Ho appreso per puro caso che è morta - a fine novembre dello scorso anno - un’amica cara, molto cara. Così mi piace definirla, anche se non la sentivo più da molto tempo. E tuttavia, ho l’obbligo di ricordare che è scomparsa una grande scrittrice e giornalista, la prima teologa italiana, una voce libera e fiera, una vera cristiana. A lei stavo dedicando un articolo. Anche se l’età era molto avanzata, mai avrei creduto, però, di dovere scrivere in morte. Senza odiosa e falsa modestia, ho avuto l’immenso e immeritato privilegio di parlarle, scambiare opinioni. Di questa grande donna, racconto un episodio che mi riguarda. Università, ore 9.30 circa, attendo di svolgere una ricerca di Mineralogia, ma il collega – more solito – ritarda. Vado in libreria e compro accidentalmente Le dodici lune, ritorno e mi siedo su un muretto, all’ombra dell’unico albero salvatosi dallo scempio urbanistico. Ore 14.00 circa, un’ombra mi si para dinanzi, distogliendomi un attimo dalla lettura. “E tu, che cosa ci fa qui? Dovresti essere in sala esercitazioni. È da un’ora che ti cerco”. Non rispondo a chi prima si fa aspettare e poi pretende puntualità. Anzi, no. Ricordo di avere risposto con un cenno di fastidio, un gesto della mano, come a voler dire “vai a quel paese, rompiscatole”. Riprendo la lettura, digiuno e immerso non so in quale mondo, finisco nel tardo pomeriggio. Entusiasmato, vorrei ricominciare, mi accorgo che le pagine sono zeppe di sottolineature e brevi commenti di approvazione, di punti esclamativi (quasi per magnificare l’approvazione di una frase o un periodo). Questo il mio primo ed esaltante incontro con Adriana Zarri. Nei giorni seguenti, cerco disperatamente di rintracciarla e, finalmente, sento la sua voce leggermente stridula al telefono. Dopo, numerose interazioni epistolari e ancora telefoniche. Di più. Documentandomi sulla sua vita, scopro una serie impressionante di elementi che ci accomunano: vive in campagna, ma interagisce col mondo, giacché opera un distinguo tra solitudine e isolamento; ama gli animali, lavora personalmente la terra, odia l’ambizione, è cristiana ma critica le gerarchie ecclesiastiche, è convinta che Cristo sia stato addomesticato – io uso un aggettivo ancora più violento: castrato - per non infastidire troppo i credenti di facciata. E, soprattutto, scrive. Lei capolavori, io quel che riesco e posso. Ce n’è abbastanza per instaurare un legame; adesso, per piangerla e rimpiangerla. Non voglio indulgere al pessimismo, ma di certo sarà difficile trovare una mente così acuta, una voce così libera, una credente così sincera e coerente.
Di lei m’impressionava, proprio e soprattutto, la sincerità. Non credeva all’inferno, che pure è chiaramente menzionato nel Vangelo. “ È in conflitto con la bontà infinita di Dio. Anche gli uomini intendono la pena carceraria come riscatto, nella sofferenza eterna il riscatto non c’è. Ecco perché non credo all’inferno”. Poneva di continuo domande a Dio: “Che cosa c’è nell’aldilà? Ti prego, però, fammi ritrovare le mie rose, i miei animali e tutto ciò che ho amato in questa vita”. Umanizzava Gesù: “Anche tu hai avuto paura della morte. Non mi fare soffrire, tu non amavi la sofferenza, guarivi dalle malattie”. Era figlia fedele della Chiesa, ma non tollerava tutto ciò che in essa è fondamentalismo, intransigenza (a parole), invenzione umana, potere, privilegio e che, dunque, non trova spazio nelle Scritture. Naturalmente i bigotti la criticavano: “Una teologa che scrive su Il Manifesto? Vade retro!” “Si occupa troppo di sessualità”. “Non è allineata sulle posizioni della Chiesa” e sciocchezze di tal natura.
