare al suo posto.» Poi si rivolse al mugnaio: «Riuscite a spingere ancora un po’?»
«Ecco, così … ancora un po’.» Si udì uno scatto secco. «Ecco fatto, provate a farla girare.» Spinta dal mugnaio, la ruota cominciò a girare lentamente ma senza trabalzi.
«Bene, adesso è a posto» disse Guillaume rimettendosi in piedi, tutto rosso e sudato. Anche il mugnaio si alzò, massaggiandosi i lombi doloranti.
«Vi ringrazio dell’aiuto, da solo non ci sarei mai riuscito» disse il mugnaio.
«Ah, questa vecchia signora, voleva solo un po’ delle vostre attenzioni» scherzò Guillaume. Si ripulì le mani unte in uno straccio e rivolse la sua attenzione al giovane, che pazientemente lo stava attendendo seduto in un angolo.
«Allora Ronan, cosa ti porta qui a quest’ora? Dovresti già essere a casa.»
«Dovevo parlarti» rispose il giovane in tono serio.
«Allora è una cosa grave, se non potevi attendere domani.»
«Vieni, usciamo» lo invitò, un poco allarmato dal tono cupo dell’amico.
L’aria della sera era frizzante e una leggera bruma aleggiava sopra l’erba alta.
«Ho deciso di partire» annunciò Ronan, senza preamboli.
Consapevole della cocciutaggine dei Bretoni, Guillaume meditò sulle parole che potessero suonare il più convincenti possibile per dissuaderlo dal prendere decisioni avventate.
«Ti sembra una decisione saggia?» domandò cauto. «Si sta avvicinando l’inverno e Dio solo sa cosa ci riserva.»
«Se parto adesso, avrò passato le montagne prima dell’inverno» replicò.
«Sulle montagne l’inverno arriva prima, te lo sei dimenticato? Probabilmente sarà già caduta la neve. E poi, perché tanta fretta? Aspetta la prossima primavera; allora partiremo insieme.»
«Passare tutto l’inverno in questo posto?» reagì Ronan.
«Beh, è un posto come un altro, con la differenza che qui hai un tetto sopra la testa, degli amici che ti vogliono bene e si prendono cura di te» replicò contrariato.
«Lo so,» rispose Ronan mortificato. «Non sono un ingrato, ma io … »
«Si può sapere cosa ti sta succedendo? Cos’è tutta questa smania improvvisa di partire?» lo incalzò.
«Se non mi fossi ammalato, a quest’ora saremmo già a Roma … » tergiversò.
«Ma, ti sei ammalato Ronan, e questa è la realtà. A questo puno, mese più mese meno, che differenza può fare?» Ronan cercò una valida ragione per controbattere, ma non ne trovò.
«Allora, vuoi dirmi qual è la vera ragione, o devo aspettare tutta la notte?» Ronan cercò una menzogna convincente, ma non la trovò. E poi, Guillaume era un amico, avrebbe capito.
«Non posso più restare a casa del fabbro» esordì.
Guillaume camuffò un sorriso con un colpo di tosse. Attese paziente che l’amico si confidasse. Era curioso di sapere se la sua intuizione era corretta.
«Mi sento un mendicante» proseguì. «mangio il loro cibo, dormo sotto il loro tetto e non ho nulla da dare in cambio.»
«Aiuti il fabbro, no?»
«Sì, ma non conosco il mestiere, come non so fare il mugnaio o il farmacista. non so fare niente Guillaume, niente che possa essere utile in questo posto. mio padre mi ha insegnato a cacciare nella foresta, a scuoiare gli animali, ad abbattere gli alberi, tutte cose che qui non servono!» Preso dalla foga, Ronan aveva alzato il tono della voce ed era tutto rosso in viso.
«Un’ottima ragione per restare» ribatté Guillaume con calma serafica. «Puoi imparare un mestiere, mica puoi fare il pellegrino tutta la vita! Sei un ragazzo sveglio, impareresti in fretta.»
Ronan fu costretto ad ammettere che il ragionamento dell’amico non faceva una grinza, ed era decisamente a corto di argomenti per controbattere.
«C’è un’altra ragione per cui non posso continuare a stare dal fabbro» confessò vergognoso.
«E questa ragione ha un nome Magdala, se non ricordo male.»
