Con la pubblicazione di questo mini reportage, si conclude il lavoro d’informazione eseguito da Palermomania.it (articolo sulla rubrica “Venere” 8/11/2012), a cura del prof. Giuseppe Pitrone in collaborazione con l’ingegner Alessandro Martelli, circa la possibilità di un terremoto di elevata magnitudo denominato appunto Big One che potrebbe colpire parte del territorio italiano.
La complessità dell’argomento ha costretto a chiarire correttamente i molteplici aspetti dell’importante questione e, quindi, a dilungarsi, per potere meglio fare assimilare ai lettori il contenuto. Allo scienziato, i ringraziamenti della redazione tutta per la disponibilità manifestata.
Noi abbiamo fatto il nostro dovere: fornire corrette informazioni. Senza indulgere né a catastrofismi né a sensazionalismi. Non solo, faremo giungere al presidente Rosario Crocetta i risultati del reportage, nella certezza che prenderà in grande considerazione quanto emerso. Certo, il problema della sicurezza-prevenzione nei confronti di eventi naturali infausti si presenta ostico e, quindi, di non facile soluzione, ma è di vitale importanza creare almeno i presupposti per limitare al massimo eventuali effetti devastanti, soprattutto per quanto riguarda gli impianti industriali.
Big One
Premetto che quelle da lei citate per l’Italia Meridionale sono preoccupazioni espresse già nel gennaio di quest’anno ed immediatamente comunicate per iscritto alla Commissione Grandi Rischi dal Prof. Giuliano Panza, ordinario di sismologia all’Università di Trieste e responsabile del SAND Group all’ICTP. Se ne parlò poi in una riunione presso detta commissione il 4 maggio (quindi prima del terremoto in Emilia), riunione alla quale io partecipai come uditore. Il primo marzo scattò anche una preoccupazione della scuola italiana, che si occupa di terremoti “più modesti”, anche per il Nord Italia, ed anch’essa fu manifestata in quella riunione. È stato il prof. Panza il relatore. La preoccupazione per il Nord scattò, dunque, dopo quella per il Sud, ma comunque prima del terremoto in Emilia, che poi si è verificato.
Ma vediamo che cosa sono queste preoccupazioni. Come ho già avuto modo di spiegare in precedenti interviste (si veda, ad esempio, quella pubblicata dalla rivista online NextMe il 19 ottobre), i sismologi di Trieste e dell’Accademia Russa delle Scienze effettuano studi denominati “esperimenti di previsione” (o, più precisamente, “intermediate-term middle-range earthquake predictions”): semplificando un po’, in base a terremoti un po’ più piccoli (ma non molto) di quelli che si temono per una certa zona, monitorati in modo continuo nel tempo, detti sismologi utilizzano una serie di algoritmi basati sull’analisi fisica dei fenomeni (meccanismo di sorgente, trasmissione delle onde, etc.). Quando questo monitoraggio mostra anomalie di comportamento, gli studiosi vanno ad esaminare il problema per capire se queste anomalie sono preoccupanti o meno. Se risultano preoccupanti scatta un cosiddetto “allarme”. I risultati delle analisi, in particolare, sono distribuiti ad un certo numero di esperti (io, per esempio, li ho ricevuti, ma nella lista ci sono anche persone coinvolte a livello istituzionale). Pertanto, i primi di gennaio per il Sud e i primi di marzo per il Nord noi tutti della lista ricevemmo i rispettivi “allarmi”. Per fare un parallelo, è un po’ come se qualcuno si misurasse la temperatura corporea; se ad un certo punto questa ha un picco, si domanda se ha un raffreddore o sta ammalandosi di polmonite. Quindi, quando l’algoritmo mostra che è in atto una possibile “polmonite”, allora viene divulgato l’ “allarme”.
Quelle che ho prima citato, non sono, evidentemente, previsioni in senso stretto. Come ha ben sottolineato il prof. Panza, i terremoti non possono essere previsti con precisione. Cioè, non si possono prevedere, al di là di quello che qualcuno afferma, giorno e luogo esatto di un terremoto e neppure la sua magnitudo esatta. Ci sono delle notevoli incertezze, sia spaziali, sia temporali, sia relativamente alla possibile entità dell’evento.
