Una storia semplice è il titolo di un romanzo breve scritto da Leonardo Sciascia. Su precise disposizioni testamentarie dell’Autore, fu pubblicato il giorno della sua morte, avvenuta il 20 novembre 1989. Si tratta di un poliziesco, suscitato da un fatto realmente avvenuto. Ho letto e gradito, come sempre. Ancor più mi è piaciuta la trasposizione cinematografica del 1991, con lo stesso titolo del libro, la regia di Emidio Greco e l’insuperabile interpretazione di Gian Maria Volonté nel ruolo del professor Franzò. Ho esaminato molte recensioni del romanzo e quasi tutte mettono in risalto che, a dispetto del titolo, la storia è tutt’altro che semplice. Non sono un critico, ma credo poco a questa tesi. La definirei profonda, nel senso che Sciascia scava in profondità nelle anomalie sociali, evidenziando che nei ruoli importanti spesso si assidono, o sono fatti assidere, i più ottusi e incapaci. Del resto, a chi non è capitato di parlare con qualche pezzo grosso che fa trasparire tutta l’inettitudine possibile e immaginabile? Per quanto mi riguarda, raramente ho avuto modo di conoscere dirigenti dalle caratteristiche in linea con l’importanza del ruolo esercitato. D’altronde, è il principale merito del grande scrittore avere fatto piena luce su simili contraddizioni. In questa sua opera riesce ancor meglio che in altre, sempre a mio modesto parere. Dunque, il romanzo è caratterizzato da personaggi autorevoli che, oltre all’ottusità, emergono per l’arroganza derivante dalla detenzione di una grande autorità. Tali individui svolgono indagini sulla morte alquanto misteriosa di un uomo importante, Giulio Roccella. Giungono subito a conclusioni tanto affrettate quanto inesatte. Solo un acuto vicecommissario intuisce la verità e si batte per il trionfo della stessa. Esaminiamo i personaggi. Il commissario: quasi ogni mattina entra in ufficio ripetendo, con monotonia, anche gli uccelli cadrebbero stecchiti per il freddo. Suo compito prediletto è umiliare il giovane e acuto subalterno che deve tacere e sopportare. Il questore: all’incirca stessa pasta del primo, entrambi elaborano teorie strampalate sulla genesi della morte, inizialmente etichettata come suicidio. Elaborano e fanno di tutto per imporle, solo in virtù di cieca presunzione: dirigenti di elevato livello, infatti, non possono sbagliare. Colonnello: uno che non vuole rogne e si adagia sulle conclusioni altrui. Il magistrato: il più deficiente tra tutti. E il più arrogante. Riporto, parola più parola meno, il colloquio tra costui e il professor Franzò, suo ex docente e amico di Roccella. Il professore è stato convocato per testimoniare, in quanto ultima persona a parlare con il presunto suicida.
“Professore, la prego, mi dia del tu”.
“No! Il lei, come allora”.
“Mi tolga una curiosità: nei compiti di italiano lei mi metteva sempre 3. Una volta, però, ho preso 5. Perché?”
“Perché quella volta aveva copiato da un autore più intelligente”.
“Già, l’italiano... come vede, però, non mi ha impedito di arrivare dove sono arrivato”.
“Sì, ma l’italiano non è… l’italiaaano, è ragionare. Se lo avesse studiato meglio, sarebbe in ancor più prestigiosa posizione professionale”.
“Bene. Allora mi ripeta la sua testimonianza. E me la ripeta in perfetto italiano!”
Come si può notare, quando il somaro ha la peggio, ricorre all’autorevolezza del ruolo. E con me lo dica in perfetto italiano tenta di ridicolizzare l’anziano docente. È la tipica reazione di chi ha fatto carriera non certo per meriti. Lo stesso comportamento è assunto dal commissario che, infastidito dall’acume di Franzò, vuole sentire la testimonianza stessa parola per parola, sperando di trovare una falla o contraddizione e rivalersi. Bellissima la risposta: Pronto? Franzò? Come se tale ovvietà potesse apportare ulteriore beneficio alla discussione. Il professore risponde non certo per timore reverenziale, ma per soddisfare l’imbecillità del funzionario. Importante, in particolare, il ruolo di un altro protagonista, l’uomo della Volvo. Si tratta di un informatore scientifico del Nord che, giunto in Sicilia guidando, appunto, l’auto svedese, suo malgrado è coinvolto nelle indagini. Si comporta con grande senso civico, ma i summenzionati presuntuosi lo ritengono individuo sospetto e lo trattengono per parecchio tempo. Dopo l’accertamento dei fatti per come realmente avvenuti, è rilasciato. Mentre si appresta a uscire dall’ufficio, incontra padre Cricco, altro protagonista, tutto fuorché un buon sacerdote. Riprende la strada e ricorda un particolare determinante per fare arrestare un altro colpevole. Ferma la Volvo, riflette, inverte la marcia e si accinge a testimoniare ancora una volta. D’improvviso nuova fermata e nuova inversione. Di problemi ne ha già avuti fin troppi, con simili teste di sughero. “Pensò di tornare indietro, alla questura. Ma un momento dopo: > E che, vado di nuovo a cacciarmi in un guaio, e più grosso ancora?< Riprese cantando la strada verso casa.
Nel libro, l’Autore non cita mai alcune parole, quali mafia o criminalità. Il Maestro sapeva bene che scrivere significa anche dire senza dire. Tuttavia, emergono in modo superbo le grandi sciagure della Sicilia, prima tra tutte una rete burocratica inadatta, vile, desiderosa soltanto di pax sociale, anche se basata sulla menzogna e l’ipocrisia.
Con la più grande modestia, consiglio di leggere il libro e vedere il film Una storia semplice.
P.S. A proposito dell’uomo della Volvo: e poi certa gente si lamenta perché gli onesti cittadini fanno di tutto per non collaborare allo svolgimento di indagini particolarmente delicate e pericolose! Nessuna, giustificazione, per carità. Ma il comportamento è, quantomeno, comprensibile.
Giuseppe Pitrone
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