Ronan arrossì fino alla radice dei capelli, ma la paterna comprensione dell’amico lo indussero a confidargli i suoi sentimenti e il cruccio che lo gioiosoormentava dopo la conversazione avuta con la ragazza nel pomeriggio.
«Forse è ancora troppo giovane per pensare al matrimonio» ipotizzò Guillaume.
«Troppo giovane!» replicò il giovane. «Ma se le mie sorelle non pensano ad altro da quando avevano dieci anni!»
«Caro Ronan, le donne sono un mistero, credimi. Ad ogni modo, se non vuoi restare a casa del fabbro, Gerlando sarà felice di ospitarti. E se sei un bravo cacciatore, come dici, nei boschi tra qui e Vercelli ci sono lepri e cervi che aspettano di finire sullo spiedo. Per questa notte dormirai alla capanna e domani andremo insieme dal fabbro a definire la questione. Andiamo.»
Guillaume guardò Ronan che dormiva profondamente, avvolto nella pele di pecora. Anche Gerlando riposava sereno sul suo pagliericci, ne udiva il respiro irregolare e un poco ansante. Senza far rumore uscì e andò a sedersi fuori sulla panca di sasso. Nel cielo di velluto nero punteggiato di stelle, il faccione della luna piena pareva sorridergli. Il silenzio era totale; non si udivano né grilli, né ranocchie né cicale. I pensieri turbinavano nella mente insieme ai ricordi di quando non era Guillaume ma Guglielmo e aveva una casa, una famiglia, un amore.
«Cosa ti turba?» Gerlando era venuto a sedersi al suo fianco.
«Domani accompagnerò Ronan a casa del fabbro e la rivedrò, Gerlando. Una parte di me non ne vede l’ora, ma l’altra è furibonda e tormentata perché adesso lei appartiene ad un altro, mentre poteva essere mia, capisci?» Per sfogare la frustrazione, non potendo gridare per non svegliare Ronan, prese a calci un ciottolo che ricadde nell’erba con un tonfo.
«Non devi angustiarti in questo modo» lo esortò l’amico. «È passato tanto tempo e il destino ha fatto il suo corso. Contro di lui non possiamo fare nulla, solo accettarlo nel bene e nel male.» Ma Guillaume era troppo sconvolto per accettare quella verità.
«Se quella notte non fossi fuggito, le cose sarebbero andate in maniera diversa e adesso sarei con lei e sarei felice, capisci Gerlando, felice!»
«Sai bene anche tu che l’unica cosa saggia che allora potevi fare era fuggire. E poi chi ti dice che l’avresti sposata? Suo padre, se non ricordo male, l’aveva promessa al figlio cadetto di un signore dei dintorni.»
«Non avrebbe mai sposato quel cicisbeo!»
«Allora avrebbe dovuto entrare in convento, non aveva scelta, e tu non l’avresti avuta comunque.»
«No, Gerlando, l’avrei avuta» insistette caparbio, contro ogni logica. «Saremmo fuggiti insieme. Se non fosse stato per quell’incidente … »
«Oh certo, sareste fuggiti. E che genere di vita le avresti potuto offrire? Braccati dai soldati di suo padre e da quelli del suo promesso sposo. Non, sareste arrivati nemmeno a Vercelli. Meglio che le cose siano andate come sono andate.»
Razionalmente, ma solo razionalmente, Guillaume concordava col suo amico
ma rivedere Marta aveva riaperto una ferita mai cicatrizzata e il vecchio dolore si era riacutizzato.
«Ad ogni modo, domani devo trovare il modo per restare solo con lei. Ho bisogno di parlarle, devo sapere … » si impuntò.
«Sei certo di volere sapere? Dammi retta Guillaume, lasciala in pace. Sei un uomo adulto adesso, ragionevole. E se almeno lei ha trovato un po’ di pace, non sconvolgere la sua esistenza.»
Guillaume non rispose, ma continuò a misurare a grandi passi il vialetto di pietre. Con fatica, Gerlando si alzò dalla panca. «Le mie ossa non vanno d’accordo con questa umidità. Buona notte, Guglielmo.» Zoppicando, rientrò nella capanna, lasciando l’amico a combattere con i suoi demoni.
Lasciarono la capanna poco dopo il sorgere del sole. Avvolti nei loro mantelli per proteggersi dall’umidità, camminavano in silenzio. In lontananza si udivano i rintocchi delle campane dell’Angelus. Lungo la via incontrarono i contadini diretti ai campi per gli ultimi lavori prima del riposo invernale. Alcune donne uscivano dalla chiesa al termine della Messa bassa. Arrivarono alla bottega del fabbro sotto una pioggerella fine e gelata.