Spaziali perché per disporre della base statistica necessaria per valutare se far scattare l’ “allarme” o meno, la zona esaminata deve essere necessariamente grande, quindi si devono analizzare parecchi eventi significativi e non “terremotini” di magnitudo 1: bisogna salire a valori di magnitudo superiori a 4. Dunque, per quanto riguarda il nostro Paese, per la scuola di Trieste, l’Italia è suddivisa in tre zone: Nord, Centro e Sud. Però, queste zone non sono strettamente quelle della cartina geografica, bensì le loro parti più soggette a rischio sismico. Il Nord, poi, inizia dalla ex-Jugoslavia e si incunea con una fascia stretta nel Centro, anche in parte in Abruzzo (fino a circa 10 km da L’Aquila); il Sud, invece, inizia da metà Campania e si estende fino comprendere tutta la Sicilia; il resto è il Centro. Poi è evidente che, in base ai dati storici di terremoti violenti in quelle zone, ci si preoccupa di più (e quindi si analizzano in dettaglio) porzioni più limitate. Per esempio, per il Nord, risultava una maggiore preoccupazione per l’Emilia. Ma poi, al di là delle scosse principali, il terremoto del Garda, quello di Ravenna ed anche quello di Piacenza, facevano comunque parte dello stesso fenomeno. L’epicentro si sposta, quindi un’analisi più stretta spazialmente non si può fare.
Quanto all’incertezza temporale, per in Nord si diceva: “È da temersi entro settembre”. Per il Sud, invece, l’incertezza temporale è più lunga: da qualche mese fino a 1-2 anni. Non vi sono ancora, neppure secondo la più avanzata scuola di sismologia, elementi che permettano di essere più precisi.
Infine, relativamente all’incertezza sulla magnitudo, noto che gli algoritmi sviluppati a Trieste permettono solo di definire il valore minimo di magnitudo dell’evento temuto (era 5,4 per il Nord ed è 5,6 per il Sud): i terremoti italiani di forte entità non sono sufficientemente numerosi per permettere stime più precise. Invece, l’Accademia Russa delle Scienze, che si occupa di “megaterremoti” (cioè di eventi magnitudo almeno pari a 7,5) a livello planetario e lo fa, quindi, utilizzando dati non limitati ad un singolo paese, stima un intervallo di magnitudo.
È preoccupante il fatto che, anche a seguito degli aggiornamenti degli studi sismologici effettuati all’inizio di novembre (tenendo conto dei più recenti eventi, incluso quello che ha interessato il Pollino), le preoccupazioni per il Sud siano risultate confermate, sia dalla scuola triestina che da quella russa (mentre già all’inizio di settembre era stato tolto l’ “allarme" per il Nord, pur senza potersi escludere, anche in tale area, ulteriori repliche anche di magnitudo attorno a 5).
Evidentemente gli “esperimenti di previsione” sono degli studi, quindi c’è una possibilità di fallimento. In base alle applicazioni che sono state fatte fino ad ora, i modelli manifestano una “riuscita” del 70 per cento circa, quindi significativa. Per cui, quando scattano questi allarmi non c’è da stare molto tranquilli. Quando a marzo fu allertato il Nord, dei due algoritmi usati dagli italiani ne aveva fatto scattare l’allarme solo uno, e il terremoto è avvenuto. Per il Sud (da metà Campania fino a tutta la Sicilia), purtroppo, tutti e due gli algoritmi italiani danno probabile, come ho detto, un terremoto nel medio termine di magnitudo maggiore di 5,6. I russi, che partono da una base dati nettamente diversa (perché studiano questi fenomeni a livello planetario) non hanno la suddivisione nelle zone che consideriamo noi, e nel loro studio allertano un’area che comprende la Sicilia orientale e la Calabria meridionale. Quindi non tutto il Sud, come allertano i modelli italiani, ma una zona, abbastanza vasta anche quella, concentrata, però, in quella parte del Sud Italia. E, purtroppo, il loro allarme è per un terremoto di magnitudo tra 7,5 e 7,9.