Sì, scriveva anche su Il Manifesto, su Avvenimenti e Micromega, testate notoriamente laiche. Si vedeva spesso in televisione (Samarcanda) e partecipava a trasmissioni radiofoniche (Uomini e profeti). In sintesi, non si sottraeva al confronto, non sfuggiva ai rossi, interagiva con chiunque ricercasse la Verità-Carità. E alla Verità-Carità ha dedicato l’intera vita, anzitutto auspicando un rinnovamento della Chiesa. Attraverso i suoi scritti, metteva in discussione tanti elementi che scuotono e lacerano profondamente il mondo cattolico: il controllo delle nascite, il celibato dei preti, l’infallibilità pontificia, il potere della curia, il distacco sostanziale tra cerimoniale e autentica Fede. Perfino l’anacronistica esistenza di uno Stato. Sì, proprio quello: il Vaticano. E sognava la presenza di una donna al vertice della Chiesa stessa. Era comprensiva nei confronti delle debolezze umane, intransigente verso gli egoismi e la ricerca ossessiva di potere e ricchezze.
Per il suo impegno culturale e sociale fu insignita nel 1995 del titolo di Cavaliere di gran croce al merito della Repubblica. Il Concilio Vaticano II suscitò in tanti credenti profonde speranze di un ritorno alle origini, povere e caritatevoli del Vangelo. Adriana Zarri, prima laica a far parte del direttivo dell’Associazione teologica italiana, visse quel grandioso evento con particolare attenzione e grande coinvolgimento emotivo: prima, durante e dopo. E svolse un ruolo di primo piano nel dibattito che immediatamente si sviluppò, dentro e fuori, nel cattolicesimo. Fu impressionata e commossa da una frase, “ignoriamo, non sappiamo”, nella quale le parve di scorgere un’ammissione per le tante colpe perpetrate dalle gerarchie ecclesiastiche attraverso i secoli e, nel contempo, la scelta di un percorso di riparazione. Tuttavia, le resistenze al processo di rinnovamento furono numerose e potenti. Adriana Zarri si schierò apertamente contro tutti coloro che furono isolati e puniti solo per avere richiesto più Vangelo e meno potere. Dunque, a fianco di don Enzo Mazzi, cacciato per avere preso le difese dei giovani che avevano occupato, nel 1968, il duomo di Parma. O di Giulio Girardi, professore dell’Università salesiana, espulso per il desiderio d’instaurare un dialogo tra cristianesimo e marxismo. Adriana Zarri: una voce critica, chiara e forte contro il sopruso, l’ottusità, l’allontanamento dal vero insegnamento di Cristo, i’ipocrisia.
Come scrittrice, la ricordo solo per alcune tra le tante pubblicazioni: Impazienza di Adamo, E’ più facile che un cammello…, Erba della mia erba, Quaestio 98. Nudi senza vergogna. A quello che ritengo essere un autentico capolavoro, Dodici lune, dedicherò un articolo ad hoc.
Ma le parole più belle e struggenti, le ha riservate per la sua epigrafe:
Non mi vestite di nero:
è triste e funebre.
Non mi vestite di bianco:
è superbo e retorico.
Vestitemi
a fiori gialli e rossi
e con ali di uccelli.
E tu, Signore, guarda le mie mani.
Forse c’è una corona.
Forse
ci hanno messo una croce.
Hanno sbagliato.
In mano ho foglie verdi
e sulla croce,
la tua resurrezione.
E, sulla tomba,
non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie
che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà
che ho vissuto,
che attendo.
E scriverà il mio nome e il tuo,
uniti come due bocche di papaveri.
Carissima Adriana,
tra noi, niente paroloni. Desidero solo informarti: nella mia tomba ho deciso di far mettere La casa sulla montagna e Dodici lune. Spero che il buon Dio ti abbia fatto trovare le rose, gli animali e tutto ciò che hai amato in questa vita. E spero, soprattutto, di rivederti. A presto.
Giuseppe Pitrone
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