«Va ad aspettarmi in casa, voglio scambiare due parole a tu per tu col fabbro» disse Guillaume. Ronan annuì e si diresse verso quella che per tre mesi era stata la sua casa.
Il fabbro era già al lavoro; il fuoco rischiarava la stanza buia e bassa. Sulle pareti annerite dal fumo erano appesi in bell’ordine martelli, mazze, tenaglie e scalpelli. Un’incudine troneggiava sul ceppo di rovere massiccio. Il fabbro stava forgiando un pezzo di ferro incandescente che poi immerse in un mastello pieno d’acqua. Una nuvola di fumo acre riempì la stanza, mentre il ferro si raffreddava frigolando.
«Buon giorno a voi» lo salutò Guillaume, oltrepassando l’arco della bassa apertura. L’uomo rivolse uno sguardo diffidente al nuovo venuto. Dalla tasca del grembiule di cuoio estrasse un fazzoletto con cui si asciugò l’ampia fronte imperlata di sudore.
«Cosa posso fare per voi?» domandò con fredda cortesia.
«Vorrei parlarvi di Ronan, se avete la bontà di ascoltarmi» rispose.
«Vi ascolto» affermò, rigirando tra le molle una barra di ferro che, arroventandosi si colorava di un rosso brillante.
«Grazie alle cure di vostra moglie e di Magdala, non gli riuscì proprio di dire vostra figlia, il ragazzo si è ben ristabilito e vorrebbe partire.»
«Padrone di andarsene» rispose il fabbro, senza distogliere l’attenzione dal suo lavoro.
«Vi ha arrecato disturbo?»
«Affatto; e poi di lui si sono occupate soprattutto le donne.»
«Vi aiutava in bottega?»
«Credetemi, quel ragazzo non sarà mai un fabbro. Viene a bottega, sì, ma non é di grande aiuto, anche se, devo riconoscere, la volontà non gli manca. E comunque è troppo gracile per questo lavoro.»
«Voi siete molto bravo» si complimentò Guillaume, ammirando con sincero apprezzamento i lavori allineati su di uno scaffale.
«Di buona grazia, cosa volete da me?» domandò il fabbro, con una punta di insofferenza nella voce.
«Vorrei che mi aiutaste a convincere Ronan a restare fino a primavera.»
«Vi sta a cuore quel ragazzo, vero?» replicò il fabbro con pacata benevolenza.
«Sì, è un bravo figliolo, ma è anche testardo e incosciente. Ha abbastanza coraggio per affrontare i pericoli, ma non è abbastanza saggio per evitarli.»
«Vero, alla sua età si agisce senza pensare alle conseguenze» confermò il fabbro. Guillaume intuì che quelle parole erano dirette a lui. Significava che il fabbro conosceva il suo passato e questa scoperta lo turbò profondamente. Continuò, comunque a perorare la sua causa.
«Se partisse ora, le probabilità che arrivi a Roma sano e salvo sono scarse. Ho cercato di convincerlo, ma è un bretone cocciuto e non mi dà ascolto.»
«Ha del coraggio il ragazzo. Vedrò cosa posso fare per convincerlo.»
«Se avesse la possibilità di imparare un mestiere, avrebbe un motivo per restare.»
«Ho un amico falegname, gli chiederò di prenderlo a bottega. È sveglio, imparerà in fretta.»
«Vi ringrazio per il disturbo che vi prendete.»
«Siete un brav’uomo, e se posso esservi d’aiuto lo faccio volentieri, ma adesso devo tornare al mio lavoro.»
«Tolgo il disturbo, Vi ringrazio ancora. Che il Signore ve ne renda merito. Addio.»
Dalla chiacchierata col fabbro aveva ottenuto più di quanto avesse osato sperare; da una parte un buon alleato per convincere Ronan a desistere dal suo proposito e dall’altra la certezza che, dietro la facciata burbera, si celava un uomo buono. Marta aveva avuto fortuna.
Ronan, appoggiato alla pietra del camino, osservava Magdala che stava spazzando il focolare con lo scopetto di saggina, sollevando impalpabili nuvolette di cenere, mentre la madre, alla madia, stava impastando il pane.