Premesso quanto ho prima cercato di chiarire (grande incertezza temporale e spaziale, e possibilità di fallimento), la vicenda di cui stiamo parlando nello specifico nacque, in realtà, da qualcosa di molto più “antico”: il problema della sicurezza sismica degli impianti chimici siciliani, soprattutto di quelli di Milazzo e di Priolo. Da vent’anni l’ENEA, che ha svolto indagini sul posto, così come l’APAT (l’attuale ISPRA), lamenta l’assenza di conoscenza sullo stato di vulnerabilità sismica degli impianti chimici italiani, in particolare di quelli siciliani che si trovano nella zona suddetta, in cui nel passato si sono avuti violenti terremoti (quello del 1908 a Messina, ma ancor peggiore fu quello del 1693, quando la piana di Catania, dove si trova Priolo, fu rasa al suolo). Eventi “rari”, forse, ma anche in Emilia il terremoto del 20 maggio è stato un evento “raro” (l’ultimo, forse un po’ più violento, si era registrato nel 1570), ed è avvenuto. Guardando la cosa da ingegnere, se i sismologi hanno ragione (e comunque se i terremoti ci sono già stati, prima o poi con tutta probabilità torneranno, quindi la questione si pone in senso assoluto, al di là delle loro “previsioni”), la cosa che preoccupa è la totale assenza di azioni concrete sulla sicurezza sismica degli impianti chimici, in particolare di quelli siciliani. Io mi sono mosso anche verso l’VIII Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici della Camera dei Deputati già nel 2011, ed il 6 settembre di quell’anno ci fu un’interrogazione parlamentare, presentata dal Presidente di quella Commissione, l’On. Angelo Alessandri, che denunciava l’assenza di queste azioni concrete. Il problema degli impianti chimici è totale: non esiste una normativa specifica per la loro progettazione sismica e sappiamo che, se cedessero, provocherebbero dei danni ambientali immensi e un numero enorme di vittime. Quando, il primo gennaio di quest’anno, furono comunicati gli “allarmi” dei sismologi di Trieste e russi, convinsi il Presidente Alessandri a trasformare in risoluzione quell’interrogazione parlamentare. Ciò avvenne il 31 gennaio, poi, in aprile, i temi della risoluzione entrarono a far parte di quelli affrontati nell’Indagine sullo stato della sicurezza sismica in Italia, ancora in corso al momento di quest’intervista (terminerà il 30 novembre).
Il problema della sicurezza sismica (ed anche a fronte del maremoto) degli impianti chimici RIR non si risolve in due giorni, questo è chiaro; però, intanto, bisogna iniziare a fare qualcosa, come per tutto quel costruito italiano che non regge ad un terremoto. E poi c’è un problema urgente, che a mio avviso va affrontato in tempi rapidissimi: capire come la Protezione Civile dovrebbe intervenire se si verificasse un evento del genere. La Protezione Civile non ha alcuna esperienza d’intervento nel caso di collasso grave di impianti chimici a seguito di un terremoto e/o di un maremoto. Questo non sarebbe il crollo di edifici nelle città: sarebbe una cosa diversa.
I giornali hanno “scoperto” questi problemi e ne hanno iniziato a parlare dopo il terremoto dell’Emilia, ma noi lo avevamo fatto molto prima. Solo che, naturalmente, fino a che il problema non c’è, nessuno se ne preoccupa. Poi, “toccare con mano” che pure in Emilia, che qualcuno riteneva esente da qualsiasi fenomeno sismico, il terremoto raro è avvenuto, ha scatenato la paura, frutto anche di una certa “coda di paglia”. Perché la gente da una parte non sa nemmeno come è la situazione della propria casa e dall’altra, però, sa che le Istituzioni non hanno mai fatto niente in termini di prevenzione sismica. Il 70 per cento almeno, forse l’80, del costruito italiano non è in grado di reggere al terremoto a cui potrebbe venire soggetto, e questo è frutto di decenni in cui non si è fatto niente. A me interessa questo: se fossimo in Giappone non mi importerebbe per niente che il terreno si muovesse o meno, perché strutture là reggono. Il movimento del terreno mi interessa perché noi abbiamo questi gravissimi problemi di vulnerabilità, anche in strutture che hanno un’enorme esposizione, come certi impianti chimici. La paura, però, va trasformata in volontà e richiesta di prevenzione: non si può tacere e far finta che non succederà niente, aspettando che giunga il terremoto. Bisogna ridurre il più possibile le conseguenze di questo evento, se mai avvenisse. Tanto, anche se non avverrà entro due anni, prima o poi verosimilmente tornerà. Quindi, se il problema non iniziamo a risolverlo adesso, lo regaleremo ai nostri discendenti, figli, nipoti o forse anche generazioni successive: però dovrebbe importarci qualcosa di loro, penso.
