Mentre suo marito abbanniava la merce, Calogera Biancofiore, proprio sopra la carnezzeria, urlava da più di un’ora la nascita dell’ultimo dei suoi figli.
Nessuno, però, ebbe modo di sentirla malgrado le sue urla squarciassero l’aria e smuovessero la terra.
La mammana sospirò:
“All’undicesimo figlio ti uscirà pure l’anima dallo sticchio”.
Quel giorno, in prossimità della festa di Santa Rosalia, rigorosamente dopo che la mammana ebbe sistemato le banconote in sacchetta previo scrupoloso conteggio che faceva invidia al più esperto dei banchieri, nacque appunto Norman Rosalino che venne fuori bello pasciuto e con tante piegoline di carnuzza tenera. La mammana lo taliò e lo soppesò di sopra e di sotto e per fortuna non trovò traccia dell’anima di sua madre.
“T’a facisti franca stavota”.
Gera non riuscì a trattenersi perché poco tollerava le osservazioni di ‘gnà Tudda che riuscivano a incarognire anche il più mite dei cristiani e con un soffio che sembrò decogestionare la faccia dalla stanchezza e dagli scampoli del dolore non seppe trattenersi e senza riguardo né del neonato né dell’altra figlia che aveva assistito con due occhi così e il cuore in tumulto disse:
“A mmia mi piace ficcare cu me’ marito, vabbè?”
Fu come un tuono che improvvisamente zittì la mammana. ‘Gnà Tudda non potè che fare cenno alla piccola Sharon Catena di avvicinarsi e le disse di andare dal prete, di dirgli che sua madre aveva sfornato di nuovo e che doveva necessariamente venire per assicurare a tutta la famiglia che la sua anima era salva ma non ancora in grazia di Dio.
“E se ti chiede a cu’ apparteni dicci a Giuvannuzzu l’Affilacuteddu, accussì lo capisce : chiddu ormai è talmente stolito ca cunfunni le grazie dintra le mutanne della cammarera con le stimmate di ddu poviru Cristu chi avi ‘nta chiesa!”
‘Gnà Tudda ottemperava ai suoi doveri non del tutto convinta che l’anima avesse deciso di starsene dov’era e col sospetto che avrebbe lasciato Gera in preda alle brame del diavolo.
“Basta ca ci attuppa ‘u purtusu!” – pensava.
Nel frattempo Sharon Catena arrancava per le viuzze cercando di non scivolare sull’acqua che scolava dalle balate o sui cespi di lattuga decapitati o sui gambi barbuti dei finocchi. Era tutta trafelata e, non ancora cosciente di quanto stesse succedendo, appena ebbe girato sulla stratuzza e dopo aver tuppuliato alla porta del prete comprese che forse solo i fratelli più grandi avrebbero potuto darle una spiegazione. Sharon Catena lo vide tutto sudato, con un fazzoletto in mano che percorreva chilometri tra la fronte, la bocca, il collo e la nuca. Di dentro si stava consumando un’altra camurrìa. Sharon Catena sentì le urla ma non ci fece caso.
Il parrino preparò l’ennesima truscitedda. Lasciò la cammarera in un bagno di sudore e priva di sensi alle cure della mammana dell’Albergaria che fece venire apposta perché quel giorno giusto giusto a tutti ci veniva in testa di partorire.
“Dicci ca murìu”.
Entrò a casa di Gera tutto inquieto e con gli occhi spiritati. Posò a terra la truscitedda. La svolse.
“Trovaci un nome”, disse ma fu solo un lieve sussurro che nessuno lì dentro aveva sentito.
Lo mise accanto a Norman Rosalino e sospirò. Poi con voce che avrebbe potuto competere con quella dei banniatori, il tono sentenzioso che era solito usare durante le omelie e l’estro recitativo che lo possedeva solo durante le rappresentazioni della Quaresima aprì la finestra e urlò:
“Due gemelli sono!”.
Gera Biancofiore sbiancò ma non disse nulla: il parrino sapeva essere grato. Come sempre dopotutto. Sharon Catena sospettò che forse i fratelli non avrebbero saputo trovare spiegazioni a quest’ultimo mistero. E ‘Gnà Tudda, dal canto suo, suggellò la nascita dei gemelli con una sonora ma ignorata scoreggia.
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