«Allora volete partire» disse la ragazza, versando la cenere in un secchio.
«Sì, sono venuto a ringraziare vostra madre e voi per tutto quello che avete fatto per me.» poi, con tono provocatorio continuò: «Non ho alcun motivo di restare.»
Magdala, indispettita dalle parole del giovane, finse di non averne afferrato il senso e cambiò discorso. «Il vostro amico partirà con voi?»
«No, lui rimane, anzi, vorrebbe che anch’io rimandassi il viaggio fino a primavera; secondo lui partire adesso è pericoloso.»
«Se fossi in voi, seguirei il consiglio del vostro amico» intervenne Marta.
«Dalla Bretagna a qui ho viaggiato da solo» rispose Ronan offeso. Marta non replicò e continuò ad allineare le formelle di pane. Magdala gli voltò le spalle. Il silenzio nella stanza si fece opprimente.
«Allora, addio» disse Ronan, uscendo. Quanto gli pesava quella parola sul cuore! Sulla porta si scontrò con Guillaume.
«Fa attenzione!» lo redarguì. «Ma dove hai la testa?»
Ronan farfugliò una scusa e uscì di corsa.
«Buon giorno a voi» salutò Guillaume. Marta non levò neppure gli occhi, Magdala accennò a un inchino, come le era stato insegnato. Guillaume le di avvicinò, frugò nella borsa e ne estrasse delle monete.
«Col permesso di vostra madre, mi fareste il favore di andare alla locanda a comprare due misure di buon vino? Vostro padre ed io dobbiamo festeggiare.» A Magdala non parve vero di avere l’occasione di uscire; nonostante il battibecco che aveva avuto con lui, desiderava rivedere Ronan. Si aggiustò il grembiule e, senza attendere il permesso della madre, prese il denaro e corse fuori.
Guillaume si avvicinò al tavolo dove Marta stava pulendo un cesto di verdure e la osservò in silenzio. La donna aveva il volto segnato da rughe profonde e gli occhi avevano perso la vivacità di un tempo, ma i suoi occhi vedevano il volto dai lineamenti perfetti che tanto amava. Lo sguardo indugiò sulle mani che stavano spezzando delle radici. Fu percorso da un brivido, al ricordo di quelle mani morbide e calde che avevano accarezzato il suo corpo, procurandogli delle sensazioni che nessun’altra donna era più riuscita a fargli provare. Provò l’impulso di stringerle tra le sue e baciarle.
Si rese conto che stava sprecando tempo; l’occasione di restare solo con lei non si sarebbe ripresentata un’altra volta. Tirò un lungo sospiro e cercò di mettere ordine nei suoi pensieri.
«Ho parlato con vostro marito di Ronan. Mi aiuterà a convincerlo a restare fino a primavera. È un brav’uomo, vostro marito» esordì goffamente.
«Sì, è un brav’uomo» confermò la donna, senza alzare gli occhi. Parlando sottovoce, quasi temesse il suono delle proprie parole, Guillaume proseguì, per nulla incoraggiato dall’atteggiamento distaccato di lei, proseguì: «Marta, vi chiedo perdono per … tutto. È passato tanto tempo, ma …»
«Dite bene, è passato tanto tempo» lo interruppe algida. «Voi faceste la vostra scelta.»
«Sapete bene che fui costretto a fare quella scelta» si accalorò. «Non sapete quanto mi costò.»
«Mai quanto costò a me.» Per la prima volta da quando era entrato, Marta lo fissò con gli occhi fiammeggianti di rabbia. ma fu questione di un momento, perché subito riprese il controllo.
«Se è il mio perdono che siete venuto a cercare, state tranquillo, vi ho perdonato tanto tempo fa.»
«Siete molto buona» rispose. «Ma ho ancora una cosa da chiedervi.»
«Domandate, allora.»
«Si tratta di vostra figlia. io vorrei sapere … io ho il diritto di sapere se …»
«Voi non avete alcun diritto!» sibilò Marta pallidissima. «I vostri diritti sono fuggiti con voi quella notte!» urlò, quasi.
«Madre!» Magdala era ferma sulla soglia e fissava la madre con gli occhi sbarrati. Alcune gocce di vino erano traboccate e le avevano macchiato il grembiule. Non aveva mai visto sua madre così alterata. A pensarci bene, non ricordava che sua madre avesse mai palesato una qualunque emozione; raramente alzava la voce e mai l’aveva sentita ridere. Marta si passò una mano sul viso infuocato.