Noi vogliamo che questa preoccupazione entri nella testa della gente. Io ho ricevuto certe lettere, alcune di insulti, altre di senso opposto. Molti, però, a seguito delle mie risposte (ho risposto a tutti), poi hanno capito e sono arrivati a chiedere anche cose “banali”, su come possono proteggersi. Questo mostra che una delle cose che non si sono fatte e che bisogna fare (anzi, che queste preoccupazioni dovrebbero spingere a fare) è la corretta informazione della popolazione. La gente reagisce con il panico perché non ha la minima informazione sui comportamenti da tenere, sulle cose da verificare. È chiaro che non possiamo evacuare il Sud Italia per due anni, e nemmeno la Calabria meridionale e la Sicilia orientale, ma le Istituzioni possono verificare le strutture strategiche, come gli ospedali, le scuole, gli impianti “a rischio d’incidente rilevante”, possono iniziare una corretta informazione della popolazione su come ci si deve comportare, e possono ottimizzare il sistema di funzionamento della Protezione Civile. Queste sono le cose che si possono fare, e a questo servono gli studi dei sismologi che ho citato. Di più no, per il momento.
Non sono un esperto della materia, ma, in generale, non credo. Ricordo che, durante la “Guerra Fredda”, i russi, per mascherare i loro esperimenti nucleari, facevano esplodere bombe atomiche in corrispondenza di faglie, in modo da innescare terremoti tettonici: si trattò, però, di terremoti di modesta entità.
Quanto ai possibili effetti di stoccaggi sotterranei di gas naturale, l’ENEA, a seguito dell’audizione del 30 maggio mia e dell’ing. Paolo Clemente in occasione della già citata Indagine conoscitiva sullo stato della sicurezza sismica in Italia, rispondendo ad un quesito di una componente dell’VIII Commissione della Camera dei Deputati circa la pericolosità dello stoccaggio sotterraneo di gas naturale nell’area di Rivara (Modena), rispose quanto segue: «Secondo i dati forniti dal MiSE, attualmente i campi di stoccaggio attivi in Italia sono 10, tutti realizzati in corrispondenza di giacimenti di gas esauriti, mentre 14 sono le concessioni vigenti. La capacità di stoccaggio di gas naturale al 31 dicembre 2010 era pari a circa 14.700 milioni di standard metri cubi (MSmc), di cui 5.100 MSmc per stoccaggio strategico. Il Decreto Legislativo 130/2010 prevede uno sviluppo fino a 8000 MSmc della capacità di stoccaggio. Per quanto riguarda la sismicità indotta, a seguito di lavori di estrazione e successivo stoccaggio, possono verificarsi terremoti anche in aree non sismiche. L'esperienza dimostra che questi terremoti, in genere, hanno effetti locali e bassa magnitudo, ma non mancano casi più significativi, come quelli di seguito richiamati.
