La ignorano i programmi scolastici: per indolenza e crassa ignoranza, soprattutto per non distrarre i ragazzi dal mirabile percorso formativo di grandi fratelli e/o isole dei famosi.
La ignorano critici e giornalisti: è roba d’altri tempi, a che scopo farla conoscere? E, poi, quale ritorno economico avrebbero? In questo campo, vige un rigoroso do ut des.
La ignorano perfino gli ambienti religiosi, che pure le devono tantissimo. D’altronde, viviamo in un brutto periodo nel quale anche la bestemmia è contestualizzata.
Considerando le dovute eccezioni nei summenzionati contesti, questo l’amaro destino – tutto sommato, anche da viva – della più grande scrittrice siciliana: Angelina Lanza Damiani.
Nacque a Palermo il 13 febbraio 1879 e morì a Gibilmanna il 6 maggio del 1936. È sepolta a Palermo, nel cimitero di Sant’Orsola. Di sicuro ereditò dai genitori genio, delicatezza e sensibilità. Figlia, infatti, del celebre architetto Giuseppe Damiani Almeyda e della poetessa Eleonora Mancinelli, sposò nel 1898 – ad appena diciassette anni - l’avvocato e naturalista Domenico Lanza. Nonostante l’agiatezza, non ebbe una vita serena. Tuttavia, trovò nella scrittura e nell’ascetismo il conforto necessario per continuare a vivere e lottare. Scrisse molto, soprattutto poesie: Le rime dell’innocenza (1903), La fonte di Mnemosine (1912), Liriche e poemetti (1913-1918), La morte e la vita (1929-1932). Tali opere riscossero un notevole successo (soprattutto La fonte), il suo nome fu inserito in enciclopedie e annali di letteratura italiana e siciliana, ebbe il plauso di Ada Negri, Donadoni, Di Giovanni , Bodrero, Cesareo. Il corso sereno della sua vita - trascorsa tra la residenza di Palermo (via Butero) e la villa di Gibilmanna – già tediato dalla Grande Guerra, subì una brusca interruzione con la morte delle figlie, Antonietta (1918) e Filippina (1922), falciate dalla tubercolosi. Cadde in un baratro di profonda depressione, tanto da abbandonare la poesia e, addirittura, entrare in contrasto con il marito. In suo soccorso, giunse padre Giustino del convento di Gibilmanna, che la mise in contatto con il celebre sacerdote e filosofo Antonio Rosmini, all’epoca perseguitato per la pubblicazione di due opere messe all’Indice: Le cinque piaghe della Santa Chiesa e La costituzione secondo la giustizia sociale. La Poetessa s’immerge nello studio del pensiero rosminiano con tutta se stessa e opera una totale rottura con il mondo terreno: è totale conversione, dedizione a Dio. Poco dopo, nasce l’ultima figlia, Filippina Antonietta, e lei ritorna e scrivere, ma si scosta dalla poesia per dare preferenza alla narrativa. È in questo contesto che compone un libro d’infinita delicatezza, La casa sulla montagna, apparso a puntate – tra l’aprile del 1935 e il giugno del 1937 – sulla rivista romana Lumen. Fu pubblicato, nel 1941, dalla Casa editrice Sodalitas di Domodossola. Probabilmente perché si era in pieno conflitto mondiale, non ebbe successo: solo una brevissima recensione di Vittoria Fabrizi de’ Biani e una noterella sul Corriere della Sera. In tempi recenti, Angelina Lanza e le sue opere sono state riportate all’attenzione e al consenso dei lettori dal benemerito studioso e docente milazzese Peppino Pellegrino.
La casa sulla montagna
Nei trenta (brevi) capitoli si descrive il corso di un’estate, nella casa di Gibilmanna. Angelina Lanza vi giunse per la prima volta il 13 giugno del 1898, appena sposata, e vi ritornò sempre, fino al 1936. Nella casa si svolsero gli episodi più significativi della sua vita: la nascita dei figli, la morte prematura di Antonietta e Filippina, l’incontro con il filosofo Rosmini, la sua stessa morte. Qui conobbe un mondo pulito, casto, sincero. Un mondo di antiche tradizioni, che l’accolse donandole il meglio di sé: silenzio, pace interiore, foreste, placide mandrie, acque limpide, frescura, aria purissima, cieli tersi, gente semplice e fedele. Un mondo nel quale Dio amava risiedere e che si manifestava non solo attraverso lo splendore dell’ambiente naturale, ma anche toccando direttamente il cuore della diletta figlia. Dunque, la casa si trasformò in rifugio sicuro e gradito, luogo di consolazione, colloquio con il Creatore.
Il libro può essere definito in molti modi: autobiografico, antropologico, descrittivo. Senza dubbio, ciascuno di questi aggettivi ha una ragion d’essere, giacché la Scrittrice, assemblandoli in maniera eccelsa e pur discreta, ci parla delle sue emozioni, dei cari ricordi, dello splendido scenario naturale e delle figure – il giumentaro, il curatolo, il campiere - che lo animano. Tuttavia, sarebbe riduttivo limitare l’attenzione alle singole sfaccettature. Angelina Lanza, infatti, scrive una prosa che si trasforma in poesia , scrive e dipinge, scrive e scolpisce, scrive e compone musica celestiale: il trionfo dell’Arte nella sua totalità. Di più: La casa sulla montagna è un inno alla sacralità della famiglia, alla santità dei costumi, alla venerazione della natura, alla contemplazione di Dio. Dunque, perfetta unione tra Arte e Valori, in grado di saziare del tutto la sete di estetica e morale.
Una tra le pagine più struggenti: “Una torma di giumente scampananti va, lenta , all’abbeveratoio. Dietro di me, nel bosco imminente, cominciano le risse degli uccellini che vanno al riposo. Domina, ogni tanto, uno strido di ghiandaia: grandi voli neri di corvi gracchianti girano sul cielo sereno, mentre il sole cala al di là della mia casa. Da parte a parte, i raggi orizzontali attraversano ora le camere; io vedo il cielo di là, per le finestre ampie che s’aprono una di fronte all’altra. Piccola casa, finestre grandi, cielo e sole invadenti! Per un istante, ho l’impressione di vedermi davanti una grande gabbia d’uccelli, dalle sbarre spesse: E veramente vedo ombre, rapide e svolazzanti, passare pel vano delle finestre luminose, attraversate di sole. E il ricordo, accorato, mi riprende. Quelle figure giovanili, che vanno e vengono per le stanze, non sono forse ancora le figure scomparse? E l’eco che il muro pare possedere in sé, come un’anima propria, non potrebbe avere serbata un’eco di quelle voci? Quante volte, per gioco, gridarono qui il mio nome, e il loro! Quanta parte di quelle dolci anime si sparse qui, in quest’aria odorosa e limpida! E se il prodigio si avverasse? Mi alzo, quasi involontariamente, e grido il primo dei nomi dolcissimi.
“Maria Filippina”.
E l’eco: - “Filippina”.
Poi grido l’altro nome: - Antonietta”.
E l’eco: - “Antonietta”.
Ma riconosco il suono e l’accento della mia voce. Ahimè, l’illusione!
Ed ecco un’altra voce, una voce diversa, squillante, viva, risuona di tra il frumento alto, sotto la casa già ombrata. Il sole sparisce nel mare.
“Mamma!”
Ma non sono esse, le chiamate, che rispondono. È l’altra, che porta i loro nomi: s’è udita chiamare, e ha scoperto il mio nascondiglio. Viene a braccia aperte”.
Prof. Giuseppe Pitrone
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