«Va a cambiarti il grembiule» ordinò alla ragazza che porse la brocca a Guillaume e sparì nell’altra stanza.
«Addio Guglielmo» lo congedò bruscamente. Guillaume, con la brocca in mano, la osservò ancora un momento, poi, senza dire una parola, uscì. Davanti alla bottega del fabbro trovò ad attenderlo Ronan.
«Ti stavo aspettando» esordì tutto contento. «Ho accompagnato Magdala alla taverna e il fabbro mi ha detto che un suo amico falegname mi prenderà a bottega. Magdala ha detto che tu e suo padre dovete festeggiare. Che avete da festeggiare di grazia?»
Guillaume non era dell’umore giusto, ma non voleva smorzare l’entusiasmo dell’amico.
«Festeggiamo il tuo buon senso ritrovato» disse, sforzandosi di ridere. «Andiamo a casa.»
Fu una lunga notte per Guillaume; Morfeo si era dimenticato di lui e così era lì, disteso sul pagliericcio con gli occhi sbarrati nel buio.
La prima volta che l’aveva incontrata Marta stava piangendo. Sua madre l’aveva mandato a palazzo a portare le uova e le verdure fresche. Solitamente ci andava lei perché era amica di Menica, la cuoca, e ne approfittava per fare qualche pettegolezzo. Ma quel giorno il suo fratellino era ammalato e lei poteva lasciarlo solo, così era toccato a lui andare a palazzo. Per l’occasione aveva indossato pantaloni ‘buoni’ che già gli andavano corti, ma erano gli unici che aveva. Sua madre aveva disapprovato la sua scelta: «Non è domenica, non c’è ragione perché tu debba consumare i calzoni buoni» aveva brontolato. Ma lui si era impuntato: «Non andrò a palazzo con i calzoni rattoppati.» Sua madre alla fine aveva accettato, raccomandandogli di non arrampicarsi sugli alberi, di non sporcarli e di non strapparli. Finalmente gli aveva messo in mano la cesta, con l’ultima raccomandazione di non fermarsi a gironzolare nei boschi, ma di tornare a casa subito.
L’aveva vista nel cortile del palazzo, in piedi davanti a un albero di ciliegio e stava piangendo. indossava, ricordò, un abitino verde malva e aveva i capelli raccolti sotto una cuffietta ricamata. Aveva posato la cesta e le si era avvicinato. Seguendo la direzione del suo sguardo, aveva scoperto la causa del suo pianto disperato. Il suo micino si era imprudentemente arrampicato sull’albero e non sapeva più scendere. Dimenticando le raccomandazioni ricevute, aveva tolto gli zoccoli e in un lampo si era arrampicato. Non era stato facile recuperare la bestiola che, spaventata, indietreggiava soffiando e graffiando. Alla fine l’aveva abbrancato per la collottola ed erano scesi. «Ecco il vostro gattino» le aveva detto, porgendole la bestiola. Lei l’aveva ringraziato tra le lacrime. «Siete stato molto coraggioso» l’aveva elogiato e lui era arrossito imbarazzato. Poi, aveva notato i graffi che le unghiette del felino gli avevano disegnato sugli avambracci e l’aveva portato in cucina a farsi medicare da Menica. Poi, l’aveva accompagnato fino al cancello; lui, che non era mai stato tanto vicino ad una ragazza, non sapeva cosa dire. Anche lei era silenziosa; accarezzava il gattino addormentato tra le sue braccia. «Tornerete?» gli aveva chiesto prima di separarsi. «Non lo so, forse», aveva risposto impacciato, ma non si era mai sentito tanto felice in vita sua.
A quel primo incontro ne erano seguiti altri; lei era diventata bravissima ad eludere la sorveglianza della madre e della fantesca; lui sfruttava il pretesto di andare a raccogliere la legna o la paglia, dopo il lavoro a bottega. Si incontravano in fondo ad una radura, era il loro nascondiglio. Che giorni felici erano stati quelli! Poi gli avvenimenti erano precipitati: Un giorno era arrivata sconvolta perché suo padre le aveva annunciato che l’aveva promessa in moglie ad uno dei figli di un signore col quale aveva rapporti di amicizia e di affari. Lui l’aveva consolata e, per la prima volta, si erano amati. A distanza di tanti anni, Guillaume ancora sentiva il profumo della sua pelle mescolato a quello del muschio. Si erano incontrati molte altre volte in quella radura, finché il fratello di lei li aveva scoperti. Aveva urlato, l’aveva insultata, e quando aveva alzato il braccio per schiaffeggiarla lui, accecato dalla rabbia, aveva preso un sasso e l’aveva colpito alla nuca. L’uomo si era caduto in una pozza di sangue. L’aveva ucciso. Lei aveva iniziato a urlare «Scappa, scappa!» e lui era fuggito in Francia quella stessa notte.
