Il metodo per identificare criminali o individui sospetti attraverso le impronte digitali è noto a tutte le polizie del mondo già dall’inizio del secolo scorso. Quelle digitali sono impronte lasciate dai dermatoglifi (“disegni” alternati di solchi e creste della cute) presenti sui polpastrelli delle dita (digitali), delle palme di mani (palmari) e piedi (plantari). In rari casi mancano, dando luogo all’adermatoglifia, dovuta alla mutazione di un gene, peraltro identificato. Si hanno notizie storiche molto antiche, già nel 500 a.C. in tavolette babilonesi, sulle quali costituivano una sorta di firma. Il loro studio scientifico prende il nome di dattiloscopia. Sul merito della scoperta, si possono elencare diversi nomi: Marcello Malpighi (1665), Nehemiah Grew (1684), A. Mayer (1788). Nel 1880, sulla rivista Nature, appare un articolo di Henry Faulds, medico e missionario, che propone l’utilizzo per fini giudiziari, basando la sua idea sulla individualità delle impronte stesse. L’individualità, cioè l’unicità, e la persistenza (non cambiano con l’avanzare degli anni) costituiscono condizioni indispensabili per adoperare il metodo. Tra l’altro, intervenire chirurgicamente per modificarle è, di fatto, quasi impossibile. Nello stesso periodo, la tesi di Faulds fu avvalorata da William James Herschel, figlio dell’astronomo John Frederick, che già le utilizzava. Magistrato in India, aveva studiato per anni le summenzionate due caratteristiche. Fu, però, necessario ancora mezzo secolo per la definitiva consacrazione. Che si deve a Francis Galton ed Edward Henry. Grazie ai loro studi, infatti, già all’inizio del ‘900, fu accantonato il vecchio metodo antropometrico ideato dal criminologo francese Alphonse Bertillon, secondo il quale le impronte digitali erano soltanto segni particolari, quasi una bizzarria naturale. Galton pubblicò numerosi lavori scientifici, descrivendo l’ereditarietà, particolari caratteristiche di numerosi gruppi razziali, probabilità che due persone possano avere le stesse impronte e un sistema di classificazione delle stesse. Henry, nel 1897, pubblicò a sua volta il libro Classificazione e uso delle impronte digitali, opera di vitale importanza. Tanto che il Governatore Generale dell’India decretò che il sistema di classificazione Galton-Henry fosse quello da utilizzare ufficialmente nell’Impero Anglo-Indiano. I primi a subire le conseguenze delle nuove scoperte furono, nel 1902, un ladro, tale Harry Jackson e i fratelli Stratton, accusati di duplice omicidio e impiccati, nel 1905. In Italia, il rivoluzionario metodo si affermò grazie a un solerte funzionario di polizia, Giovanni Guasti, che apportò migliorie. L’identificazione decadattiloscopica è nota, infatti, anche come metodo Guasti. Di recente, la polizia americana ha elaborato il primo AFIS, Sistema automatizzato di identificazione delle impronte. Si tratta di un connubio hardware-software in grado di abbreviare i tempi di acquisizione, catalogazione e ricerca dei dati attraverso un algoritmo che codifica le impronte e le rende disponibili ai terminali a disposizione delle forze di polizia.
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