Dal 1986 ad aprile 2009 nei Paesi Bassi sono stati registrati 606 eventi sismici, di magnitudo fino a 3,5, indotti dall'attività estrattiva di gas. La sismicità indotta è monitorata mediante reti sismometriche in pozzo, a circa 200 m, ed accelerometri. I pozzi esausti, 3 al 2009, utilizzati per lo stoccaggio non hanno finora indotto sismicità. Il 12 marzo 1994 il collasso di parte di una miniera di sale, Retsof Salt Mine New York, è stato registrato dalle reti sismiche e l'evento è stato valutato di magnitudo 3,6. Il 3 febbraio 2001 è stato registrato un evento di magnitudo 3,2 a Avoca, New York, durante i lavori di fratturazione idraulica di strati salini per la realizzazione di uno stoccaggio sotterraneo di gas. A Denver, in Colorado, a seguito della realizzazione di un waste disposal alla profondità di 3.670 m e con pressione di iniezione 7,6 MPa, è stato registrato un sisma di magnitudo 5,5. Nell'area denominata The Geysers, in California, l'estrazione a scopi geotermici alla profondità di 3000 m ha causato un sisma di magnitudo 4,0. Diversi i casi di sismicità indotta da secondary recovery (pozzi per petrolio): a Snipe Lake, nell'Alberta in Canada, è stato registrato un sisma di magnitudo 5,1, mentre a Cogdell, in Texas, un sisma di magnitudo pari a 4,0; numerosi gli eventi di minore intensità. In definitiva, si ritiene che il problema non debba essere sottovalutato, soprattutto se si interviene in aree già sismiche. Con particolare riferimento all'Emilia, appare ovvio che la recente sequenza sismica debba far riflettere sull'opportunità di realizzare uno stoccaggio importante in quella zona. Quantomeno, se si deciderà di mantenere in vita il progetto, si ritiene indispensabile un approfondimento.»
Ciò che, nelle zone ad elevato rischio sismico, i singoli possono e dovrebbero fare è frequentare luoghi / edifici il più possibile sicuri, verificare le condizioni della propria abitazione e, se necessario, intervenire per renderla sicura, scegliere una scuola sicura per i propri figli e pretendere dalle istituzioni che facciano il loro dovere.
Se, come tutti speriamo, le preoccupazioni dei sismologi per il medio termine per il Sud risulteranno eccessive, le misure suaccennate non significheranno tempo e denaro persi, perché è purtroppo molto probabile che eventi già verificatisi in passato prima o poi si riverificheranno. La tecnologia (ovviamente se abbiamo a che fare con edifici non eccessivamente fatiscenti) ormai permette di difendersi adeguatamente dal terremoto, anche se molto violento e per difendersi dal maremoto sono sufficienti adeguate barriere: dobbiamo solo diventare un po' "più giapponesi", ma possiamo farcela. Ovviamente, attuare quanto sopra costa, ma – credo – anche la vita ha un “certo” valore. E poi, se si inizia ad intervenire sull’edificato esistente insicuro, nel giro di 50-60 anni (purtroppo difficilmente prima, a meno di non introdurre un’assicurazione obbligatoria) si inizierà pure a risparmiare: ricordiamo, infatti, che riparare i danni causati dal terremoto costa almeno il triplo di quanto si sarebbe speso se si fosse intervenuti prima dell’evento.
Un problema è, però, per il comune cittadino, la scelta dell’esperto al quale far eseguire le verifiche e gli eventuali lavori: non basta essere laureati in ingegneria, neppure edile, per essere esperti di ingegneria sismica; è difficile distinguere, per il comune cittadino, fra un “vero” esperto ed i tanti che millantano di esserlo. Questo problema è stato sottolineato dagli esperti dell’ENEA e di alcune Università nel corso dell’Indagine conoscitiva in fase di conclusione alla Camera dei Deputati: occorre che il Legislatore definisca una sorta di albo degli esperti. Nel frattempo, il comune cittadino è purtroppo costretto ancora una volta ad “arrangiarsi”, chiedendo consiglio, ad esempio, alle associazioni del settore ed alle università.