Si alzò. Era quasi l’alba e nella capanna faceva freddo. Accese il fuoco e mise a scaldare dell’acqua. Prese una tazza di farina di riso, vi versò l’acqua calda e aggiunse un cucchiaio di miele.
«Buon giorno» lo salutò Ronan, sbadigliando.
«Tieni, mangia» gli disse sgarbatamente, mettendogli davanti la ciotola di pappa di riso. «E sbrigati a prepararti, il mugnaio ci aspetta.» Mentre mangiava in silenzio, cercava di immaginare la causa del pessimo umore dell’amico, ma si guardò bene dal fare domande. Anche il tragitto fino al vicino mulino si svolse in silenzio e in silenzio aiutarono il mugnaio a caricare i sacchi di farina sul carro che avrebbero poi scaricato dai vari compratori. Un paio di sacchi erano destinati agli abitanti del palazzo, a Tronzano.
La prima cosa che Guillaume notò entrando nella corte era che il ciliegio non c’era più. La facciata, che tanto lo aveva impressionato da ragazzo con i suoi stucchi e le sue volute era tutta scrostata e nella stanza, che una volta era la cucina, erano accatastate casse, vecchi sacchi e attrezzi da lavoro arrugginiti. E dov’erano finiti gli arazzi, i tappeti gli specchi preziosi, i cassettoni, le sedie intarsiate tanto decantati dalla Menica? Rubati dalle soldataglie, probabilmente.
Scaricati i sacchi, il mugnaio prese il cavallo per la cavezza e uscì dal cortile, seguito da Ronan, mentre Guillaume indugiò ancora un momento, perso nei suoi ricordi. Avevano appena varcato il cancello che furono investiti dalla polvere sollevata dagli zoccoli dei cavalli di un gruppetto di uomini che arrivava al galoppo. L’uomo che li guidava tirò le redini e il suo cavallo sollevò le zampe anteriori con un nitrito di protesta.
«Buono» lo ammansì il cavaliere, accarezzandogli la criniera.
«Salute a voi» disse, rivolto al mugnaio. Il suono di quella voce attirò l’attenzione di Guillaume. Nonostante la barba grigia e le rughe sul volto cotto dal sole, riconobbe, senza ombra di dubbio, il cavaliere. Era il fratello di Marta, l’uomo che lui aveva ucciso. Temendo di essere riconosciuto, istintivamente girò la testa dall’altra parte; ma l’uomo, dopo aver scambiato poche parole col mugnaio, si diresse alle stalle, seguito dai suoi uomini.
«Sembra che abbiate visto un fantasma» osservò il mugnaio, fissando il volto terreo di Guillaume.
«Chi era quel cavaliere?» domandò, con un tono volutamente indifferente.
«Il Signore di Tronzano, Carlo Vittorio. Brava persona, uguale a suo padre» rispose il mugnaio, ignaro del subbuglio che quell’incontro aveva provocato nell’animo dell’uomo.
«Avevo sentito dire che era morto» azzardò.
«Chiacchiere! È vero, si ammalò di peste perché quando scoppiò l’epidemia suo padre, che Dio l’abbia in gloria, aprì le porte del palazzo e lo trasformò in un lazzaretto. Lui e la sua famiglia si ritirarono a vivere in un paio di stanze. Tanta gente del Borgo è guarita grazie alla sua generosità. Anche suo figlio si è salvato» spiegò.
«Aveva anche una figlia» buttò là, attento a non far trapelare l’ansia che quasi lo soffocava.
«Sì, una bella ragazza. Un giorno scomparve e non si seppe più nulla di lei. La gente diceva che si era ritirata in convento, che era andata in sposa ad un signore forestiero, addirittura che era morta. Poi, un giorno, dopo tanti anni, il padre era già morto, è tornata. Aveva sposato un fabbro di non so dove e avevano una bambina. Abitano verso San Martino.»
