I piloti degli anni ’60 e ’70 non sono stati solo i più grandi interpreti, unitamente a Nuvolari e Varzi, dell’automobilismo sportivo di ogni epoca, ma soprattutto gentiluomini. E anche tra gentiluomini esiste una gerarchia. Il primo posto spetta, secondo me, a Jokim Bonnier, detto Jo, ma credo che quel secondo me sia inutile, giacché tutti ne erano e ne sono convinti. A cominciare dai colleghi meno veloci, su auto di cilindrata inferiore, che nelle lunghe corse di durata si vedevano sorpassare da Jo che alzava la mano in segno di saluto e anche di scusa, in certo qual modo. Ho un testimonianza diretta della sua eccezionale signorilità. Targa Florio 1965, eravamo arrivati tardi, non c’era stato tempo di alloggiare nel solito hotel. Dunque, posteggiamo l’Alfa Romeo Giulietta dentro Floriopoli, sistemandoci per trascorrere la notte. Era la mia prima volta, ma già conoscevo i volti e le imprese dei campioni. Dopo qualche ora mi ero appisolato, appoggiando la schiena sulla ruota posteriore destra della macchina, distendendo le gambe. Fui svegliato di soprassalto da un colpo al ginocchio sinistro. Un distinto signore con un pizzetto era inciampato proprio per causa mia. Mi chiese scusa, però, due volte. Stavo per rispondere quando trasalii, si era già allontanato. Quel viso lo avevo già visto. Sì, era lui, era Bonnier! Scattai in piedi come una molla, rovistai nella macchina, trovai il taccuino e lo rincorsi: il mio primo autografo. E, si badi bene, a ringraziare fu lui, anticipandomi. Ecco perché lo colloco al vertice dei gentiluomini, ecco perché gli ho voluto bene fin dal primo di tanti incontri. L’anno successivo fu sempre lui a indicare il mio ginocchio, ricordando l’episodio. Insomma, diventammo amici.
Figlio del noto genetista professor Gert, e appartenente a una ricchissima famiglia svedese, aveva studiato a Oxford, conosceva alla perfezione ben sei lingue. Alto, atteggiamento fiero, calmissimo in ogni circostanza, ha corso in oltre 600 gare, sia di formula sia di prototipi. Vincitore del Gran Premio d’Olanda 1959 di Formula 1, colse i maggiori trionfi proprio sulle vetture a ruote coperte: 12 ore di Sebring del 1962, in coppia con Lucien Bianchi, 12 ore di Reims 1964 con Graham Hill, 1000 chilometri di Parigi 1964, sempre con Graham Hill, 1000 chilometri del Nurburgring del 1966 con Phil Hill, 1000 chilometri di Barcellona 1971 con Ronnie Peterson, Campionato Europeo Marche 2 litri 1970, 4 ore di Le Mans 1972 con Hughes de Fierlant. In Targa Florio ha vinto due volte: nel 1960 con Hans Herrmann e nel 1963 con Carlo Mario Abate, in entrambe le occasioni su Porsche 718 (RS60 1700 e GTR Coupè). Amava molto la corsa di Florio, impegnandosi allo spasimo nelle dodici partecipazioni che lo videro sempre protagonista. E l’amore era ampiamente ricambiato da tutti gli sportivi. Attento alla sicurezza dei piloti fondò la Gran Prix Driver’s Association, con lo scopo di migliorare sia le condizioni di guida sia quelle dei circuiti. Ne fu presidente fino al 1972, anno della sua morte. Padre di due figli, aveva già annunciato il ritiro, ma il fascino di Le Mans è sempre stato irresistibile. 11 giugno 1972, ore 8.30, diciottesima ora di corsa, è alla guida della Lola T280 n° 8 di colore giallo. Dopo il celeberrimo rettilineo di Hunaudieres, sul quale si viaggia a quasi 400 km/h, ecco l’altrettanto celebre curva di Mulsanne. Bisogna scalare marce ed entrare a circa 120 di velocità, davanti ha una Ferrari GTB4 Daytona, guidata da Florian Vetsch. Un’incomprensione e Jo urta il guardrail. Vetsch si salva, lui vola addirittura falciando gli alberi che delimitano il circuito. Nonostante i soccorsi e il trasporto all’ospedale, è finita, a 42 anni. Buon Natale, caro Jo. Vorrei che inciampassi ancora sul mio ginocchio sinistro.
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