Come ho già sottolineato in ottobre nella rubrica dell’associazione GLIS (da me presieduta) del n. 3-2012 della rivista 21mo Secolo – Scienza e Tecnologia, nel concludere un articolo pubblicato nel 2011 da Il Giornale dell’Ingegnere, riguardante il comportamento degli impianti nucleari di Fukushima durante e dopo il terremoto e maremoto di Tohoku dell’11 marzo di quell’anno, io e l’ing. Massimo Forni dell’ENEA, segretario generale del GLIS e dell’ASSISi, osservavamo: «Da ultimo, ci preme sottolineare che quelli nucleari non sono gli unici impianti a rischio di incidente rilevante che occorre proteggere dal terremoto: lo sono anche numerose tipologie di impianti e componenti chimici, di cui un numero significativo ha già riportato gravi danni in occasione di eventi sismici (incluso quello di Tohoku) e che, fra l’altro, sono già presenti anche in Italia, pure in aree alquanto sismiche. Anche per nuove realizzazioni od interventi di adeguamento in questo settore, l’isolamento sismico si presenta spesso come una tecnica di agevole applicazione e di grande efficacia».
Il segnale d’allarme lanciato nel succitato articolo ed i suggerimenti ivi riportati restarono purtroppo inascoltati e la stessa sorte subirono analoghi moniti lanciati successivamente dall’ENEA, in particolare in occasione di alcune importanti manifestazioni dedicate alle “lezioni del terremoto di Tohoku”. Del resto ciò era avvenuto anche precedentemente, nonostante da vari anni il GLIS e l’ENEA avessero tentato di portare all’attenzione delle istituzioni, dei media e dell’opinione pubblica il problema della sicurezza sismica degli impianti e dei componenti chimici RIR.
La suddetta disattenzione cessò solo a seguito di quanto fu messo in evidenza, sul rischio sismico degli impianti chimici RIR, in occasione della Giornata di Studio «Lezioni del Terremoto di Tohoku», tenutasi nella sede dell’ENEA di Roma il 1° luglio 2011, e, soprattutto, a seguito della già citata interrogazione parlamentare presentata il 6 settembre 2011 dal Presidente dell’VIII Commissione della Camera dei Deputati, su proposta del GLIS. Grazie a tale interrogazione e ad un incontro tenutosi a Milazzo del 2 dicembre 2011, l’argomento iniziò finalmente a riscuotere notevole interesse da parte dei media e della popolazione. Purtroppo, però, non quello delle istituzioni, neppure dopo le gravi preoccupazioni espresse e ad esse comunicate all’inizio di gennaio 2012 dal team dell’Università di Trieste e dai sismologi dell’Accademia Russa delle Scienze, in base ai risultati dei loro “esperimenti di previsione”, circa il possibile verificarsi, nel “medio termine”, di un violento terremoto nell’Italia Meridionale, soprattutto (secondo gli esperti russi), in un’area che comprende la Calabria Meridionale e la Sicilia Orientale (comunque, in una vasta area, non certo in una località precisa). Pertanto, come ho già accennato, il 31 gennaio 2012, la suddetta interrogazione fu trasformata in risoluzione in Commissione; inoltre, il tema della protezione sismica degli impianti chimici RIR fa parte di quelli esaminati nell’ambito dell’Indagine conoscitiva sullo stato della sicurezza sismica in Italia, attualmente ancora in corso alla Camera dei Deputati, con l’audizione di alcuni esperti (incluso il sottoscritto).
Nonostante nuove manifestazioni scientifiche e d’informazione sulla sicurezza sismica degli impianti chimici RIR tenutesi, in particolare, in Sicilia (ad Augusta ed Messina, rispettivamente in febbraio e marzo 2012) ed il moltiplicarsi degli articoli di stampa e dei reportage televisivi e radiofonici (soprattutto a seguito dell’inizio degli eventi sismici in corso in Emilia e della divulgazione del fatto che, nei primi giorni di marzo 2012, i sismologi dell’Università di Trieste avevano espresso le loro preoccupazioni anche per il Nord Italia), le istituzioni continuano a restare inerti; nel frattempo è stato fatto assai poco in termini di prevenzione, quantomeno per limitare le gravissime conseguenze che un violento terremoto (seguito o meno da un maremoto) potrebbe avere se colpisse le aree siciliane di Milazzo o di Priolo, e, invece, si sono fatte tante sterili e dannose polemiche.