«Allora la moglie del fabbro è una aristocratica.»
«Certo a vederla adesso non lo immagineresti, ma era una gran bella ragazza e c’era una fila di pretendenti lunga così.»
Guillaume non osò insistere oltre, temendo di apparire troppo interessato e di suscitare, di conseguenza, la curiosità del mugnaio. Pertanto,distolse l’attenzione dell’uomo, chiedendo informazioni sui raccolti, sulle macine, sulla qualità delle farine. Quando tornarono alla capanna, era tornato ad essere il gioviale Guillaume di sempre. Mentre percorrevano il breve tratto di sentiero verso la capanna propose a Ronan una battuta di caccia nei boschi di Sali.
Fu un inverno rigido, ma non si diffusero epidemie particolarmente gravi. Ronan si era appassionato al suo nuovo lavoro e stava imparando a lavorare il legno. Gli piaceva il profumo che sprigionava dalle assi quando e piallava, lo scricchiolio dei trucioli sotto gli zoccoli. Non era stato facile imparare a usare gli attrezzi del falegname e sovente tornava a casa con i palmi delle mani in fiamme per le vesciche e i tagli.
«Il legno non è come il ferro» gli aveva spiegato il falegname. «È materia viva, devi conoscerlo, rispettarlo, e allora lui si lascerà lavorare.»
Guillaume, da parte sua, trascorreva la maggior parte della giornata al convento, nel laboratorio di Padre Raniero. Aveva fatto amicizia col piccolo Jacopo Scaglia. Il ribelle ragazzino, superata un’iniziale diffidenza, ascoltava affascinato le storie di briganti e di battaglie che Guillaume gli raccontava mentre pestavano le erbe nel mortaio.
«Hai conquistato la fiducia del giovane Jacopo» disse Padre Raniero, mentre passeggiavano per il cortile. «Da quando siete diventati amici Jacopo è cambiato in meglio; arriva puntuale alle funzioni, lavora con lena, ubbidisce senza discutere. Mi chiedevo, amico mio, se questo tuo interessamento al ragazzo non abbia un fine … recondito.»
«Io non … » protestò; ma Padre Raniero lo zittì con un gesto autoritario della mano.
«Tu sai chi è suo padre, vero?» domandò.
«Quello Scaglia» rispose Guillaume, che dopo l’inaspettato incontro con il signore di Tronzano, aveva fatto delle ricerche sul suo conto. «Quello che credevo di aver ucciso quella maledetta notte.»
«Gli desti una gran botta!» confermò il frate. «Ma non lo uccidesti. A quel tempo ero un apprendista e accompagnai il frate speciaro a palazzo. Fu la prima e unica volta che feci un viaggio in carrozza. Guillaume, tu puoi avere dei motivi di rancore nei confronti di suo padre e se vuoi vendicarti sono affari tuoi, ma non mettere di mezzo il ragazzo. Tu sei la prima persona per la quale prova ammirazione e di cui si fida. Se lo tradisci lo rovinerai per sempre e avrai sulla coscienza un peccato mortale.»
«Non tradirei mai la fiducia di quel ragazzo, Raniero. Gli sono sinceramente affezionato. Non ho mai detto una parola contro suo padre e lui non ne parla. Se prova del rancore verso di lui, non son stato io ad istigarlo.»
«Perdona la mia sincerità, ma volevo essere certo che i tuoi sentimenti nei suoi confronti fossero limpidi.»
Nevicava; i fiocchi morbidi piovevano sulla testa e sulle mani di Ronan. Cadendo regolarmente, la neve cominciava a cancellare persino le orme dei suoi zoccoli. Faceva un freddo aspro, stagnante e umido. I salici e gli ontani ai bordi della strada sembravano muti giganti con le braccia aperte. Il silenzio era opprimente, cupo come l’umore di Ronan. Aveva sperato di rivedere Magdala alla festa di Sant’Agata, ma il suo era rimasto un pio desiderio e la frustrazione lo tormentava. C’era un altro pensiero che lo assillava, e presto avrebbe dovuto prendere una decisione importante dalla quale dipendeva il suo futuro.
«Dopo carnevale ripartirò» annunciò Guillaume quella sera mentre sedevano a tavola. «Le giornate si stanno allungando e, come dice il proverbio, “alla Candelora dall’inverno siamo fora.”
«Verrò con te.» affermò Ronan. Ma all’amico non sfuggì l’esitazione nella sua voce.
«Non devi sentirti obbligato a venire con me, Ronan. Ora hai un lavoro, una casa e un … sentimento da coltivare. Sei sicuro di voler abbandonare tutto?»
«A un pellegrino non servono né un lavoro né una casa e per quanto riguarda … lei, non l’ho più vista. Non credo che provi interesse per me» rispose, con una punta di rammarico.
«Oh, le interessi eccome, credimi. Ronan, non prendere decisioni affrettate, potresti pentirtene in futuro» lo ammonì.
«Verrò con te» ribadì, in tono di sfida.
«Va bene» convenne Guillaume. «Se è quello che desideri.»
Ronan lasciò la stanza per andare a coricarsi.
«Testardo di un bretone!» brontolò a bassa a voce. Uscì sbattendo la porta e si diresse verso Porta Tronzania.
Dovette bussare alla porta a lungo prima che Marta venisse ad aprire.
«Mio marito non c’è» disse attraverso lo spiraglio della porta.
« È con voi che devo parlare» mormorò Guillaume.
«Non vi voglio ascoltare» rispose gelida.
«Vi prego, Marta, si tratta di Magdala e di Ronan. Vi scongiuro, ascoltate ciò che ho da dirvi» la supplicò.
«Aspettatemi alla chiesa di San Martino» affermò dopo un momento di riflessione.
«Perché siete tornato, Guglielmo?» chiese Marta, seduta di fianco a lui sul banco della chiesetta.
«Non ne avevo l’intenzione. È stato il destino. Una notte incontrai Ronan fuori dalle mura di Sant’Ia. Era solo, affamato e stanco; inoltre era stato aggredito da una banda di briganti che lo avevano derubato. Abbiamo dormito nella chiesa di San Nicolao e il giorno dopo l’ho portato in una locanda; quel povero ragazzo non faceva un pasto decente da giorni. Poi siamo andati al convento a salutare Padre Raniero. L’intenzione era di ripartire il giorno stesso, ma la bufera ci ha costretti a rimanere. Poi Ronan si è ammalato. Se il mio ritorno vi ha turbata, vi chiedo perdono» mormorò. «Comunque, molto presto riprenderò il mio pellegrinaggio.»
«Ronan partirà con voi?» domandò, ansiosa.
«Lui dice di sì, ma io farò di tutto per dissuaderlo.»
«Per mesi ho atteso invano il vostro ritorno, e ci sono voluti anni per trovare un po’di pace» confidò la donna. «Il Signore mi ha concesso il dono di Magdala, lei è tutta la mia vita, ma quando la guardo negli occhi …» Cambiò prontamente discorso. «Quando vi vidi scaricare il corpo di Ronan dal carro, vi riconobbi subito, nonostante fossero trascorsi tanti anni da quella notte in cui fuggiste senza dire a nessuno dove eravate diretto.»
«Non sapevo nemmeno io dove sarei andato.» Prese tra le sue la mano della donna. «Marta, credevo di aver ucciso vostro fratello, che altro potevo fare se non fuggire? Vi avrei fatto avere mie notizie tramite Gerlando, ma scoppiò la peste e rimanemmo isolati. Presi una decisione troppo affrettata, lo capii quando era troppo tardi che ha causato molto dolore ad entrambi. Marta, non permettete che anche nostra, vostra figlia debba attraversare un simile calvario.» Marta piangeva silenziosamente.
«Cosa volete che faccia?» domandò tra i singhiozzi.
«Parlatele, raccontatele la nostra storia. Ronan vuole partire perché crede che lei non provi alcun interesse per lui. Sappiamo entrambi che non è vero. Marta, aiutatemi; la loro felicità ci ripagherà di tutto il dolore che abbiamo dovuto sopportare. »
Marta lo guardò negli occhi, gli stessi occhi profondi di sua figlia, che gli avevano dato la forza di vivere durante quei lunghi tormentati anni e promise che avrebbe parlato a sua figlia. Si alzò per andarsene. «Addio, Guglielmo.»
In una fredda mattina, tre figure avvolte in pesanti mantelli camminavano silenziose verso Porta Vercellina. Sotto il portone, si salutarono; una imboccò la via dei pellegrini, mentre le altre due, strette l’una all’altra tornarono verso casa.
Maria Lacchio
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