Tali polemiche, nate a seguito delle mie dichiarazioni specialmente dopo il terremoto in Emilia, hanno travisato le posizioni da me espresse circa gli "esperimenti di previsione" dei terremoti e circa le preoccupazioni espresse dai già citati noti sismologi anche per il Meridione. Ciò ha inutilmente e dannosamente invelenito il clima, creando anche situazioni di panico e distogliendo l’attenzione dall’obiettivo principale: quello di avviare urgentemente una seria politica di prevenzione, per quanto attiene le costruzioni sia civili che industriali, in particolare (ma non solo) nell’Italia Meridionale. Come ho già sottolineato, le informazioni ad oggi disponibili ci dicono che i terremoti possono essere previsti, con elevata significatività statistica, ma con grandi incertezze spazio-temporali e con la possibilità di falsi allarmi. Queste informazioni devono, dunque, essere utilizzate in modo adeguato, per intraprendere con urgenza azioni di prevenzione che saranno essenziali se il forte terremoto si verificherà effettivamente, ma che risulteranno utili anche in caso di falso allarme, ossia se il forte terremoto non si verificherà (tali azioni riguardano, ad esempio, come pure ho già accennato, la verifica e l’eventuale messa in sicurezza di strutture particolarmente a rischio, la preparazione del sistema di protezione civile, l’informazione della popolazione, ecc.).
In realtà, io e gli altri gli esperti dell’ENEA ci siamo limitati ad applicare le nostre competenze in materia di ingegneria sismica al fine di valutare il rischio riguardante gli impianti chimici RIR, che sono caratterizzati da un’altissima esposizione e, come si è detto, da una vulnerabilità sismica assai sovente quantomeno ignota. Ovviamente, ai fini di tale valutazione, non potevamo prescindere dalle preoccupazioni e dai risultati degli “esperimenti di previsione” dei summenzionati sismologi, dato che trattasi di esperti di fama mondiale. Nel rendere noti i risultati di tali valutazioni, riguardanti l’Italia Meridionale, l’unico obiettivo mio e dell’ENEA è stato, come sempre, di stimolare le istituzioni ad attivare le necessarie misure, di loro competenza, ed a dare, nei limiti del possibile, la necessaria informazione all'opinione pubblica.
Nell'opera di informazione e di stimolo che da tempo (non da qualche giorno, come è facilmente verificabile) l’ENEA svolge (assai inascoltata), accade purtroppo sovente che le dichiarazioni dei suoi esperti siano stravolte, purtroppo non solo dai media: questo, però, è un rischio che si deve correre, perché tacere è ancora peggio. D’altra parte, ciò che io e gli altri esperti dell’ENEA abbiamo effettivamente dichiarato e dichiariamo è testimoniato, ad esempio, dai reportage trasmessi dalla RAI sino da aprile (cioè da ben prima del terremoto in Emilia), nonché dai servizi recentemente predisposti da ENEA Web TV e da interviste radiofoniche rilasciate dai suoi esperti, in particolare alla RAI e ad emittenti radiofoniche siciliane, calabresi ed abruzzesi. Tutto è facilmente reperibile in Internet, nella rubrica “L’ENEA in onda” della “Rassegna stampa ENEA”.
Giova ripetere che la paura che il terremoto ha suscitato nell'opinione pubblica al sud (essendovene uno in corso al nord) deriva dal fatto che molti si rendono solo ora conto, "toccando con mano" il problema, di quanto insicure possano essere le loro abitazioni, le scuole ove studiano i loro figli, i luoghi che frequentano e dal fatto che molti solo ora hanno aperto gli occhi, divenendo consci delle gravi carenze che affliggono l'Italia in materia di prevenzione sismica. Occorre certamente evitare di creare il panico, ma occorre anche non tacere il problema e mirare a trasformare questa paura in “voglia di prevenzione”: non è un obiettivo impossibile, anche se, certamente, il percorso è zeppo di insidie.
Questo non è il momento per sterili polemiche (soprattutto fra diverse istituzioni), bensì quello di collaborare al meglio per avviare finalmente una corretta politica di prevenzione anche in Italia.
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